La formazione di un governo a Vienna di chiare tendenze nazionaliste, dove una parte delle forze politiche in esso presenti è connotata per l’appartenenza alla galassia della destra radicalizzata (a partire dall’inquietante Partito della Libertà di Heinz-Christian Strache), è un chiaro segnale dell’indirizzo che una parte sempre più consistente dell’Europa sta assumendo.
In questa situazione, decisamente problematica, le dichiarazioni di alcuni esponenti politici austriaci riguardo alla possibilità di estendere la cittadinanza del loro Paese ai cittadini italiani di lingua tedesca, presenti nel Trentino-Alto Adige (quasi tutti residenti nella provincia di Bolzano), sta sollevando perplessità come anche molti timori. Non solo perché questi ultimi appartengono ad una minoranza linguistica e culturale fortemente agevolata dalle politiche dei governi italiani, quindi in condizione di oggettiva tutela, ma anche e soprattutto perché la pratica di riconoscere a cittadini di altre nazioni la propria cittadinanza (nel nome di una comunanza di radici “etniche” che scavalcherebbe i confini, potendo così mettere in discussione l’altrui sovranità), evoca immediatamente fantasmi recenti.
Solo per fare un qualche parallelismo storico, senza stabilire ovviamente delle immediate equazioni, si pensi che tutta la politica espansionista di Hitler negli anni Trenta era stata basata sulla rivendicazione sia di uno «spazio vitale» per le popolazioni di lingua tedesca, sia sulla ricerca di vie di unificazione territoriale tra la Germania e le minoranze tedesche presenti in Europa, soprattutto ad Est. La vicenda dei «tedeschi dei Sudeti», la minoranza che viveva nell’allora Cecoslovacchia, paese che nel 1938 fu prima amputato di una parte dei suoi territori e poi definitivamente smembrato, costituisce un precedente significativo. I «Sudetendeutsche», circa quattro milioni, erano stanziati lungo la regione dei monti Sudeti, e le aree di confine dell’attuale Repubblica ceca, così come nelle cosiddette «Sprachinseln», le isole linguistiche delle regioni storiche di Boemia e della Moravia. Le enfatiche richieste di Hitler furono accettate, all’epoca, da un consesso di nazioni imbelli e da classi dirigenti europee incapaci di fare fronte alla crisi politica ma anche sociale in cui l’intero Continente stava scivolando.
Hitler e Mussolini sapevano che il sistema di accordi diplomatici e di equilibri geopolitici nati con la fine della Prima guerra mondiale stava definitivamente tramontando. Giocavano d’azzardo ad alzare sempre di più la posta, fino ad arrivare ad una guerra che avevano messo già messo in conto. Oggi non abbiamo a che fare con dittatori, ma non è meno vero che l’Unione Europa, l’istituzione collettiva che avrebbe dovuto governare i processi di integrazione e di globalizzazione a favore degli Stati che ne sono parte costitutiva, è non meno in crisi. Lo si era già visto una ventina di anni fa, dinanzi ai percorsi di disgregazione politica ed etno-nazionalista della ex-Jugoslavia. A fronte delle spinte alla segmentazione dei territori che, ancora una volta, come già era avvenuto nel 1914 e poi nel 1939-40, arrivavano da una parte dei Balcani, la risposta era stata non solo debole ma sospetta, rivelando inconfessabili calcoli d’interesse. Ogni Stato aveva portato avanti le proprie istanze, a partire dalla Germania, di fatto ostacolando i debolissimi tentativi di ricomposizione negoziata, per poi invece agevolare i movimenti indipendentisti. Anche questo è un inquietante precedente storico, a noi molto più prossimo, che deve indurci a riflettere. Dopo di che, in Italia, nel 1994, l’adozione di alcune norme sulla cittadinanza relativa agli ex cittadini italiani che, dopo il trattato di pace di Parigi del 1947 avevano continuato a risiedere nei territori che erano entrati a fare parte della Croazia jugoslava (nelle regioni dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia), aveva permesso a questi di riacquistare il passaporto, mantenendo la doppia cittadinanza. Ma si trattava, per l’appunto, o di persone che già erano state italiane oppure dei discendenti di primo grado, candidabili – però – solo se risiedenti nel nostro Paese da almeno tre anni.
Radicalmente diverso, quindi, è il pronunciamento austriaco, che semmai segue il percorso che già negli anni scorsi l’Ungheria di Viktor Orbán – altro Paese nel quale l’autoritarismo è oramai un fatto compiuto, ovvero una chiara tecnica di governo – aveva intrapreso con il rifarsi al “magiarismo”, anch’esso inteso come una radice etnica profonda, al di sopra dei confini nazionali. Così come anche in Polonia e, più in generale, nei paesi del «gruppo di Visegrád» (la stessa Polonia, l’Ungheria, la Repubblica ceca e la Slovacchia), la cui alleanza diplomatica si caratterizza sempre di più per le posizioni espressamente regressive che va manifestando sul piano politico, istituzionale e civile.
Cosa sta succedendo, quindi? Il fascismo sta tornando in Europa? Procediamo per gradi, poiché la matassa è aggrovigliata e dinanzi all’evolvere delle cose è bene cercare di capire quali siano gli assi del mutamento politico che è in atto nel nostro Continente.
Un primo dato da cui partire è che temi ed organizzazioni di natura populista, termine sotto il quale si raccolgono una pluralità di partiti e gruppi, riescono ad ottenere buoni riscontri elettorali un po’ ovunque. Ciò non li candida sempre e comunque all’essere, o al divenire, forze di governo ma senz’altro li premia con un insediamento di consensi consistente. Se i loro esponenti non siedono sugli scranni dell’esecutivo sono tuttavia sempre più spesso tra coloro che si presentano come le autentiche forze di “opposizione” allo stato di cose esistente. Lo fanno non più solo come attori marginali, di piazza, ma anche e soprattutto in quanto soggetti parlamentari, con un robusto seguito di adesioni, quindi con un elevato grado di legittimazione. Di fatto, la destra populista europea sta dettando una parte dell’agenda politica collettiva, orientando il baricentro degli umori popolari e radicalizzandoli verso quegli obiettivi che da sempre sono quelli tipici dei movimenti fascistoidi: il rifiuto dell’immigrazione, dipinta come un’invasione; l’avversione contro le élite dirigenti tradizionali, denunciate come “traditrici dei popoli”; l’ostilità nei confronti degli istituiti democratici, rappresentati come inadatti dinanzi alla sfida dei tempi; l’esaltazione di un’appartenenza etnica che ha una profonda radice razzista e che nega alla radice il significato della moderna cittadinanza, basata invece non sulle origini di censo e di luogo ma sui diritti collettivi.
Una tale destra, intimamente illiberale e antidemocratica, si presenta vestendo i panni di colei che libererà una volta per sempre i «popoli» dal cappio del «mondialismo», la parola con la quale stigmatizza gli effetti dei processi di globalizzazione. In realtà il suo obiettivo è quello di trasformare il conflitto sociale, ovvero il legittimo confronto tra interessi materiali ed economici contrapposti, in un conflitto etno-nazionalista. Anche da ciò, quindi, l’ossessione non solo per i confini, i muri, le linee di divisione da erigere contro le «invasioni» ma soprattutto l’esaltazione del vincolo etnico, la delirante e lucida fantasia per cui non si hanno diritti se non si appartiene al medesimo «popolo». Tale appartenenza deve essere intesa esclusivamente come di ceppo, di stirpe, di ancestrale origine. Quindi di razza. Il discorso della destra austriaca, in questi giorni, va in quel senso, al di là delle pallide rassicurazioni che i governanti di Vienna fingono di volere offrire.
Qualcosa del genere, pur con tutti i distinguo che la storia ci impone, era già avvenuto negli anni bui del Novecento. Lo diciamo ponderando il giudizio, non per facile allarmismo. Lo diciamo per fare un esercizio di buona memoria. La forza di questa nuova/vecchia destra, ad oggi, è quella di capitalizzare a proprio favore il malcontento dilagante, i tanti disagi e i molti malumori che attraversano i Paesi europei. Così facendo, simula di volersi contrapporre alle tecnocrazie che invece accompagnano lo sviluppo del capitalismo contemporaneo, soprattutto laddove questo sembra presentarsi ed agire senza nessuna considerazione per gli effetti sociali delle scelte che va imponendo unilateralmente alle collettività.
Un secondo elemento da considerare è che gli elettori e i sostenitori di questo composito fronte di forze oltranziste, non si contano necessariamente tra coloro che di più e peggio hanno pagato dazio per la crisi, con i grandi cambiamenti che ne sono seguiti, in questi ultimi dieci anni. Votano infatti per i partiti del populismo segmenti di popolazione ed elettorati appartenenti a nazioni che non si trovano nelle peggiori condizioni. Il caso austriaco è, da questo punto di vista, emblematico. Non esiste, quindi, un’immediata equazione tra disagio socio-economico e scelta elettorale. Semmai, ciò che queste forze più e meglio riescono a captare e a tradurre in convincenti slogan, quindi di ampio richiamo, è la sensazione di smarrimento che una parte consistente della popolazione europea vive dinanzi a quello stato delle cose con il quale deve confrontarsi quotidianamente. Un tale riscontro deve indurre, già in sé, a riflettere su quanto stia per davvero avvenendo. Poiché indica che tali persone, spesso appartenenti ad un ceto medio in difficoltà, non si sentono rappresentate dei vecchi partiti.
Parallelamente all’affermarsi del populismo e del radicalismo di destra, infatti, si misura la crisi, che in alcuni casi diventa un vero e proprio crollo, dei partiti riformisti, soprattutto di area socialista e socialdemocratica. Il comune denominatore tra questi ultimi è l’avere accettato, se non sposato, da almeno una ventina di anni le posizioni liberiste o comunque neoliberali, venendo meno a qualsiasi prospettiva autenticamente riformista. Anche qui, per meglio intendersi, va riscontrato che esiste un nesso tra la nascita, la crescita e l’affermazione del populismo di destra e la progressiva delegittimazione elettorale e politica di ciò che resta sia dei partiti della sinistra storica che dell’area centrista, di estrazione popolare. Le evidenti difficoltà di questi ultimi, la mancanza di strategie politiche incisive, l’abdicazione da un ruolo di direzione dei processi sociali, l’accettazione supina dell’«ideologia della morte delle ideologie», quella che dice che lo stato delle cose non può essere cambiato e va quindi accettato per come si presenta, decreta l’ininfluenza e poi l’inutilità di formazioni politiche che dichiarano di volere ancora governare ciò che, nei fatti, accettano invece come immodificabile. Si tratta di una crisi trasversale, che colpisce la vecchia e residua sinistra, sempre più lontana dai temi del lavoro, così come i centristi e i popolari, a loro volta in affanno, non essendo più percepiti come il perno della stabilità.
Peraltro, gli stessi temi della «stabilità» e della «moderazione» oggi non hanno più la risonanza, l’eco e il consenso che anche solo un decennio fa potevano ancora raccogliere. Gli elettori si sono fatti insoddisfatti ed inquieti, radicalizzandosi nelle loro scelte: premiano, quindi, coloro che ne sanno rappresentare i malumori e i timori per un futuro a venire che si è fatto incerto. Poco o nulla serve il dire all’elettorato che un voto di questo genere rischia di rivelarsi non solo illusorio ma controproducente se non addirittura avvelenato. Poiché l’alternativa ad esso, ovvero il continuare a dare il proprio consenso ai vecchi partiti, è comunque percepito dai molti come una sorta di autoinganno. Perché offrire un assenso a forze politiche tradizionali che hanno già dimostrato di non potere, né forse volere, gestire i cambiamenti in atto?
Dalla crisi della politica il fascismo di sempre, quello del passato e del presente, prende forza e vigore. Di essa, infatti, si alimenta come falsa alternativa, come illusoria risposta, come semplificazione e banalizzazione della complessità dei tempi difficili. Simula d’essere un nuovo orizzonte, la luce oltre il tunnel, quando invece costituisce la tomba del futuro. Il vero innesco della grandi difficoltà odierne è il senso di abbandono, dinanzi ai problemi quotidiani, che non pochi europei stanno condividendo, non trovando altra convincente rappresentanza che non sia quella offertagli dal radicalismo di destra o dai populismi. La crisi è sociale, mettendo in discussione la prospettiva di un’esistenza serena a venire, ma diventa da subito anche di natura politica quando il disagio collettivo non trova interlocutori tra le classi dirigenti. Dalla persistenza e dal ripetersi di questo drammatico scollamento, se non si porrà un qualche rimedio ad esso, potranno derivare solo drammi collettivi. La storia non si ripete, ma certi suoi elementi si ripresentano tragicamente. Siamo ad un bivio, oltre il quale il rischio che ciò che resti del progetto europeo cada nel baratro, consegnando le nazioni ad un sovranismo aggressivo e antidemocratico, sta dietro l’angolo. La prima lezione che ci arriva da un’Austria sempre più grigia, se non nera, è questa. Sarebbe bene non doverne ricevere una seconda per capire quale sia l’antifona.
Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore
Pubblicato giovedì 21 Dicembre 2017
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