1. – Il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali insieme con la prescrizione che ciò deve avvenire nel rispetto dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, costituiscono il cuore di questo articolo della Costituzione, volto a caratterizzare la nostra forma di Stato. Esso va raccordato con le più specifiche disposizioni contenute nel Titolo V della parte II della Costituzione, che si apre con la solenne enunciazione dell’art. 114 (nel testo modificato nel 2001), secondo cui “la Repubblica (nota dell’autore: intesa come comunità nazionale degli italiani) è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (nota dell’autore: inteso come apparato governante centrale).
L’idea di base è dunque che l’ordinamento è fondato su enti autonomi, cioè capaci di esprimere una propria linea politica nella cura di interessi territorialmente definiti; principio questo che si integra con quanto ora dispone l’art. 118 in materia di sussidiarietà verticale: il Comune – cioè l’ente territoriale più vicino ai cittadini – è, in linea di principio, titolare delle funzioni amministrative, ma queste possono essere allocate ad un livello via via superiore (alla Provincia, alla Città metropolitana, alla Regione o allo Stato), quando ciò sia necessario per il suo esercizio unitario.
In questo quadro, in cui la promozione delle autonomie territoriali dà vita ad un complesso pluralismo istituzionale ed in cui si prevede un ampio decentramento territoriale delle funzioni amministrative statali, in modo da avvicinare quanto più è possibile l’Amministrazione al cittadino, si colloca però il limite dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. Unità politica, in quanto le manifestazioni delle autonomie, pur libere, devono soggiacere a controlli, non solo di legittimità, ma anche di merito che possano permettere alle istanze centrali di far prevalere l’interesse nazionale su eventuali manifestazioni centrifughe degli enti autonomi; indivisibilità della Repubblica, in quanto la potestà sovrana che ad essa si riconduce non permette secessioni di alcun tipo.
2. – Il quadro ora abbozzato delle autonomie territoriali nel nostro Paese non deve però trascurare che, accanto alla loro solenne proclamazione nell’art. 5, il titolo V della Parte II si preoccupava nella sua versione originaria di delinearne i particolari, da una parte prevedendo solo per le Regioni l’esercizio di funzioni legislative, dall’altra assoggettando sia le leggi regionali sia gli atti amministrativi di tutti gli enti territoriali a controlli preventivi di legittimità e in certi casi anche di merito, volti, appunto, a ricondurre nell’ambito della legalità e dell’unità della Repubblica le eventualmente divergenti manifestazioni.
C’è inoltre da dire che la nascita delle Regioni, su cui il Costituente aveva fatto largo affidamento, è avvenuta nel nostro Paese con grande ritardo e in tempi diversi.
Invero, mentre quattro delle Regioni speciali (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta) furono istituite subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione (anzi la Sicilia addirittura prima), per la quinta (il Friuli-Venezia Giulia) si dovette attendere sino al 1963 (dopo la sistemazione della questione di Trieste), mentre le 15 Regioni a Statuto ordinario videro la luce soltanto nella primavera del 1970 e dovettero attendere ancora due anni per poter iniziare a funzionare.
Il lento e ritardato avvio dell’ordinamento regionale ha evidentemente prodotto conseguenze non solo politiche e culturali ma anche giuridiche sulla consistenza e sul ruolo delle autonomie nella forma di Stato della Repubblica italiana; basti pensare alla prolungata sopravvivenza delle Giunte provinciali amministrative, sia come organi di controllo sulle autonomie locali che come organi giurisdizionali di primo grado (quando, invece, per tale attività, l’art. 125 Cost. prevede tribunali amministrativi indipendenti), ai consigli di prefettura, anch’essi organismi ancipiti, in parte consultivi e in parte di giurisdizione contabile, ecc., organismi, questi, spazzati via dalla Corte costituzionale perché carenti di ogni garanzia d’indipendenza; basti infine pensare al mancato avvio del sistema di controlli sugli atti degli enti locali di cui all’art. 130 cost., e via seguitando.
Si può pertanto dire che soltanto con le riforme Bassanini di fine anni 90 (leggi nn. 59 e 127/1997 e decreti delegati del 1998) e con le modifiche del titolo V della parte II della Costituzione (leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001) e con la legge n. 241/1990 di riforma delle autonomie locali il sistema delle autonomie sia giunto a maturazione.
Ma occorre anche dire che, se queste riforme hanno indubbiamente esaltato le autonomie, esprimendone il punto più alto nella storia del Paese, tutto ciò è andato a detrimento del significato più profondo dell’art. 5, che, come si è visto, riconosce le autonomie, ma con il limite dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica.
La soppressione dei controlli preventivi di legittimità e di merito sugli atti delle Regioni e degli enti locali, l’eliminazione della clausola dell’interesse nazionale come limite dell’attività legislativa regionale, la previsione di una competenza legislativa regionale di carattere generale (ovvero residuale) per tutte le materie non assegnate alla legislazione esclusiva o concorrente dello Stato, hanno finito per alterare profondamente il sistema delle autonomie e per produrre reazioni di carattere centripeto sia nella legislazione che nella giurisprudenza della Corte costituzionale, oltre che nella cultura dei giuristi.
Si spiega così il sostegno che buona parte della politica ed anche dei giuristi che avevano dato impulso e sostenuto le riforme della fine degli anni 90, ha finito col dare all’ipotesi, poi naufragata con il referendum del 4 dicembre 2016, di un riaccentramento in capo allo Stato di competenze legislative troppo generosamente assegnate alle Regioni con la riforma costituzionale del 2001.
3. – La parabola delle autonomie sembra allora avviata alla sua fase discendente dopo il picco realizzato dalla fine degli anni 90 sino all’inizio degli anni 2000.
L’incremento del ruolo e delle competenze regionali e la valorizzazione delle autonomie territoriali, pur contrastati da una giurisprudenza costituzionale che ha valorizzato, talvolta in modo eccessivo, la posizione dello Stato, hanno determinato una progressiva delegittimazione delle autonomie stesse, accentuata anche da fenomeni di corruzione e di spreco del denaro pubblico a livello locale.
Questo spiega non solo la trasformazione delle Province in enti non direttamente rappresentativi della relativa popolazione, ma elettivi di secondo grado, ma anche i ripetuti tentativi, prima con decreto-legge, poi con legge costituzionale, di sopprimerle del tutto; spiega inoltre, come accennato, tutto l’impianto antiregionalista della riforma Renzi-Boschi, naufragata col referendum del 4 dicembre 2016. Spiega infine una profonda disaffezione della popolazione per le consultazioni elettorali regionali e locali, dove la tendenza verso l’astensione ha raggiunto anche picchi del 50%.
L’interrogativo è allora su quanto in questa perdita di consenso ed in questa delegittimazione delle autonomie locali, abbia influito l’abolizione dei controlli operata con la riforma costituzionale di cui alla l. cost. n. 3/2001. Come spesso succede nel nostro Paese, è andato smarrito l’equilibrio tra la valorizzazione delle autonomie e il rispetto della legalità: efficienti controlli, più rigorosi di quelli tendenzialmente politici previsti negli abrogati articoli 130 e 125, 1° comma, Cost., avrebbero probabilmente consentito di vincere la scommessa delle autonomie, permettendo loro di crescere e di affermarsi nel rispetto della legalità.
Ma quella scommessa pare oggi a molti definitivamente perduta.
Federico Sorrentino, costituzionalista, già ordinario all’Università degli studi di Roma La Sapienza e Presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti
Pubblicato lunedì 24 Aprile 2017
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