Con il via libera della Conferenza unificata Stato-Regioni, il disegno di legge Calderoli sul procedimento di attuazione dell’autonomia differenziata si avvia verso la discussione parlamentare. Le dichiarazioni di soddisfazione e le assicurazioni dei rappresentanti del Governo e delle numerose Regioni guidate da giunte di centro-destra che si stanno succedendo in questi giorni non risultano però del tutto convincenti: sia i documenti ufficiali (si veda, a tale proposito, la relazione al testo della proposta del Governo) sia le esternazioni di rappresentanti delle istituzioni e dei partiti di maggioranza mettono in primo piano le norme di contenimento degli effetti dell’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di forme e condizioni particolari di autonomia, ma sono più esitanti nell’illustrazione dei presunti vantaggi di tale riforma. Non si va al di là di generiche frasi sul superamento del centralismo e sulle possibilità di crescita offerte ai territori, senza però motivare adeguatamente le ragioni per cui tali opportunità dovrebbero manifestarsi.
In realtà, le presumibili conseguenze di un processo generalizzato di decentramento di funzioni e risorse definito in base a un procedimento negoziale tra soggetti dello Stato-comunità sono evidenti anche solo limitandosi a una valutazione dello schema procedurale.
Infatti, a ben vedere, lo stesso concetto di autonomia differenziata, così come è espresso nel comma terzo dell’Art. 116 della Costituzione, presuppone un processo di riassetto del sistema basato su una sorta di darwinismo istituzionale, in cui ciascuna parte dell’ordinamento procede per conto proprio, tendenzialmente a scapito di altre e comunque nel presupposto che la crescita economica, sociale e civile delle comunità territoriali si ottenga attraverso un’appropriazione cumulativa di competenze e delle relative risorse, con buona pace di altri principi costituzionali, di eguaglianza, di garanzia dell’interesse nazionale, di sussidiarietà e di leale collaborazione tra le istituzioni.
Dunque, quando si parla di contrasto all’autonomia differenziata, si parla di affermazione in positivo del principio di eguaglianza, la cui attuazione richiede, in primo luogo, la creazione delle condizioni per cui i diritti fondamentali di cui all’Art. 2 della Costituzione possano essere esercitati in modo uniforme, oggi non più solo su scala nazionale, ma su scala continentale. Il che non vuol dire affatto tornare ai modelli centralistici che pure hanno informato una parte notevole della storia repubblicana, ma affermare, come insegna la giurisprudenza costituzionale, che il fine dell’eguaglianza si persegue regolando in modo differenziato fattispecie diverse, e non cristallizzando le differenze (e gli squilibri) in norme giuridiche, come inevitabilmente farà l’autonomia differenziata.
Diverse voci contrarie al progetto di autonomia differenziata invocano, correttamente, il vulnus recato dall’autonomia differenziata al principio di unità e indivisibilità della Repubblica sancito dall’Art. 5 della Costituzione, che, peraltro, stabilisce un altro principio rimasto largamente inattuato, quello cioè dell’adeguamento dei principi della legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Tuttavia, occorre chiarire che l’autonomia differenziata mette in pericolo l’unità del Paese non tanto sul versante della tenuta dell’unità statale, quanto soprattutto perché va nella direzione di creare e stabilizzare delle asimmetrie nelle condizioni legali e materiali necessarie per il godimento effettivo dei diritti fondamentali, in particolare dei diritti sociali che, per la loro attuazione, richiedono interventi positivi da parte della Repubblica. Questi interventi possono essere certamente differenziati quanto agli strumenti e alle modalità operative, ma non rispetto al fine ultimo, di colmare squilibri territoriali, sociali o di altra natura tali da compromettere in radice la possibilità di rimuovere gli ostacoli alla partecipazione alla vita pubblica, dei quali parla l’Art. 3 della Carta della Repubblica.
Per questo aspetto, malgrado l’enfasi posta dagli esponenti del Governo sulle garanzie di coesione sociale offerte dalla previa determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e dal fondo perequativo di cui all’Art. 119, l’autonomia differenziata è intrinsecamente radicata su una idea di società nella quale gli squilibri nei livelli di crescita sono considerati non solo inevitabili ma anche auspicabili, in coerenza con la vulgata neoliberista fondata sulla convinzione che solo lasciando mano libera ai soggetti economicamente forti questi ultimi possono esercitare la funzione di traino nei confronti delle aree più deboli e delle fasce sociali più svantaggiate. A questa logica, sia detto per inciso, si ispira la riforma fiscale basata sulla flat tax, che il Governo della destra sta preparando e che diventa una tessera importante del mosaico di norme destinate a cristallizzare le differenze sociali e gli squilibri territoriali.
In questo senso si parla dell’autonomia differenziata come “secessione dei ricchi”: nel senso di una rivendicazione di poteri e di risorse da parte dei territori economicamente forti, che traduce il linguaggio della concorrenza dalla sfera della produzione e scambio di beni e servizi a quella istituzionale, mutuando anche i linguaggi e gli atteggiamenti degli operatori economici. In questa prospettiva, il mercato dei beni e dei servizi pubblici dovrebbe diventare il teatro di una contesa nella quale alcuni attori si trovano a operare in condizioni giuridiche di partenza più favorevoli e in un contesto legale che rende più agevole l’accumulo di competenze (e quindi delle risorse corrispondenti), nel presupposto (indimostrato) che una maggiore autonomia istituzionale e finanziaria possa di per sé costituire un elemento trainante della crescita; corollario tacito ma evidente di questa impostazione, è che alle aree più deboli non resta che auspicare che dal tavolo dell’accresciuta prosperità dei soggetti già forti, cada qualche briciola.
Con candore degno di miglior causa, lo confessa la relazione introduttiva del disegno di legge Calderoli, quando afferma, riproponendo una versione aggiornata della vecchia tesi del Mezzogiorno “palla al piede”:
In merito alla coesione, le unità politiche territoriali che compongono la Repubblica, sebbene molto diverse tra loro secondo la gran parte degli indicatori statistici rilevanti (lungo linee che non si esauriscono nella dicotomia Nord-Sud), sono e sempre più saranno fortemente interdipendenti. Perciò è frequente il rischio che il rallentamento di talune realtà colpisca anche quelle che possono avere un ruolo di “traino”. Da questo punto di vista risulta un vulnus anche al principio di coesione.
Non sembra casuale, d’altra parte, che l’idea di autonomia differenziata si affermi in corrispondenza con il declino e la pressoché totale scomparsa dai radar della politica nazionale della questione meridionale, derubricata a uno dei tanti squilibri territoriali.
Coloro che per primi parlarono dell’esistenza di una questione meridionale, da Fortunato a Villari, da Nitti a Salvemini, da Sturzo a Gramsci, ne parlarono come di una grande questione nazionale, nel senso che la sua soluzione avrebbe richiesto la mobilitazione delle risorse della collettività attraverso un ridisegno globale degli equilibri e dell’assetto economico e sociale del Paese. Anzi, la soluzione della questione meridionale, nella visione di molti di questi studiosi e politici, costituiva il passaggio cruciale di un percorso di costruzione della Nazione in senso moderno che il processo di unificazione aveva lasciato incompiuto.
L’idea di autonomia differenziata muove da una visione diametralmente opposta: chiude i territori nella specificità delle loro problematiche (e, tra l’altro, il localismo esasperato alimenta le ideologie neofasciste, razziste, il tradizionalismo familista e l’omofobia, e tutto quanto appare lesivo della omogeneità delle comunità), assegna più competenze e quindi più risorse ai territori economicamente più forti e scommette che uno sviluppo circoscritto ad alcune zone del Paese possa avere qualche ricaduta anche sulle aree svantaggiate, ponendo qualche paletto – come detto sopra, i LEP e il fondo perequativo ex art. 119 Cost. – per scongiurare il rischio che la teorizzazione/istituzionalizzazione della diseguaglianza, cuore del progetto dell’autonomia differenziata stessa, possa suscitare un’opposizione sociale e istituzionale troppo radicale.
L’autonomia differenziata nella Costituzione
Sorge un interrogativo a questo punto. Contrariamente al passato, il tema in discussione non è relativo a un progetto di riforma della Costituzione, ma a una disposizione che già è presente in Costituzione e che prevede, come è noto, l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 (che elenca le materie sulle quali Stato e Regioni esercitano una competenza legislativa concorrente), nonché in materia di organizzazione della giustizia di pace, di istruzione e di tutela ambientale, dell’ecosistema e dei beni culturali che fanno invece parte dell’elenco delle materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui al secondo comma dello stesso Art. 117.
Non è dunque una contraddittoria la posizione dell’ANPI, che fa dell’attuazione della Costituzione una delle ragioni stesse della sua esistenza, e che in questo caso invece contrasta la realizzazione dell’Articolo 116, comma terzo, e anzi, ne sostiene, in ultima analisi, il contrasto con la Costituzione stessa?
Il fatto è che la riforma del Titolo V, della quale fa parte anche l’Art. 116, varata dal Parlamento nel 2001 e sanzionata da un referendum popolare nel 2003, si differenzia in modo sostanziale dal testo originario della Costituzione del 1948 discostandosi per molti aspetti dalle sua finalità, di costruzione di una democrazia sociale avanzata, articolata attorno ai principi di primato della persona e dei suoi diritti fondamentali, di promozione del lavoro e di garanzia dei diritti sociali, oltre che di quelli civili e politici, in un contesto di libertà e di eguaglianza.
La parte della Costituzione dedicata alla Regioni fu, tra l’altro, oggetto non soltanto di profondi contrasti, ma anche di ripensamenti e inversioni di rotta da parte dei singoli partiti. Nella discussione svoltasi nell’Assemblea Costituente, l’istituzione delle Regioni fu guardata con favore dalla DC, in continuità con la tradizione del Partito Popolare, fortemente regionalista, e dai settori dell’area laica che si rifacevano alla tradizione repubblicana e in parte socialista (gli eletti del Partito d’Azione costituirono il gruppo Autonomista); i liberali (con l’eccezione di Einaudi) e i qualunquisti avversarono l’istituzione delle Regioni, e invocarono il rischio di una frattura istituzionale dell’unità del Paese; comunisti e socialisti le guardarono con diffidenza, timorosi della eventualità che governi locali conservatori, avvalendosi della potestà legislativa loro conferita, potessero affossare le riforme di struttura promosse dal governo nazionale, e si pronunciarono solo a favore della concessione ai nuovi enti di una limitata autonomia amministrativa. Tuttavia, queste posizioni mutarono: la DC si rendeva conto che per conservare la sua centralità avrebbe dovuto consolidare i propri rapporti con i vertici della burocrazia e della magistratura, drasticamente contrari a qualsiasi forma di autonomia, all’insegna del principio della continuità dello Stato, mentre comunisti e socialisti, all’opposizione dal maggio 1947, rivalutarono gli istituti costituzionali chiamati a svolgere una funzione di equilibrio e di limitazione del potere del Governo (non solo le Regioni, ma anche la Corte costituzionale, inizialmente guardata con ostilità dal PCI). Ne derivò un progetto e poi un testo costituzionale estremamente prudente sul profilo dei poteri delle Regioni. Affermò Emilio Lussu nella discussione in Assemblea: “Queste nostre autonomie possono rientrare nella grande famiglia del federalismo così come il gatto rientra nella stessa famiglia del leone.”
La riforma del Titolo V risente della sua origine: in un contesto caratterizzato dalla messa in discussione della centralità dello Stato-Nazione accelerata anche dal ruolo assunto dall’Unione europea negli ultimi decenni del 900, essa avrebbe dovuto ridisegnare il rapporto tra Stato centrale e autonomie attraverso una redistribuzione di funzioni e poteri finalizzata a promuovere la partecipazione democratica e a rafforzare l’efficienza dell’azione pubblica. In realtà, si è risolta in una misura ispirata a motivazioni contingenti, legate soprattutto all’esigenza di contrastare il federalismo di stampo leghista e di intercettare e addomesticare le spinte centrifughe generate dai partiti locali e dai separatismi cresciuti negli Anni 90. In quell’occasione il centro sinistra rivelò una preoccupante subalternità culturale nei confronti di una idea di federalismo che premiava l’egoismo dei territori più ricchi, adagiati sulla fiducia nei confronti delle capacità di espansione illimitata del modello che si andava affermando soprattutto nel Nord Est, basato su una rete di piccole e medie imprese particolarmente dinamiche ma anche fortemente impegnate nell’aggirare vincoli e regole di carattere fiscale e contrattuale.
La riforma del Titolo V presenta un’ulteriore criticità per un altro aspetto, consistente nella soppressione di funzioni e istituti (Commissioni statali e regionali di controllo della legittimità degli atti; commissario di governo), previsti nel testo del 1948 che se da una parte costituivano un limite dall’esercizio delle autonomie, dall’altro, però assolvevano a un compito importante di cerniera tra centro e periferia. La rimozione di queste cerniere ha prodotto una situazione di conflittualità istituzionale, rimasta latente o quanto meno poco visibile in tempi normali ma esplosa in modo plateale e drammatico nel periodo del Covid, quando l’assenza di canali istituzionali di coordinamento tra Stato e Regioni ha aggravato una situazione già drammatica, pregiudicando l’efficacia di molti degli interventi di contenimento del contagio.
Per queste ragioni, la questione dell’autonomia differenziata non può essere affrontata se non nel quadro di un ripensamento della riforma del Titolo V e di una sua riscrittura che, senza torsioni verso forme inaccettabili di neo centralismo, ripristini però il necessario coordinamento tra centro e periferia, in assenza del quale lo stesso principio di sussidiarietà si riduce a una continua e defaticante contrattazione tra lo Stato e i soggetti di autonomia. Proprio la situazione che si configura nelle norme costituzionali sull’autonomia differenziata.
Il progetto di legge del governo
Il governo ha varato un disegno di legge, su proposta del ministro Calderoli, dal titolo “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario”, che sostituisce la precedente bozza Gelmini (governo Draghi), pur non discostandosene molto quanto all’impostazione di fondo, che, mentre enfatizza il momento del negoziato tra Stato e Regione, riduce il Parlamento a una funzione puramente notarile. Anche su questo ultimo punto, le assicurazioni fornite dal governo sono mere dichiarazioni di intenti alle quali peraltro corrisponde un contenuto dispositivo del tutto opposto, che va nella direzione di una struttura della decisione politica che riduce le Camere a un ruolo ancillare.
Come si è detto più sopra, da una prima lettura, appare evidente la preoccupazione di fornire assicurazioni circa la portata del conferimento alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia: in altri termini, il nucleo di innovazione dell’ordinamento rappresentato dall’autonomia differenziata viene assoggettato a limiti e condizioni che riprendono questioni già affrontate nella bozza Gelmini, ma soprattutto sono rivelatori del timore che gli stessi sostenitori dell’attuazione del terzo comma dell’art. 116 nutrono nei confronti degli effetti derivanti dalle misure che ne potrebbero scaturire.
Di qui la subordinazione dell’attribuzione di speciali forme e condizioni di autonomia alla determinazione dei LEP (art. 1), e l’enfasi posta sul fondo di perequazione previsto dall’Art. 119. Va segnalata, peraltro, sempre all’articolo 1, l’assenza di un riferimento esplicito all’attuazione degli Artt. 3 e 5 della Costituzione, nel quadro di una enunciazione poco chiara e molto velleitaria delle finalità della legge.
Il procedimento di adozione con legge delle intese tra Stato e Regioni (art. 2) è delineato con apprezzabile dettaglio, che però mette ancora più in rilievo il dato del limitato coinvolgimento delle Camere, tanto più preoccupante se si considera che la legge di approvazione delle intese tra Stato e Regione è una legge “rinforzata”, come tale sottratta, per costante giurisprudenza costituzionale, al referendum abrogativo. Il testo prevede che la bozza di intesa preliminare sia trasmessa alla Conferenza unificata Stato-Regioni e successivamente alle Camere per l’esame dei competenti organi parlamentari, i quali potranno esprimersi entro sessanta giorni, con atti di indirizzo. A parte l’esigenza di capire quali sono “i competenti organi parlamentari” (le Commissioni permanenti, la Commissione parlamentare per le questioni regionali?) non è neanche chiaro per quale motivo sia richiesto un atto di indirizzo e non un parere. Di regola, le Camere, attraverso le Commissioni permanenti competenti per materia, esprimono il loro parere sugli atti del Governo a esse sottoposti. I pareri possono essere di vario contenuto: proporre modifiche, esercitare il controllo sull’osservanza delle norme sostanziali e procedurali che costituiscono il presupposto dell’atto stesso, esprimere adesione totale o parziale alla proposta dell’esecutivo, condizionare il parere favorevole all’introduzione di specifiche modifiche. Certamente, ciò è possibile anche attraverso un atto di indirizzo, ma la funzione di quest’ultimo è diversa, poiché esso si svolge nell’ambito del rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo, e definisce appunto un indirizzo relativo all’azione dell’Esecutivo. È lecito pertanto ritenere che si tratti di una scelta puramente lessicale, che non modifica e copre in modo molto maldestro la sostanza, ovvero il dato di un sostanziale esautoramento delle Camere nel procedimento di approvazione delle intese tra Stato e Regione. Il Parlamento infatti è chiamato ad apporre un timbro sull’esito di un negoziato nel quale ha avuto ben poca voce in capitolo, solo in parte compensata dal quorum speciale (la maggioranza assoluta dei componenti) richiesto per licenziare la legge di approvazione delle intese.
I livelli essenziali delle prestazioni
Secondo l’art. 3 del testo in esame, l’attribuzione alle Regioni di speciali forme e condizioni di autonomia è subordinata alla previa determinazione, con decreto del presidente del Consiglio, dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m della Costituzione) “quale soglia di spesa costituzionalmente necessaria che costituisce nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale” (legge di bilancio 2023). A tale proposito, dopo avere precisato che la messa a punto dei LEP come soglia minima inderogabile di spesa non deve comunque incidere in termini negativi sui livelli essenziali di assistenza, di cui al decreto legislativo n. 502 del 1992 (Riordino della disciplina in materia sanitaria), il disegno di legge Calderoli rinvia alle disposizioni in materia recate dalla legge di bilancio (art. 1, commi da 791 a 801 della legge 29 dicembre 2022, n. 197).
Forse occorrerebbe una riflessione complessiva sull’adeguatezza di questo istituto, definito in base alla determinazioni di costi e fabbisogni standard, alle finalità enunciate dalla Costituzione, di assicurare l’uniforme esercizio dei diritti civili e sociali. Si tratta infatti di una materia squisitamente politica, e legata ai processi reali in atto nella società, processi che subiscono accelerazioni che maturano in contesti globali, dalla pandemia alla guerra, e che determinano trasformazioni profonde e tali da richiedere flessibilità e tempestività delle decisioni. Una quantificazione codificata della domanda sociale di tutela e di garanzia dei diritti e delle connesse prestazioni è senz’altro utile ma forse non sufficiente a comporre un quadro di regole idoneo ad assicurare che l’erogazione di beni e servizi pubblici abbia un andamento coerente con l’evoluzione dei bisogni effettivi della collettività.
Un’altra questione meritevole di attenta considerazione riguarda la portata delle richiamate disposizioni della legge di bilancio, che regolano una sequenza di atti di accertamento, di verifica e di definizione degli ambiti di intervento affidati alla cabina di regia del Governo e alla Commissione tecnica per i fabbisogni standard, finalizzati all’adozione di uno o più decreti del presidente del Consiglio. Nella legge di bilancio è quindi escluso l’intervento delle Camere nel procedimento di definizione dei LEP. Il progetto Calderoli rettifica questa “svista”, prevedendo l’espressione di un parere della Camere sullo schema di decreto (art. 3, comma 2).
Ma resta aperto un altro interrogativo. L’art. 117 della Costituzione include la determinazione dei LEP tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato: in altri termini, stabilisce una riserva di legge statale sull’intera materia. La legge di bilancio, peraltro, non definisce i LEP, ma regola il procedimento per la loro determinazione, affidata a uno o più decreti del presidente del Consiglio dei Ministri, cioè a un atto di normazione secondaria, con totale esclusione, al momento, delle Camere (salva l’eventuale rettifica introdotta dalla proposta Calderoli). Per questo aspetto, c’è da chiedersi se le disposizioni contenute nella legge di bilancio non presentino un profilo di incostituzionalità, dato che la disciplina sostanziale di determinazione dei LEP, secondo la Costituzione, dovrebbe essere affidata a una legge dello Stato.
Autonomia differenziata e presidenzialismo
Anche se apparentemente differenti nei fini e per molti aspetti contrastanti, autonomia differenziata e presidenzialismo sono accomunati da un indirizzo tendente, in sostanza, a promuovere una trasformazione in senso verticistico e oligarchico dell’ordinamento della Repubblica.
Occorre premettere, a tale proposito, che il presidenzialismo in senso proprio non coincide con l’elezione diretta del Capo dello Stato, bensì con la collocazione di quest’ultimo al vertice del potere esecutivo, il che, come più volte si è detto, creerebbe nell’ordinamento costituzionale uno squilibrio tra il circuito della decisione politica e il circuito della garanzia, facendo venire meno il ruolo del Capo dello Stato di supremo moderatore dei rapporti tra i diversi poteri, un ruolo che, nel corso degli anni, si è rivelato essenziale per l’ordinato svolgimento della vita democratica. Per questo aspetto, una riforma presidenzialista realizzerebbe, tra l’altro, un allineamento della forma di governo statale con quelle attualmente vigenti per la Regione e per i comuni, caratterizzate da un assetto monocratico dei poteri, presidiato dal sistema dell’elezione diretta, ma sostanzialmente privo di effettivi contrappesi.
È ragionevole supporre che una volta entrata in vigore la proposta Calderoli, molte Regioni si attiveranno promuovendo l’iniziativa per ottenere il conferimento di speciali forme e condizioni di autonomia, al fine di difendere le proprie prerogative, accrescere le proprie risorse e anche in obbedienza una logica di emulazione difficilmente contenibile. In tal caso, i negoziati tra centro e periferia verrebbero a occupare una parte non secondaria della vita delle istituzioni, così che il ridisegno delle competenze (e quindi la redistribuzione delle risorse) verrebbe regolata, essenzialmente, nella forma della negoziazione tra poteri sostanzialmente monocratici, al di fuori di ogni effettivo controllo parlamentare, ridotto, come già oggi sembrerebbe, all’espressione di pareri non vincolanti e alla sanzione del voto finale sui disegni di legge di approvazione delle intese: in sostanza, questioni essenziali per la determinazione dell’indirizzo politico del Paese, come la distribuzione e redistribuzione della ricchezza, verrebbero rimesse alla negoziazione più o meno conflittuale tra i vertici dell’esecutivo nazionale e degli esecutivi regionali. In altri termini, il rapporto contrattuale tra soggetti istituzionali si pone come forma tendenzialmente alternativa alla legge, fermo restando che la legge di approvazione delle intese tra Stato e Regione non può essere altro che un mero atto di ratifica. In questo senso, l’ipotizzata riforma in senso presidenzialista e l’attuazione del terzo comma dell’Art. 116 della Costituzione convergono nel processo di costruzione di una democrazia verticistica, con una rappresentanza politica ridotta a una funzione di cassa di risonanza di decisioni prese altrove, senza neanche la possibilità, per quanto riguarda l’autonomia differenziata, di ricorrere al referendum abrogativo: un assetto che sembra essere il vero obiettivo della destra e che, nella crisi della partecipazione manifestata dall’aumentato astensionismo, potrebbe trovare oggi condizioni favorevoli di realizzazione.
Pubblicato giovedì 6 Aprile 2023
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/si-scrive-autonomia-differenziata-ma-si-legge-diseguaglianza/