Nel 2015, secondo un’analisi del Centro Studi del Partito Socialista francese, ci sono stati 11.772 attacchi di matrice jihadista nel mondo, che hanno provocato 28.328 vittime. È un terrorismo multiforme, decentralizzato, senza alcun riferimento ad un Paese specifico, che necessita risposte asimmetriche, a volte di tipo militare classico, spesso molto più d’intelligence che di combattimento.
Nonostante l’antiterrorismo rimanga essenzialmente una responsabilità degli Stati membri, sin dagli attacchi al World Trade Center l’Unione Europea si è dotata di una serie di strumenti operativi comuni. Gli attentati in Francia e a Bruxelles hanno poi rafforzato, almeno nelle premesse, la volontà di un’azione collegiale di contrasto. Ma la buona volontà sembra non essere sufficiente; un recente sondaggio dell’Eurobarometro – il servizio della Commissione europea che misura ed analizza le tendenze dell’opinione pubblica nella UE e nei Paesi candidati – ha stimato che l’82% degli intervistati auspichi un migliore intervento dell’Unione nella lotta all’eversione, mentre il 69% ritenga che l’azione in corso non sia sufficiente.
Il terrorismo non è un fenomeno nuovo in Europa; gli anni ’70 e ’80 furono particolarmente cruenti e benché le azioni avessero caratteristiche prevalentemente nazionali, fu subito chiaro il filo che legava movimenti di Paesi diversi. Nasce allora la prima forma di cooperazione intergovernativa, il cosiddetto “Gruppo di Trevi”, cui si affianca, con il Trattato di Maastricht, il capitolo dedicato alla politica estera e di sicurezza comune (PESC).
Se gli anni ’90 sembrano offrire una pausa, l’11 settembre prima e gli attentati di Madrid poi, portano all’adozione del primo piano d’azione comune: Javier Solana – all’epoca Alto Rappresentante dell’UE per la PESC, ruolo oggi ricoperto da Federica Mogherini – il 19 settembre 2007 nomina Gilles de Kerchove Coordinatore Europeo Antiterrorismo.
Praticamente sconosciuto ai non addetti ai lavori, de Kerchove guida l’azione del Consiglio nella lotta al terrorismo, presentando raccomandazioni politiche basate essenzialmente sui rapporti stilati dal Centro di analisi dell’intelligence della UE e dall’Europol e proponendo interventi prioritari nell’ambito della “Strategia antiterrorismo dell’UE”.
Il piano è sostanzialmente basato su quattro principi: prevenzione, protezione, perseguimento e risposta.
La raccolta d’informazioni caratterizza il primo pilastro, sovrapponendosi alla protezione e alla repressione ad esempio nel caso dei foreign fighters, i cittadini europei che si recano all’estero, in particolare in Siria, per combattere la jihad – la guerra santa contro gli infedeli. La valutazione della minaccia che essi possono rappresentare una volta ritornati in Europa e gli strumenti per prevenire, arginare e controllare il fenomeno, sono necessità emerse di recente, che stanno drenando una buona parte delle risorse dell’Unione e degli Stati membri.
Si reputa che oltre 5.000 cittadini europei abbiano lasciato il proprio Paese dopo lo scoppio della guerra in Siria, Iraq e Libia, mentre incerto è il numero di quelli che sono rientrati. Nel gennaio 2016 è stata elaborata una proposta di regolamento che mira a creare una sorta di polizia di frontiera e guardia costiera europea, basata sull’attuale FRONTEX, l’agenzia europea che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne della UE.
Il controllo dei confini dell’Unione, il miglioramento della sicurezza dei trasporti, la protezione degli obiettivi strategici e la riduzione della vulnerabilità delle infrastrutture critiche sono passi essenziali nella lotta al terrorismo, che non possono evidentemente essere lasciati ai singoli Stati membri.
In quest’ambito – e anche per integrare gli strumenti di controllo sul rientro dei foreign fighters – l’UE ha finalmente adottato, con un colpevole ritardo dovuto a posizionamenti forse più di facciata che di merito, la normativa che disciplina l’utilizzo dei dati delle prenotazioni aeree (Passenger Name Record-PNR), ovvero il loro trasferimento alle autorità di contrasto degli Stati membri ed il relativo trattamento a fini di prevenzione, accertamento, indagine e azione penale per reati gravi e di terrorismo. Le informazioni fornite dai passeggeri – il nome, l’indirizzo, i numeri di telefono, l’e-mail, la data di viaggio, l’itinerario, il posto assegnato, i bagagli e le modalità di pagamento, ad esempio – sono raccolte dai vettori aerei e trasmesse ad autorità nazionali specifiche, consentendo l’identificazione potenziale di persone non ancora sospettate di attività criminali o terroristiche prima che emergano possibili indizi a loro carico. La norma stabilisce che i dati possano essere trattati soltanto a fini di prevenzione, accertamento ed azione penale, vietando la raccolta e l’uso di dati sensibili ed imponendo che essi possano essere conservati soltanto per 5 anni e comunque dissociati (dopo 6 mesi) dai dati personali. Regole simili – contenute in tratti bilaterali con alcuni Stati terzi – sono poi applicate ai viaggi intercontinentali. Quest’ultimo aspetto, che prevede il trasferimento d’informazioni al di fuori dell’Unione, è estremamente controverso, tanto che l’Avvocato generale della Corte di Giustizia ha recentemente preso posizione sull’accordo PNR con il Canada, sostenendo che diverse disposizioni del progetto siano contrarie ai diritti fondamentali dell’Unione.
La raccolta e l’elaborazione delle informazioni e la loro condivisione sono punti nevralgici di ogni attività di prevenzione e repressione, per questo Europol, l’Ufficio di polizia europea, mette a disposizione delle autorità degli Stati membri l’accesso a “Eurodac” (il database sui richiedenti asilo) ed a una serie di archivi nazionali che contengono, ad esempio, DNA, impronte digitali ed immatricolazioni di veicoli relativi a crimini commessi sul territorio dell’Unione.
La cooperazione delle forze di polizia, che dovrà essere integrata con la possibilità di superare le frontiere nell’ambito di determinate indagini, non può che procedere di pari passo con quella giudiziaria. Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea creata per coordinare le autorità nazionali nella lotta contro la criminalità organizzata e transnazionale, dovrebbe quindi evolversi in uno strumento antiterrorismo, anche se – nonostante i primi positivi risultati – il cammino da percorrere pare ancora lungo.
Il Consiglio ha poi creato sin dal 2001 un elenco di persone, gruppi ed entità coinvolte in atti terroristici che sono soggette a misure restrittive, adottando anche misure comuni per la sicurezza degli esplosivi e la protezione delle infrastrutture critiche (strade, ferrovie, reti elettriche e centrali elettriche) ed un piano d’azione NRBC (nucleare, radiologico, biologico, chimico).
Altra informazione chiave del sondaggio dell’Eurobarometro è quella che svela come la lotta al finanziamento dei gruppi eversivi ed il contrasto alla crescente radicalizzazione di matrice islamica siano considerate dai cittadini UE come le misure più urgenti per affrontare il terrorismo.
Il piano d’azione della Commissione europea del febbraio 2016 prevede in tal senso il controllo delle piattaforme di cambio delle valute virtuali su Internet, il divieto di carte prepagate anonime e l’istituzione di una cooperazione efficace tra le unità di informazione finanziaria.
Priorità dell’UE, anche alla luce dei recenti attentati “fai da te”, è inoltre l’individuazione sia dei fattori che contribuiscono alla radicalizzazione sia dei processi che portano al reclutamento.
Gli attacchi di Parigi, Bruxelles e Nizza hanno messo in luce la minaccia legata al ruolo dei singoli, evidenziando fattori di auto-organizzazione e auto-finanziamento che necessitano di una risposta organica. Resta da risolvere la questione della propaganda su Internet, i cosiddetti google-imam.
Più che gli interventi nelle moschee e nelle scuole coraniche, ufficiali e clandestine, i video d’indottrinamento disponibili sulla rete e le “prediche virtuali” sembrano essere componenti fondamentali del processo di estremizzazione. Si stima che organizzazioni come Daesh – altro acronimo per il sedicente Stato Islamico – o Boko Haram, i jihadisti nigeriani, investano somme colossali nella realizzazione di veri e propri film che incitano alla guerra santa contro gli infedeli e ostentano la gloria dei combattenti. Spesso girati ispirandosi ai video-giochi di guerra, per fornire ai giovani delle periferie un riferimento a qualcosa di conosciuto, questi pseudo-documentari mostrano una produzione accurata e svelano una sapiente strategia di comunicazione che fa breccia nelle fasce culturalmente più deboli. Da non sottostimare poi il ruolo dei social media che, per le loro caratteristiche d’immediatezza e di difficile controllo, sono strumenti ideali per diffondere parole d’odio e d’indottrinamento. Dal luglio 2015 esiste un’unità Europol dedicata ai contenuti Internet che promuovano l’estremismo violento o il terrorismo, abilitata a chiedere la rimozione di gruppi Facebook o pagine web gestite o che inneggino allo Stato islamico.
Questo, in breve, l’arsenale teorico di cui dispone l’Unione Europea per far fronte al terrorismo. La pratica mostra però come il cammino sia ancora irto d’ostacoli, sia dal punto vista giuridico sia nella sua quotidianità. La cooperazione attraverso Europol e Eurojust, ad esempio, non utilizza appieno il potenziale di queste agenzie; se il ruolo operativo di Europol resta limitato – con una scarsa partecipazione alle squadre investigative comuni – Eurojust sembra non riuscire ad affrontare in modo sistematico i problemi legati allo scambio d’informazioni sui procedimenti in corso negli Stati membri e le condanne per reati legati al terrorismo. Una delle difficoltà maggiori risiede nella diversità dei sistemi e delle tradizioni (e sensibilità) giuridiche degli Stati membri.
Occorre una maggiore resilienza, una coerenza d’azioni non solo basate sulla repressione e la prevenzione del crimine in sé, ma soprattutto sui fattori sociali che determinano il passaggio dei singoli all’atto.
Soltanto un’Europa forte, che promuova un comune sentire europeo ed una forte integrazione può rispondere alla radicalizzazione. Il rafforzamento dell’Unione Europea non può che avvenire non a detrimento della sovranità degli stati – come predica la destra populista – ma attraverso un reale sforzo di collaborazione.
Non sono i muri che proteggeranno il Vecchio continente, ma politiche di sostegno attivo, sviluppo, crescita economica e sociale degli Europei, per sradicare quell’emarginazione che porta all’estremizzazione, combinate ad una politica estera logica e coesa, che faccia dell’Europa un vero attore di pace nelle zone di conflitto. Non un belligerante ma un mediatore, che assume pienamente le responsabilità del suo passato coloniale e cessa di ragionare con i vecchi schemi delle zone d’influenza per abbracciare visioni moderne e globali di sviluppo sostenibile e dialogo continuo.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato venerdì 23 Settembre 2016
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