Nato nel 1867 come compromesso tra la nobiltà ungherese e la monarchia asburgica, l’Impero austro-ungarico si dissolse tra il 1918 e il 1919, in seguito alla fine della prima guerra mondiale. Lo scorso 2 ottobre, per una serie di coincidenze che solo la Storia sa regalare, stavamo per assistere ad una ricostruzione dell’impero, almeno mediatica. Nei due Paesi si sarebbero dovute svolgere due consultazioni elettorali – l’elezione del Presidente della Repubblica austriaca e il referendum sui migranti in Ungheria – che per il delicato scontro tra due culture opposte – Estrema destra vs Ecologisti in Austria, Xenofobia ed antieuropeismo vs Progressismo ed apertura europea in Ungheria – avrebbero potuto rimettere in discussione l’assetto dell’Europa odierna.
Ma il rinvio delle elezioni austriache e la coincidenza con un’altra consultazione referendaria in Colombia, hanno improvvisamente cambiato l’equazione, disegnando un inconsueto parallelismo introducendo una necessaria riflessione sul valore dei referendum.
Hanno vinto i “No”; in Colombia all’accordo di pace con le FARC, in Ungheria all’inutile quesito populista voluto da Viktor Orban, che chiedeva ai cittadini “Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?”.
Se il risultato sudamericano è parzialmente comprensibile (dopo anni di cruenti scontri l’amnistia per i guerriglieri delle Farc è mal digerita da una buona parte della popolazione, nonostante il desiderio di pace), quello ungherese – vittoria dei No, ma senza il raggiungimento del quorum – è il risultato di una accurata disinformazione e di una propaganda governativa al limite del grottesco.
La domanda, infatti, verteva sulla decisione UE che impone all’Ungheria, senza l’approvazione parlamentare nazionale, d’accogliere un certo numero di migranti. Poiché i Trattati UE sono stati ratificati dal Parlamento di Budapest e il Trattato di Lisbona prevede – per materie simili – non l’unanimità ma la maggioranza qualificata al Consiglio, è ovvio che il quesito avesse un senso relativo. La posizione ungherese ha infatti trovato spazio nelle discussioni europee, ma si è dovuta piegare al voto democratico, che ha prevalso. In settembre la Ue aveva deciso di ripartire in vari Stati membri i profughi arrivati in Italia e Grecia. I richiedenti asilo sono stati distribuiti secondo parametri (erroneamente chiamate “quote”) che tengono conto delle dimensioni del Paese ospitante in base a diversi criteri oggettivi. Nei piani di Bruxelles, l’Ungheria avrebbe dovuto accoglierne circa 2.300, ma Budapest ha immediatamente rilanciato offrendo uno spazio per soli 1.294 profughi, ovvero lo 0,01% di una popolazione totale di 10 milioni di abitanti. Il premier magiaro si è giustificato sostenendo che l’Unione europea non può permettersi di prendere decisioni alle spalle e contro la volontà dei popoli. Decisioni, secondo Orban, che “cambiano la vita dei popoli e delle generazioni future” perché “Ridisegnano gli aspetti culturali ed etnici dell’Ungheria”.
Nonostante l’evidenza giuridica, la Corte suprema ungherese ha accettato il quesito referendario, considerando che la decisione europea potesse violare la sovranità nazionale. Perfino il ministro ungherese della Giustizia László Trócsányi, che pure è uno specialista in diritto costituzionale ed europeo, ha sostenuto che l’UE non ha ricevuto un mandato specifico che l’autorizzasse ad occuparsi del trasferimento di persone all’interno del territorio degli Stati membri, lasciando intendere che la decisione di Bruxelles, pur presa col numero sufficiente di voti, sarebbe stata illegittima.
L’argomento dell’identità culturale ed etnica, usato dal premier, è ovviamente specioso e al contempo pericoloso. Supporre che un rifugiato ogni 10mila cittadini possa mettere in discussione la lunga storia d’Ungheria è chiaramente fuori luogo, così come l’abominevole richiamo alle etnie riporta dolorose memorie di passati non così lontani.
Il referendum era quindi, sin dall’inizio, una sorta di provocazione sia verso l’Europa, sia a puri fini interni. Viktor Orban ha un’evidente identità di destra, ma deve convivere con Jobbick, il partito di estrema destra ungherese che sta raccogliendo consensi sotto varie forme. Pur preferendo essere paragonato ad un “liberale ungherese che mostra i muscoli” come Nicolas Sarkozy, Orban è costretto ad evitare il sorpasso a destra e ha quindi recentemente addirittura proposto di riaprire il dibattito sul ripristino della pena di morte in Ungheria.
A queste derive l’Europa risponde in ordine sparso, talora facendo un’inutile “voce grossa” talora facendo semplicemente finta di non vedere.
Che il tema identitario sia estremamente d’attualità ed altamente sensibile lo provano le recenti aberrazioni del voto tedesco o della Brexit, ma limitarsi a gettare olio sul fuoco senza né passare dalle parole ai fatti né ipotizzare provvedimenti realistici rischia di fare il gioco dei dissidenti. Il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn, in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt ha chiesto l’esclusione a titolo definitivo dell’Ungheria dall’Unione europea, seguito, in maniera un po’ più diplomatica, dal presidente francese François Hollande. Entrambe le posizioni, oltre che puramente di facciata, fanno finta di dimenticare che il diritto europeo prevede uno strumento specifico per reagire a situazioni simili, che è la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato, ovvero la sospensione del diritto di voto al Consiglio. Ma è ovviamente più d’impatto minacciare sanzioni inesistenti che dare il via ad un preciso iter giuridico che pur comportando rischi politici servirebbe da chiaro monito ad altri tentativi simili.
Tornando al referendum, due commenti autorevoli, pur nella loro totale correttezza, inducono ad una riflessione complessa. Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, ha espresso il suo “forte disagio” affermando che se ogni Stato membro organizzasse una consultazione nazionale che rimette in questione il voto del Consiglio e del Parlamento, lo stato di diritto sarebbe in pericolo. Dimitris Avramopoulos, commissario europeo per le migrazioni ha rafforzato il concetto sostenendo che il referendum non ha alcun valore giuridico: “Gli Stati membri hanno la responsabilità legale di attuare le decisioni prese”.
Entrambe le posizioni – formalmente corrette – hanno il difetto, a mio modesto avviso, di far passare un’immagine errata, ovvero che i popoli non avrebbero il diritto di discutere di questioni europee. Il problema, infatti, non è la consultazione popolare in quanto tale, ma l’uso strumentale che di essa viene fatto da un governo in crisi, da un leader in cerca di riconferma elettorale, da un partito che intenda sviare l’attenzione dalle sue mancanze. Considerare solo l’aspetto giuridico del risultato, tralasciando il valore politico dello stesso, non giova né alla già fragile integrazione europea né alla necessaria assunzione di responsabilità politica di chi il referendum lo ha voluto.
I risultati ungheresi non sono chiaramente all’altezza delle aspettative di Orban. Benché la scommessa non fosse poi così azzardata (come può un cittadino accettare che un organismo internazionale imponga qualcosa senza l’approvazione nazionale?) il primo ministro ungherese ha sottovalutato l’opposizione, che invece di cadere nella trappola e fare propaganda per il Sì – che avrebbe dato al governo il ruolo del patriota ed ai contrari quello degli irresponsabili – ha abilmente scelto una campagna per l’astensione o il voto non valido, con il risultato che solo il 40,7% degli aventi diritto si è espresso, invalidando la consultazione.
Ma la legge è una cosa e la politica un’altra e l’analisi del voto, quorum a parte, mostra che il 98% dei votanti ha scelto il «no» mentre i «sì» sono stati circa il 2%, benché abbiano votato solo 3.309.706 elettori su 8.272.625 aventi diritto.
La doppia lettura permette quindi conclusioni diverse.
Quella giuridica consente all’opposizione di annunciare la sconfitta di Orban e al giornale di opposizione Népszava di scrivere di una truffa da 48,7 milioni, il costo colossale della campagna referendaria del governo caratterizzata da atti di “terrorismo mediatico senza precedenti”. A Szeged, una città ungherese di 165mila abitanti vicino al confine con la Serbia e la Romania, sono stati ad esempio affissi manifesti che sostenevano che “Dall’inizio della crisi migratoria, ci sono stati in Europa più di 300 morti in attacchi terroristici” o ancora “Gli attacchi a Parigi sono stati commessi da immigrati”.
Quella politica permette invece a Orban Viktor (gli ungheresi premettono sempre il cognome al nome) di dire all’Europa che “tutti i suoi” concordano sulla questione della ricezione dei rifugiati e di proporre un emendamento costituzionale che faccia delle questioni migratorie una prerogativa del Parlamento ungherese.
Il fallimento è quindi relativo; Orban è comunque riuscito a mobilitare più di 3 milioni di elettori, che è praticamente la somma dei voti ottenuti nelle elezioni parlamentari del 6 aprile 2014 dal suo partito, Fidesz (2.264.780 voti) e dall’estrema destra di Jobbik di (1.020.476 voti). Oltre due terzi del parlamento quindi, che permettono modifiche costituzionali senza trattative con l’opposizione. La prospettiva delle elezioni di primavera 2018 è poi destinata ad aggravare le già difficili relazioni tra l’Ungheria e l’Unione europea. Perché, se c’è un perdente nel referendum, è certamente la UE che, dopo la Brexit, vede rimessi in causa i principi stessi del suo funzionamento e la relativa governance.
Volendo quindi trarre alcune lezioni dall’esperienza ungherese e dal combinato disposto (locuzione assai di moda in questo periodo) della consultazione magiara con quella colombiana, quella britannica e, perché no, anche quella che ci attende a dicembre, si potrebbero sintetizzare alcuni punti chiave:
1) Le sfide che i richiedenti asilo pongono alla Vecchia Europa richiedono strumenti innovativi. Siano essi politici o semplicemente di comunicazione, celarsi dietro un rigorismo giuridico non aiuta a trovare soluzioni accettabili. L’Ungheria non è infatti l’unico Stato membro a rifiutare la politica dei trasferimenti forzati. Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania hanno votato contro la proposta del Consiglio, la Finlandia si è astenuta e la Francia ha ospitato solo 1.952 rifugiati dei 27.000 che le erano stati affidati.
2) La democrazia rappresentativa comporta un’assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori. È inutile pretendere legittimità se poi si utilizzano strumenti di consultazione popolare per rimettere in discussione le regole del gioco.
3) I referendum sono un istituto giuridico serio che non possono essere sviliti trasformandoli in tentativi di plebiscito.
Per di più, come ha ben sperimentato Cameron, sono un pericolosissimo boomerang che rischia di ritornare tra capo e collo di chi li indice. Vuoi per una comunicazione mendace – il caso brexit insegna – vuoi per la scelta del momento sbagliato, vuoi, più semplicemente, perché l’elettore non è sempre cieco e sordo come “lassù in alto” si spera ed è capace di formarsi un convincimento nonostante la scarsa o inesistente informazione e vota usando non solo la pancia ma anche la testa…
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato giovedì 13 Ottobre 2016
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