Settant’anni or sono, con il voto del 18 aprile 1948, si apriva la prima legislatura della Repubblica italiana. Il tempo trascorso non ha certo ridimensionato la rilevanza di quell’evento, al quale l’aggettivo “storico” si conviene molto più che ad altri accadimenti della storia repubblicana, più o meno recenti, la cui rilevanza, soprattutto per quel che concerne le scadenze elettorali politiche, è stata spesso enfatizzata oltre misura da una pubblicistica più o meno interessata.

Il 18 aprile 1948 segna definitivamente la fine dell’unità resistenziale, con l’affermazione di un blocco moderato, guidato dalla Democrazia Cristiana, che fece dell’anticomunismo l’elemento paradigmatico sul quale fondare una politica di contrasto alle rivendicazioni economiche e politiche delle classi subalterne e a qualsiasi manifestazione di opposizione sociale.

La lettura prevalente della contrastata campagna elettorale del 1948, contrassegnata da una radicalizzazione dei toni e dei linguaggi destinata, peraltro, a fare scuola anche in altri successivi momenti della storia di questo Paese, ha giustamente insistito sul condizionamento derivante dal contesto internazionale; e dalla proiezione del conflitto globale tra Occidente capitalistico e Oriente comunista nelle diverse realtà nazionali dell’Europa del dopoguerra, reso ancor più aspro in Italia dalla peculiarità costituita dalla presenza del più grande Partito comunista dell’Occidente, destinato a essere cristallizzato in una pluridecennale opposizione a causa della sua collocazione internazionale. E, dall’altra parte, lo schieramento vincente, oltre all’appoggio degli USA e della Chiesa, seppe abilmente sfruttare lo stato di persistente prostrazione di un Paese uscito sconfitto dalla guerra e la domanda di ordine e sicurezza proveniente da un ceto medio che aveva prestato un sostegno non sempre e non solo passivo al regime fascista, e che esitava a schierarsi senza remore sul terreno della democrazia repubblicana; tanto più che lo scenario politico degli anni a venire sarebbe stato dominato dalla maggioranza centrista uscita dalle urne, poco incline a incoraggiare e tanto meno a farsi carico di aperture riformiste, anche timide, soprattutto sul terreno dell’attuazione della Costituzione.

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Visto dal punto delle culture politiche dominanti, peraltro, la lezione del 18 aprile 1948 assume un significato ulteriore, sul quale forse può valere la pena spendere qualche parola. Da più parti, infatti, si è ripetuto che protagonisti della fondazione della Repubblica democratica sono state le componenti di ispirazione cattolica e socialista, insieme alla minore ma rilevante tendenza repubblicana, cioè “i grandi esclusi” dal processo unitario, realizzatosi ad opera di un ceto politico liberale sostanzialmente omogeneo, pur nelle diverse sfumature, e mediamente ostile sia ai “rossi” che ai “neri”, tenuti a margine della vita pubblica o, quando necessario, cooptati in essa su posizioni subalterne. Anche nel primo dopoguerra, d’altra parte, socialisti e cattolici, pur premiati dalle urne nel 1919, rimasero relativamente estranei gli uni agli altri, ideologicamente distanti e collocati su posizioni parlamentari distinte, che non facilitavano l’incontro e tanto meno il dialogo.

Con la guerra e dopo la caduta del fascismo lo scenario cambia profondamente: comunisti, socialisti e cattolici sono accomunati non solo dalla politica di unità nazionale, ma anche dalla consapevolezza di essere i partiti sui quali sarebbe confluito maggioritariamente il consenso dell’elettorato, una volta finita la guerra. Al tempo stesso, l’opzione a favore di una democrazia parlamentare, che appariva la più credibile, anche solo restando a una valutazione obiettiva dei rapporti di forza, si doveva misurare con culture politiche che nascevano distanti dal modello istituzionale liberal-democratico: se, infatti, non era un mistero la preferenza dei social comunisti per il modello sovietico, o comunque per soluzioni intermedie orientate in quella direzione, i cattolici non avevano dimenticato la pluriennale polemica della Chiesa del Sillabo contro lo Stato liberale usurpatore del potere temporale e, non mancava chi guardava con favore all’assetto corporativo e categoriale che la Chiesa aveva sostenuto sia in Italia, appoggiando il fascismo, sia nella Spagna di Franco o nel Portogallo di Salazar.

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D’altra parte, allo scoppio della guerra, anche il modello del capitalismo liberale godeva di una ridotta credibilità: il conflitto era esploso all’esito della crisi economica globale degli anni 30, che aveva scosso profondamente la fiducia della maggioranza dei cittadini, anche nelle democrazie anglosassoni, nelle capacità del libero mercato di attivare meccanismi di autoriparazione delle sue contraddizioni di fondo e di garantire continuità e stabilità alle istituzioni democratiche.

In sostanza, alla fine della guerra, la soluzione democratica non era affatto scontata, e in Italia, le subculture dominanti non erano spontaneamente orientate in questa direzione. Tuttavia, l’unità antifascista, quale si andò maturando nel ventennio tra le due guerre, non fu solo il comune denominatore di forze di diversa ispirazione, né il frutto di un calcolo realistico sui rapporti di forza, ma rappresentò una stagione politica e ideale del tutto innovativa, e si venne definendo come il punto di incontro di una coalizione politica e sociale che inglobava e andava oltre il suo nucleo fondamentale, costituito dalle organizzazioni della classe operaia e delle forze popolari (che avevano costituito il primo bersaglio del fascismo), e ricomponeva nel suo programma aspirazioni e temi che erano rimasti fino ad allora appannaggio di correnti e sensibilità politiche differenti: la rivendicazione della giustizia sociale, e la consapevolezza che tale obiettivo non era dissociabile dall’espansione della democrazia come sistema istituzionale; l’esigenza di sradicare i potentati economici che avevano favorito l’avvento dei regimi totalitari; il keynesismo a sfondo sociale del new deal rooseveltiano; il rifiuto dello statalismo e dello sciovinismo, espresso sia nell’affermazione della centralità della persona, sia nella valorizzazione di modelli istituzionali autonomistici. Sono tutti temi che appartengono alla cultura plurale dell’antifascismo e che entrano a costituire l’architrave delle costituzioni del dopoguerra, e in particolare della costituzione italiana.

Per quanto riguarda il nostro Paese, la storiografia ha frequentemente posto l’accento, con giudizi di valore differenziati, sulla pretesa delle forze di sinistra, e in particolare del Pci, di proporsi, a partire da quel 1948 e anche in momenti successivi della storia repubblicana, come gli unici o quanto meno i più accreditati depositari dell’eredità dell’antifascismo e della tradizione resistenziale.

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Questo approccio, peraltro leggibile anche in chiave di opposizione alle opzioni maturate nel campo opposto, dominato dall’anticomunismo come fattore di legittimazione delle chiusure conservatrici che segnano i primi anni della Repubblica, apre però anche su una diversa prospettiva, che richiede, in un certo senso, un’inversione dei termini del discorso: si potrebbe, cioè, provare a guardare al periodo che si apre con la prima legislatura repubblicana non solo nei termini di una eredità resistenziale abbandonata dalle forze moderate, e della quale si appropria la sinistra all’opposizione, ma anche di una fase nella quale, al di sotto dei movimenti tellurici prodotti dalla virulenza dello scontro politico e dall’importanza della posta in gioco, la tradizione ideale dell’antifascismo e della Resistenza, concretizzata nella Repubblica e nella Costituzione, continua a esercitare un’essenziale funzione di coesione che, sia pure costretta nei margini ridotti dall’asprezza dello scontro politico, riesce a condizionare profondamente le scelte dei protagonisti. Così che, proprio negli anni in cui lo scontro politico e sociale si fa più aspro, a sinistra regrediscono alle pulsioni insurrezionaliste, mentre, sul versate opposto, viene progressivamente meno la tentazione di trasformare la conventio ad excludendum politica delle sinistre in un’esclusione legale.

Se, politicamente, il 18 aprile segna una frattura profonda nel Paese, destinata a protrarsi anche negli anni successivi e a produrre momenti di crisi profonda della legalità democratica, non si può negare che allora il patto costituzionale resse alle terribili pressioni a cui fu sottoposto e continuò ad agire nel lungo termine, sia pure sotto traccia, come fattore di coesione e di trasformazione del sistema politico italiano, anche grazie all’opera di uomini e raggruppamenti che, su versanti differenti, si mostrarono consapevoli del carattere epocale dei processi storici che avevano portato alla sconfitta del nazifascismo.

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Certo, oggi la situazione è profondamene mutata: il ritmo e la profondità delle trasformazioni che le nostre società hanno affrontato dall’inizio del secolo hanno segnato profondamente anche l’assetto dei sistemi politici, determinando il declino delle famiglie politiche tradizionali (liberali, socialiste, cattoliche) e la crisi della loro egemonia pluriennale. Proprio in un contesto di dinamismo così accentuato, con tutte le incertezze e i rischi che esso comporta, anche nei termini di uno spostamento a destra dell’asse politico europeo e occidentale, non può non suscitare quanto meno interesse, il fatto che la Costituzione repubblicana, sottoposta a critiche convergenti da parte della generalità delle nuove forze politiche, imputata di anacronismo e di scarsa aderenza ai tempi, continui invece a rappresentare un punto di riferimento per la maggioranza della popolazione, che si è pronunciata in modo costante e inequivoco, nei referendum del 2006 e del 2016, a favore del suo impianto fondamentale e del sistema di valori di cui è portatrice. Non mancano analogie con quanto avvenne dopo le elezioni del 1948. Anche allora, la Costituzione, negletta e inattuata, contraddetta spesso da una pratica di governo fondata sulla legislazione fascista, manifestò nel lungo periodo la propria forza, rivelandosi, negli anni, la chiave di volta per la tenuta del quadro politico e il punto di riferimento irrinunciabile per quanti avevano a cuore le sorti della convivenza civile e il progresso del Paese. Fu così allora, e può essere così anche oggi, malgrado e oltre le incertezze e paure del presente.