Agli inizi del 2019 è uscito per i tipi di Einaudi l’ultimo lavoro di Marco Balzano: Le parole sono importanti. Una scelta di dieci parole cui l’autore ha voluto dare voce per raccontarne e ripercorrerne le storie, alla ricerca non solo dell’etimo, dell’origine, ma anche degli scarti e delle manipolazioni che durante i secoli le hanno trasformate in parole diverse, a volte peggiori altre migliori.

Ed è anche per testimoniare la capacità umana di forzare i limiti della lingua per migliorarla che il volumetto si chiude con la parola Resistenza*.

L’etimologia ci dice che Resistenza viene dal verbo latino stare, indica un ri-stare ed è perciò un vocabolo statico, privo di dinamismo; si è voluto invece dimostrare che l’evento della guerra di Liberazione ha alterato la fisionomia della parola e l’ha caricata di un significato che l’etimologia non restituisce: «da “resistenza” diventa “Resistenza”, da parola conservativa si trasforma in parola carica di futuro».

Eppure le donne e gli uomini, soprattutto giovanissimi, non sanno che stanno compiendo la Resistenza: si sentono magari dei “ribelli” («re-bellum, “colui che ritorna a fare la guerra”», come quei soldati che, sbandando dall’esercito regolare si reimbandano in montagna); molti si definiscono “patrioti”, «dunque lottano in nome di un’Italia libera e, soprattutto, liberata dal nazifascismo; per i tedeschi sono tutti “banditi” (banditen)».

Partigiano, come già diceva Gramsci, è chi parteggia e si schiera, e questo è il termine usato tanto dai repubblichini quanto dai tedeschi. «La parola, quindi, non è solamente l’antitesi dell’ignavia, ma indica da subito pericolo e clandestinità».

Una condizione che in Italia durò venti mesi e che, «mentre accadeva, non aveva un nome preciso». Gli stessi protagonisti non avevano idea di come sarebbe andata a finire: tassello di una guerra più grande che infiammava il mondo su fronti lontanissimi, coacervo di storie e azioni concomitanti e spesso molto differenti tra loro che sarebbe riduttivo e fuorviante ridurre a cronologica e consequenziale serie di fatti. Così come differenti furono le ragioni che spinsero donne e uomini alla scelta e all’azione: politica, spontaneità, ribellione, incoscienza, caso diedero il via, dopo l’armistizio, a un gigantesco “bàgolo” [1]. Pian piano, a furia di rastrellamenti e rappresaglie, germogliò e maturò nei Resistenti – accanto alla necessità della lotta – l’idea di un mondo nuovo, «libero dal male del nazifascismo». Un mondo che molti dei combattenti per quella causa non sarebbero giunti a vedere.

«Ne avevano già allora consapevolezza? I “nati poveri prima della Resistenza e morti poveri prima di poterne apprezzare i frutti” [2] si sa ranno resi conto che la loro guerriglia contro la Wermacht, le SS e i loro gregari fascisti avrebbe occupato pagine importanti dei libri di scuola?».

La verità è che non avevamo capito le possibilità della situazione: nell’euforia attivista dei primi mesi, quel senso di essere portati da un’onda, raramente ci si era fermati a domandarsi: Ma che cosa succede esattamente? Cosa si deve fare, ora, a parte farsi portare dall’onda? [3]

«Dunque no, non lo sapevano. E anche per dare un nome agli eventi ci fu bisogno di tempo. L’uso del termine “Resistenza” si sistematizza solo negli anni 50, nelle lezioni dello storico Federico Chabod [4] e, soprattutto, nella prima Storia della Resistenza di Roberto Battaglia pubblicata da Einaudi nel ’53».

“Partigiano”, “ribelle”, “patriota” sono tutte parole parziali. «Il “partigiano” non è solo uno che si è schierato» e ha individuato un nemico durante la guerra: «I più illuminati hanno avuto un ruolo fondamentale anche quando c’è stata da scrivere la Costituzione, hanno nutrito un’idea di mondo basata sulla pace e la democrazia. Chi ha combattuto è stato più di un “ribelle” perché nella sua azione si faceva strada una prospettiva» che oltrepassava la guerra. «Chi ha combattuto è stato più di un “patriota”»: ha ripreso le armi per fondare un “mondo” nuovo, non solo una “patria”.

«Se la parola “resistenza” indica un atto limitato a reggere l’urto, la Resistenza forzerà i limiti della parola. Da un “opporre” si passerà a un “pro-porre”».

«Forse le parole, mentre si agisce, non bastano mai e, tanto meno, è facile scegliere quelle giuste. Nominare le cose vuol dire cercare di comprenderle ed è difficile farlo in presa diretta e in uno stato di travaglio». Anche la grande letteratura della Resistenza deve attendere qualche anno per lasciar decantare le biografie dei singoli e riuscire a rendere, attraverso le loro storie, la dimensione universale della Storia.

«Quando siamo andati a incontrare Renzo Balbo, staffetta nella II Divisione Autonoma “Langhe”, e gli abbiamo chiesto se Resistenza per lui è una parola appropriata, ha risposto subito di no», perché calco di quella francese che fu davvero tale in quanto prevalentemente passiva e perciò così dissimile da quella italiana. «“E poi” ha continuato Balbo “questa parola ha un sapore intellettuale, mentre la Resistenza l’ha fatta gente con la zappa, non con la penna. Resistenza definisce solo un’opposizione, ma noi abbiamo fatto di più: abbiamo fatto la guerra ai tedeschi e abbiamo preso coscienza. Non ci siamo solo opposti”. Resistenza è una parola che ammonisce e ricorda. Rimanda a fatti che ancora ci parlano e che, soprattutto, raccontano vicende che vanno al di là dell’atto del “resistere”. Questa non è un’affermazione apologetica, è piuttosto una constatazione strettamente linguistica perché quell’atto di opposizione era contemporaneamente fondativo della democrazia in cui viviamo. Chi cerca di ridimensionare la parola, chi vuole ricondurla al solo significato etimologico, probabilmente ne preferisce altre che andranno attentamente ascoltate, sorvegliate e, eventualmente, contrastate. L’etimologia, a questo riguardo, è un’arma utile perché può trasformarsi in disciplina militante: in un sapere che, come diceva Foucault, non serve solo a conoscere, ma a prendere posizione» [5].

* Questo testo è stato scritto con Irene Barichello, della redazione della rivista online dell’Anpi, Patria indipendente.

 Si ringrazia l’editore Einaudi per aver concesso la pubblicazione di alcuni passi della voce “Resistenza” del volume di Marco Balzano “Le parole sono importanti”, 2019, Einaudi.


[1] “Bàgolo” nel dialetto veneto significa “confusione”: “Era tuttavia un gran piacere trovarsi in mezzo a questo bàgolo. Primeggiavano sugli altri gli studenti e i popolani, ma tutti cercavano di fare qualcosa, perfino i giovanotti azzimati della piazza, i quali si assunsero il taglio dei capelli alle ragazze che si erano fatte vedere coi tedeschi, magari senza vera malizia politica, poverine; il boia era il principale parrucchiere del centro, e il taglio veniva eseguito con finezza, quasi con civetteria”, in Luigi Meneghello, I piccoli maestri, in Id., Opere, vol. 2, Rizzoli 1997, p. 26.

[2] Sono parole di Nello Quartieri (nome di battaglia: “Italiano”), comandante partigiano e membro del battaglione Picelli. Cfr. Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani, a cura di Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi, Einaudi 2012, p. 22.

[3] Luigi Meneghello, I piccoli maestri cit., p. 36.

[4] Il volume delle lezioni universitarie tenute alla Sorbona venne pubblicato nel 1950 a Parigi e undici anni più tardi in Italia. Cfr. Federcio Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948). Lezioni alla Sorbona, Einaudi 1961.

[5] Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id. Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquin, Einaudi 1978, p. 43.