Mark Rothko. Giallo su viola, 1956Questa è la storia di un uomo geniale, irrequieto, colto, ideatore di un linguaggio visivo inedito, in apparenza semplice. Ed è anche la storia di un immigrato ebreo che, nel 1913, a soli dieci anni, lascia la sua casa in Russia e si sposta, con tutta la famiglia, negli Stati Uniti, per sfuggire ad una nuova ondata di antisemitismo.

È la storia di Mark Rothko (1903-1970), uno degli artisti più conosciuti e riconoscibili del XX secolo, esponente di spicco della cosiddetta “color field painting”, quella pittura caratterizzata da campiture di colore dilatate sulla totalità della tela. Sono passati ormai cinquanta anni da quando l’artista ci ha lasciato suicidandosi nel suo studio di New York, ma le sue opere, ancora oggi, riescono ad emozionare e far riflettere il pubblico contemporaneo. Sensibile e attento alla vita che lo circonda Rothko, da subito, ha lavorato per far vivere una vera e propria esperienza emozionale al pubblico. L’artista con le sue cromie infatti voleva creare “un’esperienza completa fra dipinto e osservatore”, in una dimensione interiore e spirituale. Le sue opere, oggi iconiche, appaiono come masse di colori vibranti: rosso, giallo, nero, verde, nelle quali la figura umana è totalmente assente, sostituita da forme cromatiche, espressione intima della condizione umana. “Non mi interessano – afferma l’artista – i rapporti di colore, di forma o di qualsiasi altra cosa. Mi interessa soltanto esprimere emozioni umane fondamentali”.

Mark Rothko, Lavanda e verde, 1952

L’arte di Rothko, dunque, è un vero e proprio viaggio verso le emozioni assolute, un viaggio che dovrebbe essere intrapreso lentamente, senza pregiudizio, perché è soltanto attraverso un’attenta e graduale osservazione che l’occhio riesce a scoprirne ogni pulsione. Provare per credere: “Il fatto – racconta in un’intervista al poeta e scrittore Seldan Rodman Rothko – che un gran numero di persone rimanga profondamente turbato e pianga quando si trova di fronte ai miei dipinti, dimostra che io sono in grado di dare espressione alle fondamentali emozioni umane. La gente che davanti ai miei dipinti piange compie la stessa esperienza religiosa che io compio quando li dipingo. E quando voi, come avete fatto, vi chiedete solamente dei loro rapporti cromatici, allora vi sfugge l’essenziale”.

Mark Rothko fotografato nel suo atelier nel 1961

Tragedia ed estasi così sono per lui le condizioni essenziali della vita, espressioni del dramma umano universale. Un dramma che Rothko impara a conoscere già a all’età di due anni, quando, nel 1905, Dvinsk, sua città natale, viene setacciata dalla polizia segreta zarista e tutte le comunità giudaiche, al grido di “Chi annienta gli ebrei salva la Russia”, sono sistematicamente vittime di persecuzioni. Proprio per evitare questo continuo clima di terrore, i Rothkovich, questo il vero cognome della famiglia dell’artista, decideranno anni dopo di emigrare negli Stati Uniti, sbarcando a Ellis Island, il principale punto d’ingresso per gli immigrati. Arrivato a New York, Rothko studia con successo e, già dall’adolescenza, si sente coinvolto nelle lotte a favore dei diritti dei lavoratori: si schiererà, ad esempio, a favore del diritto di sciopero.

Mark Rothko, No. 17, 1957

Fra la consapevolezza della violenza umana e l’ambizione di riscatto, Rothko forma la sua poetica, portando avanti un obiettivo ben chiaro: il desiderio di realizzare opere con cui sia possibile stabilire una relazione intima. L’artista è così convinto che i suoi lavori possano produrre reazioni emotive e spirituali nel pubblico che, ben presto, si assicura di stabilire regole molto dettagliate sulla modalità di esposizione dei suoi quadri e su chi sia autorizzato a vederle (ovviamente, non gli scettici!). Rothko è attento a ribadire come sia importante proteggere il significato dei suoi lavori, intesi come qualcosa di vivente, preservandone la fruizione. Come nel 1959 quando dà chiare disposizioni su come desidera che siano ammirati i suoi lavori, suggerendo l’altezza dal pavimento del quadro o quando predispone la vendita delle sue opere dopo la sua morte: si dovrà dare precedenza ai musei di New York o ai privati che possiedano già alcune sue opere; poi ci sarà la possibilità per i musei al di fuori della Grande Mela e dell’Europa, ma solamente se acquisteranno almeno sei opere.

Rothko. Arancione, rosso, giallo, 1961

Rothko è convinto che le sue opere possano essere tutelate solamente grazie alle attenzioni di osservatori sensibili, liberi dalle convenzioni della conoscenza. Le sue campiture di colore, ci tiene a specificare l’artista, non sono decorazioni parietali, ma sono quadri “intimi ed intensi” e per questo debbono essere considerati all’opposto di decorazioni: “I miei quadri – ribadisce – sono stati dipinti utilizzando la scala dell’esistenza umana e non quella istituzionale”. Rothko rifiuta con fermezza l’etichetta di astrattista, chiarendo di “non essere un artista astratto. Non mi interesso dei rapporti di forma e di colore o qualsiasi altra cosa del genere. Mi interessa solo esprimere le più fondamentali sensazioni umane, tragedia, estasi, fatalità e cose simili”. Anche se per Rothko l’uso del colore è oggettivamente fondamentale, le cromie scelte rimangono esclusivamente un mezzo per comunicare l’esperienza di una realtà trascendente. Nel tempo, la sua tavolozza passa dalla brillantezza dei rossi, degli arancioni e dei gialli alla cupezza dei marroni, dei grigi, dei blu scuri e dei neri. L’artista elabora un linguaggio autonomo, con la costante riduzione dell’immagine ai minimi termini: “La progressione dell’opera di un pittore – spiega – mentre procede da un punto all’altro nel tempo, sarà diretta verso la chiarezza; verso l’eliminazione di qualunque ostacolo tra il pittore e l’idea e tra l’idea e l’osservatore”. E così dopo aver superato gli esordi simbolisti e vicini al surrealismo di Masson e Miró, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, Rothko elabora la sua pittura più emblematica, ottenuta attraverso un processo di astrazione di campiture di colore, dove forme geometriche regolari, soprattutto quadrati e rettangoli, si stagliano su grandi sfondi monocromatici. Il risultato è un’esperienza visiva ipnotica.

La Rothko chapel a Houston

Esemplare in questo senso è la sua ultima opera: la decorazione con quattordici pannelli della Cappella De Menil a Huston, rivestita con grandi quadri nei toni che vanno dal nero al rosso prugna e al violetto. Inaugurata nel febbraio 1971, un anno dopo la sua morte, la Cappella Rothko è un luogo di spiritualità aconfessionale, “un santuario per chi sta cercando, aperto a tutti, centro di scambi culturali e luogo spirituale per gli individui di ogni fede”. È stata costruita per volere di Dominique e John de Menil, una coppia di francesi, immigrati come Rothko, giunti a New York dopo l’occupazione nazista della Francia. La Cappella è un monumento ecumenico: ha una pianta ottagonale, come una fonte battesimale, ed è decorata con una serie di dipinti che giocano e vibrano grazie ai riflessi della luce naturale che penetra attraverso finestre appositamente studiate dall’artista.

Le origini russe di Rothko emergono qui con forza, esplicitate dalla tradizione mistica delle immagini e dei colori di tradizione bizantina. Questa è un’opera fortemente evocativa, musicisti come Morton Feldman e Peter Gabriel, ad esempio, le hanno dedicato brani. E non solo. Per volere dei fondatori, la Cappella è un luogo legato ai diritti sociali: è sede del Premio Oscar Romero, l’arcivescovo cattolico di San Salvador ucciso nel 1980 da un sicario degli squadroni della morte per il suo impegno nel denunciare le violenze della dittatura militare del suo paese e canonizzato nel 2018 da papa Francesco, simbolo dei martiri per la giustizia e la pace. “Credo – ha affermato Dominique Menil nel discorso di inaugurazione – che i dipinti ci dicano cosa dovremmo attenderci da loro, se solo dessimo loro una chance. Ogni opera d’arte forgia il clima in cui può essere interpretata. Rothko volle conferire ai suoi dipinti la massima efficacia possibile. Li voleva intimi e senza tempo, e in effetti sono intimi e senza tempo. Ci circondano senza racchiuderci. Le loro superfici cupe non bloccano il nostro sguardo. Attraverso i toni rosso-bruni possiamo continuare a vedere l’infinito”.

Lo scopo di Rothko è “avvolgere, ambientare lo spettatore, aprire uno spazio alla sua immaginazione” (Giulio Carlo Argan). È il primo artista ad interrogarsi sulla psicologia della parete: “Quasi tutta la nostra esistenza – spiega Argan – si svolge fra quattro pareti, che limitano e condizionano la nostra esperienza. E la parete non è solamente una superficie solida di mattoni intonacati […], (con Rothko) la parete cessa di essere un limite, un divieto psicologico; come assorbito e filtrato attraverso la trama del colore, lo spazio al di là passa al di qua, trabocca dai limiti del muro, invade lo spazio”.

L’artista, nella sua apparente semplicità, ci insegna ad essere profondi e sensibili, a vedere oltre i muri, oltre i confini imposti. La storia di Rothko è quella di un uomo coerente, con una forte coscienza sociale, sempre dalla parte dei rifiutati dalla società, che ha vissuto sulla propria pelle la condizione di emigrante e ha portato con sé le cicatrici della difficoltà dell’integrazione. Una difficoltà che ha spinto l’artista a dipingere opere di rottura create per il pubblico: “Non ho mai pensato – dice – che dipingere un quadro abbia a che vedere con l’espressione di sé stessi. L’arte è una comunicazione sul mondo diretta ad un altro essere umano. Quando questa comunicazione è convincente, il mondo si trasforma”.