Dopo oltre cinquanta anni, la Capitale dedica una grande retrospettiva ad Antonio Ligabue (1889-1965), genio tormentato conosciuto in tutto il mondo per i suoi lavori graffianti e irrequieti. Fino all’8 gennaio 2017, nelle sale del Complesso del Vittoriano (Ala Brasini), cento opere racconteranno la vita dell’artista, nato nella Svizzera tedesca ma che sulle rive del Po, a Gualtieri, vive fino alla morte, dopo essere stato espulso nel 1919 dal suo Paese. Una vita segnata dalle sofferenze: l’adozione dopo la nascita, la morte della madre e dei fratelli, l’odio per il patrigno, gli anni di vagabondaggio, l’arrivo a Gualtieri e i continui ricoveri negli ospedali psichiatrici. Emarginato per anni, Ligabue riesce, con la sua arte, ad affermarsi, ottenendo numerosi riconoscimenti. Anche la critica d’arte, dopo anni di ostracismo, apprezza la sua spiccata capacità di trasfigurazione, con cui raggiunge una dimensione pittorica espressionista. «La grandezza di Ligabue – afferma il curatore della mostra Sandro Parmiggiani – è quella di artisti come Vincent Van Gogh o Henri Rousseau, che riescono a piegare la realtà come noi la vediamo a delle forme e dei colori che ci trasmettono un carico di emozioni che altrimenti noi non riusciremmo a percepire attraverso il nostro sguardo».
La mostra propone ai visitatori un excursus storico e critico sull’attualità dell’opera di Ligabue, oggi una delle figure più interessanti dell’arte del Novecento. Tre le sezioni del percorso di visita, dall’incertezza grafica degli esordi alla padronanza delle forme e del colore, fino alla deformazione figurativa, dove i protagonisti sono gli animali e i numerosi autoritratti. «Ligabue – prosegue Parmiggiani – è un artista dell’Europa: questa è la dimensione che gli compete, come questa stessa mostra di Roma, che presenta alcune tra le sue opere più significative e importanti, contribuirà a confermare». Tra gli olii esposti: Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero (1956-1957), Tavolo con vaso di fiori (1956) e Gorilla con donna (1957-1958), accanto a sculture in bronzo come Lupo siberiano (1936). In mostra anche una sezione dedicata alla produzione grafica con disegni e incisioni quali Mammuth (1952-1962), Sulki (1952-1962) e Autoritratto con berretto da fantino (1962) e una sezione sulla sua vicenda umana.
I motivi costanti e principali dell’universo espressivo di Ligabue sono due: gli animali, feroci ma anche domestici, espressione di libertà spesso da conquistare, e i ritratti di sé, in cui con forza l’artista dichiara il proprio essere artista. Autodidatta, Ligabue sa di essere un artista. E lo grida con determinazione per affermare la propria dignità, anche quando è rinchiuso nei manicomi: «Sono io l’artista – scrive il 10 ottobre 1948 al sindaco di Gualtieri per chiedere di essere dimesso dall’Istituto Psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia – e sono persino capace di rappresentare me stesso, pur segnato, come potete vedere, dalle ferite della vita; anche così voglio riaffermare la mia dignità di persona umana».
Gli autoritratti finora archiviati dal curatore Sergio Negri sono più di centosettanta su un totale di circa ottocentosettanta dipinti: un numero notevole che fornisce la cifra su cosa, per Ligabue, significa raffigurarsi. Importante, in questo senso, è notare come il primo autoritratto dell’artista risale al 1940, anno in cui Ligabue viene ricoverato per la seconda volta in manicomio. È proprio nella condizione di detenzione in manicomio che Ligabue sente l’esigenza di esprimere il suo valore come artista. Ligabue si ritrae sempre in primo piano, non lascia spazio al paesaggio o ad altri dettagli. La sua immagine è impietosa: il gozzo ipertrofico, i solchi delle rughe, il naso segnato dai tormenti inflittigli e uno sguardo espressivamente dolente. A volte sul suo volto si posano delle fastidiose mosche e intorno alla sua persona volano neri corvi, presagio di morte e desolazione. La sua è una condizione di angoscia e smarrimento: Ligabue conosce il male di vivere. Negli autoritratti, inoltre, il pittore non osserva mai lo spettatore ma, al contrario, chiede di essere guardato e di ricevere un po’ di attenzione.
Colori accesi e tratti decisi caratterizzano le opere dedicate agli animali, raffigurati domestici in paesaggi agresti o selvatici nella foresta, nella giungla o nel bosco. Se nei primi ritroviamo la volontà dell’artista di riappacificarsi con i suoi tormenti esistenziali, nei secondi possiamo comprendere i dissidi interiori che straziano l’anima di Ligabue. I felini vengono ritratti con minuzia di particolari, in accordo con le forme vegetali che li circondano: tutto palpita e la vitalità dell’animale contamina la natura, in una tensione simbiotica.
Con questa rassegna, dunque, Roma rende omaggio ad Antonio Ligabue, proponendo una visione più completa e unitaria dell’artista, troppo spesso etichettato semplicemente come naïf. La mostra è un viaggio nelle opere di una personalità complessa, che nella sofferenza e nel dramma esistenziale ha trovato la forza per esprimere se stesso. Un viaggio che proietta Ligabue in una dimensione europea e che, al di là delle tragedie che hanno contrassegnato la sua vita, lo innalza fra i grandi dell’arte del Novecento.
Sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e con il patrocinio della Regione Lazio, Roma Capitale e Fondazione Federico II Palermo, la mostra Antonio Ligabue è promossa dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri e dal Comune di Gualtieri, è curata da Sandro Parmiggiani, direttore della stessa Fondazione e da Sergio Negri, presidente del comitato scientifico, con l’organizzazione generale di Arthemisia Group e C.O.R. Creare-organizzare-realizzare.
Pubblicato venerdì 18 Novembre 2016
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