“Questa mostra è il frutto di sette anni di vissuto umano e di spedizioni fotografiche compiute via terra, acqua e aria”, ha dichiarato il fotografo brasiliano Sebastião Salgado, uno dei più apprezzati maestri della scena contemporanea mondiale, nel presentare “Amazônia”, la mostra allestita nelle sale del Maxxi di Roma e visitabile fino al 13 febbraio. E ha aggiunto: “Esplora una regione dell’Amazzonia per lo più ancora ignota e che, con la cultura e l’ingegno dei suoi abitanti e l’ineguagliabile bellezza della natura, non ha mai smesso di darci insegnamenti e di stupirci. Grazie all’impenetrabilità della foresta, per secoli alcuni gruppi etnici sono riusciti a preservare il loro tradizionale stile di vita. Oggi, però, questi gruppi e la foresta sono seriamente minacciati. Le immagini vogliono essere la testimonianza di ciò che resta, prima che possa scomparire”.

Sebastião Salgado con la moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado

L’unica tappa italiana di questa mostra, di cui è curatrice Lélia Deluiz Wanick Salgado, compagna del fotografo da oltre cinquanta anni, offre una spettacolare visione di oltre duecento fotografie dell’Amazzonia brasiliana. La carriera di Salgado, lunga mezzo secolo, è costellata di riconoscimenti internazionali: è stato premiato, tra gli altri, come Cavaliere della Legion d’onore in Francia, ha vinto un World press photo nel 1985, l’Hasselblad nel 1989 ed è stato il primo fotografo a ricevere il premio Principe delle Asturie per le arti in Spagna.

Rio Jaú. Stato di Amazonas, Brasile, 2019. © Sebastião Salgado/Contrasto

Con le sue fotografie documentarie, rigorosamente in bianco e nero, ci mostra le più grandi atrocità umane e i luoghi più splendidi del pianeta. Sono 130 i Paesi che ha finora percorso, partendo dal suo Stato di nascita, Minas Gerais. Salgado lascia il Brasile nel 1969, durante la feroce dittatura, stabilendosi a Parigi dove inizia la sua carriera come fotografo professionista. Il suo primo reportage risale al 1973: è un’analisi visiva della siccità nella zona subsahariana del Sahel ed è seguito da uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974 documenta la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico; nel 1994 il genocidio di Ruanda.

Il paesaggio amazzonico (Unsplash)

Dal 2013 al 2019, non senza difficoltà, Sebastião e Lélia hanno effettuato 48 spedizioni, ognuna delle quali durata 4 o 5 mesi e composta da 10 o 15 persone. Salgado ha fotografato l’incredibile diversità naturale della foresta pluviale amazzonica e gli stili di vita dei popoli indigeni brasiliani: si è fermato nei loro territori per settimane documentando gli Yanomami, gli Asháninka, gli Yawanawá, i Suruwahá, gli Zo’é, i Kuikuro, i Waurá, i Kamayurá, i Marubo, gli Awá, i Macuxi e i Korubo. Quest’ultimo è tra i popoli con meno contatti esterni: proprio la spedizione di Salgado nel 2017 è stata la prima occasione in cui un team di documentaristi e giornalisti ha potuto trascorrere del tempo con loro. Ha voluto fotografare non le ferite, ma la bellezza, dimostrando che nelle aree dove vivono i popoli indigeni la foresta non ha subito quasi nessun danno.

Monte Roraima. Stato del Roraima, Brasile, 2018. © Sebastião Salgado/Contrasto

La mostra allestita al Maxxi è divisa in due parti: nella prima le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica con sezioni che vanno dalla foresta vista dall’alto alle tempeste tropicali e alle “Isole nella corrente”, il più grande arcipelago di acqua dolce al mondo conosciuto come arcipelago di Anavilhanas, caratterizzato da isole dalle forme più disparate che emergono dalle acque del Rio Negro. Accanto a filmati e video, le immagini rivelano un labirinto di tortuosi affluenti che alimentano fiumi immensi, montagne che raggiungono 3.000 metri come il monte sacro Roraima, cieli carichi di nuvole ove in cui si creano veri e propri fiumi detti “volanti”.

Nella seconda parte della mostra incontriamo fotografie dei popoli indigeni: gli intensi legami familiari, la caccia e la pesca, la preparazione e la condivisione dei pasti, i capi spirituali, le danze, i rituali, il rapporto con la terra. I filmati che accompagnano le foto permettono di ascoltarne le voci, di conoscere la filosofia e la ricchezza delle loro culture.

(Unsplash)

La mostra si sviluppa in spazi che ricordano le ocas, le tipiche abitazioni indigene, evocando gli insediamenti nel cuore della foresta. In questo viaggio si è accompagnati da una sinfonia creata appositamente dal compositore francese Jean-Michel Jarre. E ancora, ritroviamo una sala con paesaggi boschivi, le cui immagini scorrono accompagnate dal poema sinfonico Erosão ou a origem do rio Amazonas di Heitor Villa-Lobos. In un’altra sala sono esposti ritratti di donne e uomini indigeni con una musica composta da Rodolfo Stroeter del gruppo Pau Brasil.

Famiglia Ashaninka. Stato di Acre, Brasile, 2016. © Sebastião Salgado/Contrasto

Il connubio di etica ed estetica costituisce la forza di tutte queste immagini che invitano a riflettere su un mondo minacciato, sul problema ambientale che mai come oggi si fa urgente, sulla necessità di proteggere ciò che resta della foresta amazzonica e dei suoi popoli. Da molti anni Salgado e sua moglie portano avanti un grande impegno nella difesa dell’ambiente che si è concretizzato nella fondazione dell’Istituto Terra nello stato del Minas Gerais e nell’obiettivo di ripiantare 4 milioni di alberi in terre nelle quali l’ecosistema era stato devastato per recuperare oltre 1.500 ettari di “mata”, la foresta della regione atlantica. L’evoluzione del progetto ha portato alla nascita del Centro per l’educazione e il restauro ambientale (Cera) che propone un approccio ecosostenibile come unica via per salvare la Terra. Salgado cavalca il mondo spinto dalla curiosità di conoscere e la voglia di trasmettere.

Un rituale dei popoli dell’Amazzonia (Unsplash)

Dopo l’esposizione “Exodus. In cammino sulle strade delle migrazioni” e “Genesis”, che testimonia la maestosa bellezza delle regioni più remote del pianeta, Salgado ha intrapreso la serie di viaggi per immortalare l’incredibile ricchezza della foresta amazzonica brasiliana e dei suoi popoli. Ricordiamo che la Panamazzonia si snoda in nove Paesi dell’America del Sud, occupa un terzo del continente sudamericano, un’area più estesa dell’intera Unione Europea e la regione amazzonica brasiliana occupa circa il 65% della Panamazzonia. L’attuale area dell’Amazzonia brasiliana costituisce circa il 59% della superficie del Paese, corrisponde agli Stati di Acre, Amapá, Amazonas, Pará, Rondônia, Roraima, Tocantins (oltre a parte degli Stati di Mato Grosso, Maranhão e Goiás) ed è abitata, come rivela una recente ricerca dell’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), da oltre 305 popoli indigeni. In questa regione, pari a nove volte il territorio francese, vivono 23 milioni di persone, ovvero il 12,32% del totale degli abitanti del Brasile.

Il fiume Demini, affluente del Rio delle Amazzoni (Unsplash)

La biodiversità della foresta amazzonica è stata oggetto di continua predazione, in particolare lungo i confini esterni. Ogni anno decine di migliaia di aziende agricole si appropriano di nuovi terreni distruggendo le terre dei popoli originari che incontrano lungo il cammino. Non sanno che così facendo distruggono anche elementi preziosi per la vita dell’intero pianeta. La foresta dell’Amazzonia è l’unico luogo al mondo, per esempio, in cui l’umidità aerea non dipende dall’evaporazione degli oceani: ogni albero funge da aeratore e proietta nell’atmosfera centinaia di litri d’acqua ogni giorno creando i cosiddetti “fiumi volanti”, che si espandono per tutto il pianeta e la cui portata supera quella del Rio delle Amazzoni.

La “mata” atlantica (wikipedia)

Le fotografie satellitari sono solite immortalare la foresta tropicale quasi interamente coperta dalle nubi. “Il giorno in cui la foresta sarà perfettamente visibile dallo spazio, significherà che i fiumi volanti saranno scomparsi, con tutte le conseguenze catastrofiche che ciò implicherebbe per la Terra” (Salgado). Con questa mostra si vuole, perciò, sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di una immensa terra ferita da deforestazioni abnormi, attraverso i volti e i gesti dei suoi abitanti: uomini e donne che lottano e resistono da 500 anni. Sono loro i guardiani della foresta, i veri difensori dell’ecosistema. Da loro abbiamo molto da imparare.

Antonella Rita Roscilli, giornalista brasilianista