ma alla vita in pace no non dico,
nell’Ucraina credo, no alla guerra,
e aiuto i nostri, faccio quel che posso”.
Sono tra i versi di ‘Una poesia recente’ la lirica che, scritta il 26 giugno 2022, chiude la plaquette “Nella lingua del nemico” di Aleksandr Michajlovic Kabanov, ora tradotta in italiano, con cura e attenzione, da Alessandro Achilli per i tipi di Interlinea.
Una prima volta in italiano per un poeta ucraino di madre lingua russa che, oltre a essere un editore e un traduttore, è soprattutto un attivista politico e civile: quindici le antologie pubblicate e tradotte in molte lingue fino ad oggi. Molti i premi illustri, tra i quali, nel 2010, il premio internazionale “Antologia” per i suoi meriti nella poesia di lingua russa.

Toccante e fortemente educativo l’incontro che il poeta ha avuto in streaming con alcuni studenti dei licei vercellesi Lagrangia e Avogardo. In diretta Zoom la guerra si è materializzata nella pace di una mattinata a scuola: mentre i ragazzi e il poeta dialogavano come amici di sempre, il terribile risuonare degli allarmi su Kiev e le vicine bombe sulle centrali elettriche, che hanno spesso interrotto la linea telefonica, hanno materializzato nell’aria l’idea stessa di pericolo, guerra, distruzione descritta nelle liriche. Una lezione di vita indimenticabile per chi vi ha assistito. Merce rara, i poeti vivi, a scuola, dove troppo spesso si associa l’arte all’antico e si dimentica il presente. Di questo nostro tragico presente storico Kabanov è testimone umano e lirico e mai come ora la sua poesia si fa pungente e cogente.
E mai come ora la frattura tra la cultura russa e quella ucraina sembra una delle inevitabili conseguenze di un conflitto che sembra non avere fine.
L’amata lingua russa, la lingua del primo pensiero, del latte materno, della musicalità del suo verso fin dalle origini, è ora la lingua del nemico.

Possono le lingue degli uomini caricarsi sulle spalle il peso delle azioni di chi le parla? Possono essere, le parole, la causa di tanti delitti, crimini e misfatti? Ancora il poeta ci aiuta a capire: “Ora in Ucraina si cerca di dare al russo lo status di lingua nemica, di lingua del nemico. E proprio così, infatti, si chiama il libro che state leggendo, Nella lingua del nemico. Alcuni di questi versi li ho scritti decenni prima della guerra russo-ucraina, altri sono molto recenti. Parlano tutti della guerra, dell’amore e del mondo che verrà, un mondo in cui finalmente le persone capiranno una volta per tutte che una lingua, a qualsiasi cultura o nazione appartenga, non è mai colpevole. La colpa è sempre delle persone, dei parlanti di quella lingua. E quelle persone hanno dei nomi e dei cognomi ben precisi”.
Sognavo di morire,
son morto e ho fatto un sogno:
qualcuno piange al vento,
un cuore si è fermato.
Le rive tu hai confuso,
come due corde marce:
la lingua del nemico
impara e taci in russo.
Di paglia è questo fuoco,
il sole all’orizzonte:
la lingua del nemico
impara e statti zitto.
Da bravo l’ho studiata
perché ne faccio parte,
si arrabbiano i ceceni,
arrivano i buriati.
Ed ecco Ilovajs’k,
paesaggio di rovine:
la lingua del nemico,
morir per l’Ucraina.

Aleksanrd Kabanov è un poeta ‘civile’, un soldato armato di sole parole. Parole come scelta, suono, segno e fierezza. Gesto di solidale civiltà sempre e comunque, la poesia civile, in ogni sua forma, fiaba, poema o leggenda, concretizza il bisogno umano di dichiarare, denunciare, condividere. Strada di difficile percorrenza, genere che fa della libertà del canto, della musicalità di versi e parole, strumento di impegno, lotta, consapevolezza e, appunto, condividere.
Invisa ai tiranni, amata dagli eroi, talmente efficace da obbligare dittatori di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e soprattutto in guerra, a imbavagliare menti, mani e cuori: ecco prigioni, esilii, torture e condanne per chi osa alzare la testa dal silenzio.
Oggi come ieri. Come domani, si teme.
La poesia, lo sappiamo, la colpa
ce l’ha. Se ne va in giro losca,
le tasche senza fondo, è sacra
come un tempio e timore non ha.
Lei deve, lei deve, e cieca si dà,
ma poi dell’uomo che cosa rimane?
Un vagoncino, un piccolo carretto,
e tra le gambe una chiavetta circoncisa.
Che sia una piaga o un’onorificenza,
io vivo solo e fretta non ne ho.
D’autunno ho voglia di sfogliare Puškin:
e che ci posso fare, è un africano.
Non ce l’ho fatta, mi sono vestito
con le pellicce calde e le otri vecchie,
che maledetto sia chi ha dubitato
e chi ha affermato che io – scrivo versi.
E noi, in attesa che torni la giusta pace, non possiamo che saziarci della bellezza di queste liriche che, colme di lacrime e sorrisi, lasciano intravedere un futuro diverso, si spera migliore.
Elisabetta Dellavalle, giornalista, collabora anche con La Stampa
Pubblicato venerdì 24 Febbraio 2023
Stampato il 11/12/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ce-la-guerra-e-io-scrivo-versi-invece-di-sbronzarmi/