L’anno appena trascorso è stato ricco di anniversari che hanno offerto più di un’occasione per intraprendere percorsi di riflessione su vicende che hanno costituito altrettante pietre miliari nella storia del nostro Paese, e non solo: esse presentano dimensioni e implicazioni tali da porle di per sé al di là delle mere celebrazioni e dei relativi apparati retorici e rituali, e da proiettarle direttamente sul terreno accidentato, ma estremamente proficuo, di un dibattito storiografico che investe anche i processi di formazione della memoria collettiva. In particolare, il centenario dell’ultimo anno della Prima guerra mondiale e il settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana hanno fornito altrettante occasioni per ripensare un trentennio aperto dalla dissoluzione dell’ordinamento liberale, occupato in larga parte dal regime fascista e chiuso dalla guerra di Liberazione e dalla nascita della Repubblica. In questo arco di tempo, si colloca anche l’emanazione delle leggi razziste, nel 1938; una ricorrenza fortemente sentita, più che in passato, non solo per l’impatto drammatico che ebbe sulla vita del nostro Paese, ma anche perché ripensare quegli eventi oggi sollecita una riflessione sull’attualità, in una fase storica nella quale non solo in Italia, ma in tutta Europa e nel mondo, sembrano prendere nuovamente corpo i fantasmi della xenofobia e del razzismo, evocati da violente campagne contro immigrati, rifugiati e richiedenti asilo, spesso animate da veri e propri deliri identitari che rinviano senza troppe mediazioni alle tirate contro il meticciato e le contaminazioni del razzismo novecentesco.
Giunge dunque particolarmente opportuno un sintetico e denso lavoro di Claudio Vercelli – “Francamente razzisti: le leggi razziali in Italia” – a tracciare un bilancio di questo anniversario, a lumeggiare i caratteri di fondo e la fisionomia del razzismo italiano, e a ricordare che solo recentemente si è fatta largo una lettura di quegli eventi che, abbandonata la strada della reticenza e dell’autoassoluzione, ha cercato di fare chiarezza sull’atteggiamento ambivalente e contraddittorio con cui la società italiana accolse le leggi del 1938. Come sottolinea l’autore nell’introduzione:
«Dopo una lunga assenza d’indagini e conoscenze, si è quindi arrivati a colmare il divario preesistente. Non è stato peraltro un caso che fino ai tempi a noi più prossimi sia continuato a persistere un tale “vuoto di memoria”. Poiché come ogni assenza, esso indicava la persistente indisponibilità del nostro Paese a pensarsi come corresponsabili, non importa in quale misura e proporzione, della tragedia dello sterminio degli ebrei, imputando invece alla mano tedesca la totalità delle colpe».
In effetti, non sono mancati, anche in un recente passato, argomenti divulgati da storici e pubblicisti, finalizzati a minimizzare le responsabilità italiane nell’attuazione delle politiche antiebraiche, prima di discriminazione e di persecuzione, e poi di sterminio: l’asserita impermeabilità dello spirito pubblico (il mito del buon italiano) alle ideologie razziste; l’adesione del regime fascista all’antisemitismo come uno “sbandamento” tardivo, effetto della subalternità al nazismo, in contrasto con la precedente “mitezza” del regime; la “blanda” attuazione dell’applicazione delle leggi razziali, come corollario dei due precedenti assiomi. Questo apparato giustificazionista, maturato nel clima di restaurazione del dopoguerra, ha fatto sì, tra l’altro, che nessuno dei sedicenti scienziati firmatari del Manifesto della razza subisse alcun pregiudizio per il proprio operato, e, anzi, che alcuni di loro proseguissero senza intoppi una lunga e fortunata carriera accademica.
Quanto alla presunta estraneità dell’ideologia fascista al razzismo prima della metà degli anni 30, il lavoro di Claudio Vercelli offre due importanti elementi di chiarificazione, attraverso una puntuale ricostruzione delle diverse fonti e delle mutazioni dell’antisemitismo europeo tra il XIX e il XX secolo e attraverso la ricostruzione delle suggestioni e delle narrazioni pubbliche attraverso le quali il fascismo incorporò le componenti ideologiche destinate inevitabilmente a confluire in un discorso compiutamente razzista.
L’antisemitismo della prima metà del XIX secolo, ricorda l’autore, si radica soprattutto nella condanna teologica del popolo ebreo come il popolo “deicida”, un corpo estraneo minacciosamente insediato nella comunità dei credenti. Già verso la fine dell’Ottocento, tuttavia, questo discorso sul carattere “spirituale” dell’antisemitismo declina a favore di altri: l’identificazione dell’ebraismo con il capitalismo finanziario, per sua natura rapace e parassitario, propagandato da dottrine pseudosocialiste impegnate e reinterpretare il conflitto sociale in chiave razziale; la conseguente narrazione del complotto ebraico per il dominio mondiale (sono gli anni in cui la polizia zarista “inventa” uno dei falsi più famosi della storia, i Protocolli dei Savi di Sion) attuato attraverso la penetrazione mimetica nei gangli della vita economica e sociale al solo scopo di perfezionare lo sfruttamento e all’oppressione del popolo (cristiano); la critica speculare rivolta dal pensiero liberale all’ebraismo, di continuare a costituire una realtà separata e renitente all’integrazione, spesso accompagnata da elucubrazioni di stampo positivistico sulla matrice biologica di tale tendenza. Tutte queste espressioni di ostilità antiebraica si coagulano e si radicalizzano alla scoppio della prima guerra mondiale, quando dall’esasperazione dei nazionalismi e degli irredentismi scaturisce la condanna di tutto quanto potesse evocare ideali pacifisti e internazionalisti, ideali dei quali l’ebraismo era considerato veicolo proteiforme e perciò particolarmente efficace, pronto ad assumere di volta in volta la sembianza religiosa, laica e massonica, plutocratica e, dal 1917 in poi, bolscevica, sempre e comunque costituendo il “nemico interno” impegnato a disgregarne la coesione politica, etica e religiosa della nazione.
Che il fascismo potesse facilmente identificarsi con questo sgangherato armamentario ideologico non può certo sorprendere: è tipica del primo fascismo sia la polemica antiborghese, funzionale a conferirgli una verniciatura “socialista” e populista, sia la rappresentazione di sé come antipartito, in lotta contro la sovversione interna, descritta secondo gli stereotipi più facilmente riconducibili all’ebraismo quale matrice archetipica di ogni modo di pensare e di agire “antinazionale”. L’antisemitismo entra poi definitivamente in campo nel momento in cui il regime lo percepisce come l’elemento più idoneo a creare tra le masse, attraverso la psicosi del nemico, uno stato di mobilitazione permanente, indispensabile alla realizzazione del progetto totalitario: molto opportunamente, a tale proposito, Vercelli ricorda che le politiche razziste non solo si rivolgono contro la minoranza perseguitata, ma si propongono anche di disciplinare e mobilitare la maggioranza, in un contesto artificiosamente emergenziale, a sostegno di misure presentate come radicali ma improcrastinabili: ogni “buonismo” per usare un termine oggi molto in voga, è pertanto un vero e proprio tradimento verso il Paese.
Viste sotto questo profilo, le leggi razziali costituiscono il punto di arrivo di un cammino iniziato precocemente, a partire dagli anni 20, con la sistematica persecuzione della popolazione slovena residente nei territori annessi all’Italia, attuata dal fascismo, con l’attiva partecipazione di Mussolini in prima persona, prima e dopo la salita al potere, all’insegna dello scatenamento della violenza squadrista sostenuta da discorsi apertamente razzisti, inneggianti alla superiorità della stirpe italiana e di condanna dell’inferiorità slava.
Peraltro, la persecuzione antislava è solo la premessa della costruzione razzista dell’Italia imperiale, progettata all’indomani dell’aggressione all’Etiopia. Il volume di Vercelli illustra con chiarezza esemplare le modalità dell’escalation del discorso razzista: la ricerca di una base pseudo scientifica che ne fornisse i presupposti biologici e desse fondamento al discorso sulla superiorità dei popoli “ariani”; il vero e proprio sistema di apartheid instaurato nelle colonie per regolare le relazioni tra conquistatori e conquistati; le misure contro il “madamato” e il meticciato, considerati una minaccia permanente di inquinamento razziale, presupposto per il divieto dei matrimoni “misti”, che avrebbe costituito una dei punti qualificanti delle legge del 1938; tutto al fine di forgiare quella coscienza imperiale da cui Mussolini era ossessionato, in quanto vi vedeva la strada maestra per penetrare a fondo nella coscienza dei cittadini e plasmarla secondo le finalità del sistema totalitario. In questo senso, il dittatore italiano guardava con ammirazione (e anche invidia) alla capacità del suo omologo tedesco di utilizzare il razzismo come elemento catalizzatore di un consenso di massa, anche se, fino alla sua caduta, il fascismo perseguì un proprio autonomo percorso nella costruzione di una politica razzista e solo dopo l’8 settembre, con la creazione della Repubblica sociale, si allineò in modo subalterno al nazismo nella forma di un’attiva partecipazione italiana alla persecuzione e allo sterminio.
L’antisemitismo si colloca al culmine di questo percorso e ne diviene in qualche modo il completamento, assecondato dalla passività della società civile, insieme disorientata e scettica, costretta ad assistere, impotente ma in alcuni casi complice, alle discriminazioni, alle persecuzioni e alle spoliazioni che colpivano gli ebrei e li privavano delle prerogative di cittadinanza di cui avevano goduto prima del 1938. Non è un caso che il primo obiettivo del razzismo fascista sia stata una istituzione fondamentale della società civile come la scuola, con l’espulsione degli studenti e dei docenti ebrei dalle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado e dalle università, diligentemente preparate da un razzista assiduo e zelante come il ministro della pubblica istruzione Bottai. Le testimonianze dell’epoca narrano come all’umiliazione subita dai perseguitati facesse riscontro lo sconcerto e la preoccupazione della maggior parte degli studenti e dei docenti scopertisi “ariani” loro malgrado. Ma al tempo stesso, una pagina assai poco edificante è costituita dalla corsa di molti e famelici pretendenti, anch’essi “ariani”, per occupare le cattedre universitarie dalle quali erano stati cacciati i legittimi titolari ebrei, i quali, a loro volta, ebbero non poche difficoltà, nel dopoguerra, nell’ottenere il ripristino dei loro diritti violati.
Sono importanti, a tale proposto, le pagine del volume di Vercelli dedicate all’applicazione sul piano amministrativo e burocratico della legislazione razzista; un’attuazione nella quale le amministrazioni create ad hoc – la Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza) presso il Ministero dell’interno e l’Ufficio studi del problema della razza, presso il Ministero della cultura popolare – si distinsero, ma non rimasero da sole, poiché la produzione di un corpus consistente di regolamenti e atti (a partire al censimento del 1938, che costituì poi un utile strumento nelle mani dei nazisti per identificare e catturare gli ebrei italiani) coinvolse molti rami dell’amministrazione e fu garantita in molti casi da un atteggiamento di supina obbedienza nei confronti di norme la cui formale legittimità era evidentemente sufficiente a sopire scrupoli di carattere morale e a celare dietro la routine degli adempimenti burocratici l’orrore che si andava preparando e che si sarebbe manifestato appieno dopo l’8 settembre, con l’attiva partecipazione dell’amministrazione repubblichina alla persecuzione e allo sterminio.
Le leggi razziali non incontrarono l’opposizione delle due istituzioni che avrebbero potuto in qualche forma porre dei limiti alla deriva razzista del regime: la Chiesa e la monarchia. L’autore, che peraltro non manca di segnalare la diffusa solidarietà manifestata dal clero nei confronti dei perseguitati, svolge una disamina particolarmente equilibrata dei conflitti all’interno delle gerarchie vaticane, divise sulla posizione da assumere nei confronti della legislazione del 1938. Diverse considerazioni militavano a favore di una posizione di acquiescenza: a ragioni di carattere dottrinale, che si riallacciavano al tradizionale antisemitismo di matrice teologica, si affiancavano più concrete preoccupazioni di non compromettere gli spazi di libertà assicurati dal Concordato alle organizzazioni cattoliche, e che Mussolini aveva minacciato di azzerare nel caso in cui la Chiesa non si fosse allineata alle scelte del regime: una minaccia ancora più concreta alla luce di quanto era avvenuto in Germania, dove il Concordato stipulato nel 1933 non aveva assicurato alla Chiesa cattolica la sperata libertà di movimento. Né infine la palese ostilità di Pio XI nei confronti delle politiche antisemite valse a fare assumere una posizione esplicita in materia. Alla morte del Pontefice, la progettata enciclica contro il nazismo fu accantonata dal suo successore, più preoccupato di consolidare l’indirizzo anticomunista della Chiesa, e ancora, nell’immediato dopoguerra, come ricorda l’autore, il gesuita Tacchi Venturi, chiamato insieme al cardinale Maglione a definire la posizione del Vaticano sulla rimozione delle leggi del 1938, affermò che la soppressione delle disposizioni discriminatorie avrebbe dovuto riguardare i convertiti poiché le legislazione del 1938 “secondo i principii e le tradizioni della Chiesa cattolica ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”.
Meno difficile da definire risulta invece la posizione della corona: Vittorio Emanuele III accettò le leggi razziali senza esprimere un’opposizione all’epoca percepibile e successivamente documentata, e sanzionandole abbandonò al loro destino gli ebrei italiani che, memori della loro emancipazione intervenuta sotto la monarchia sabauda, avevano pur dato nel corso degli anni numerosi e ripetuti segni della loro devozione alla monarchia.
In conclusione, Francamente razzisti di Claudio Vercelli si colloca a pieno titolo nell’ambito di un filone di storiografia civile che attraverso l’obiettività e il rigore della narrazione propone meritevolmente una riflessione su come le omissioni e le distorsioni della memoria abbiano potuto proiettare un vero e proprio cono d’ombra sul recente passato e assecondare tentazioni autoassolutorie, suscettibili, alla lunga, di produrre danni non facilmente riparabili sulla memoria collettiva e destinati ad aggravarsi con il trascorrere delle generazioni. È auspicabile, peraltro, che questo lavoro di critica e ricostruzione della memoria vada oltre il perimetro delle ricorrenze e moltiplichi l’impegno a fornire i supporti conoscitivi indispensabili, in Italia come altrove, a consolidare quella consapevolezza del proprio passato, senza la quale è molto difficile formare una cittadinanza democratica in grado di fare fronte alle sfide del presente.
Pubblicato giovedì 24 Gennaio 2019
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