Si respira aria di verità leggendo il libro “L’avrai camerata Almirante”, sottotitolo “la via che pretendi da noi italiani”. La verità della storia e dei fatti della storia, la verità delle idee e del senso di appartenenza, la verità di una missione che dura ancora oggi, offerta all’altare della chiarezza e contro la mistificazione, contro ogni forma di revisionismo o di rimozione della storia.

Una battaglia insomma, che vede protagonisti l’autore del volume, Carlo Ricchini, già caporedattore centrale de l’Unità e la 4 Punte Edizioni, una bella novità nel panorama editoriale italiano. Sono troppe le contraddizioni nel lungo percorso di conquista della libertà dopo il ventennio fascista e l’entrata in vigore della legge fondamentale dello Stato, la Costituzione, rispetto alla sua completa attuazione antifascista, fino ad oggi. Ci sono state le leggi Scelba (1952) e Mancino (1993) ma anche la loro mancata piena applicazione e l’assenza di una legislazione più particolareggiata. E ricordiamo il tentativo di equiparazione ai partigiani dei repubblichini di Salò con la proposta di legge 1360 (2009), a dimostrazione di un certo arretramento del fronte costituzionale anche per i cedimenti di una parte delle forze democratiche; il tentativo di modifica dell’art. 138 della Costituzione (2013) e ancora i quattro referendum costituzionali (2001 – 2006 – 2016 – 2020), che di per sé hanno rappresentato un segnale di indebolimento del valore intrinseco del messaggio dei costituenti. La Costituzione italiana è antifascista, non a-fascista. A chi si domanda dunque: perché dibattere proprio ora di questi temi, del “caso Almirante”, la risposta è proprio nell’assenza del pieno senso di appartenenza ai valori costituzionali, quindi al superamento dell’idea di contrapposizione tra punti di vista diversi, non assumendo il fatto che l’uno è legittimato dal sistema di conquiste democratiche, rappresentate al meglio dalla Costituzione, mentre l’altro è fuori da quel sistema. Ecco, questo punto di vista emerge chiaramente dal libro, che ci consegna un dovere su tutti: quello di perseverare perché il passato è oggi! L’idea alla base di discriminazioni, diseguaglianze, razzismo, xenofobia, misoginia non è sopita, se c’è chi ancora oggi rievoca quel passato, chi addirittura rilancia, anche nelle simbologie, attraverso l’intestazione di vie e di piazze ad Almirante e agli altri collusi col fascismo. Rischiano di avere ragione quanti affermano che si è vinta una battaglia, non la guerra, e che la storia non ha fatto completamente il suo corso.

Veniamo ai fatti raccontati nel libro. Nella primavera 1944 appariva sui muri dei paesi dell’alta Toscana (in particolare nelle zone del Grossetano) un bando, firmato dal futuro segretario Msi, Giorgio Almirante, allora capo di gabinetto del ministro della Cultura popolare dell’Rsi, Ferdinando Mezzasoma. Il “manifesto della morte” annunciava la fucilazione per «sbandati ed appartenenti a bande» che non si fossero consegnati ai «posti militati e di Polizia Italiani e Tedeschi». Cioè la pena di morte per i giovani e i militari andati sui monti dopo l’8 settembre. Chi non si fosse consegnato a fascisti e tedeschi, se catturato, sarebbe stato fucilato alla schiena. Quelle zone saranno terre di stragi e di rappresaglie nazifasciste contro i civili, come del resto in tutta la penisola.

Il manifesto venne ritrovato nell’estate del 1971 e pubblicato il 27 giugno da l’Unità e dal Manifesto. Giorgio Almirante denunciò per diffamazione i due quotidiani. Non poteva dare l’idea di accettare tacitamente una verità scomoda, meglio ricorrere a mezzucci che potevano almeno portare al traguardo della confusione. A risponderne Carlo Ricchini per l’Unità e Luciana Castellina per il Manifesto.

Carlo Ricchini

Dopo sette anni di processo e due interventi della Corte di Cassazione venne pronunciata la sentenza definitiva di assoluzione dal reato di diffamazione a mezzo stampa per i due giornalisti.

Almirante era stato “fucilatore di partigiani”, come lo avevano definito l’Anpi e partiti della sinistra quando il manifesto era stato reso pubblico. Il pronunciamento dei giudici rappresentò dunque il trionfo della verità storica oltre che processuale.

Questa vicenda ci permette di orientare il nostro sguardo verso l’attualità, non perdendo di vista le vicende del passato, tanto da indurci a suonare il campanello d’allarme contro i rigurgiti di oggi che non si sostanziano solo con la platealità di certi gesti e persino con azioni istituzionali, ma anche con vere e proprie azioni dall’alta valenza pratica, proprie della migliore tradizione fascista, decisamente rappresentate dalla figura di Almirante.

Luciana Castellina (Imagoeconomica)

Base del volume è il carteggio del processo e rappresenta un patrimonio di conoscenza e stimolazioni alla continuità del nostro agire contro ogni rievocazione di quel passato, mai diventato troppo lontano. Uno scorcio su ciò che è stato visto con la misura dell’esperienza. Ancora oggi ci chiediamo come può questo nostro Paese ritrovarsi a vedere riabilitate certe figure, paradossalmente a non averle mai compiutamente condannate, a calpestare la memoria democratica di tutto un popolo. Sono troppe le verità secretate, si pensi ad esempio all’armadio della vergogna: forse fa comodo tenere aperte in modo ambiguo alcune pagine del passato? Questo libro ci aiuta anche a fare chiarezza su questo interrogativo, inducendoci a rispondere in chiave propositiva, in nome del diritto delle nuove generazioni di avere esempi costruttivi per credere in un domani migliore e più consapevole. Il fascismo e personaggi come Almirante sono all’opposto di questa visione e non è mai abbastanza ricordarlo a noi stessi e agli altri. Scorrendo nella lettura è facile anche porsi domande sul ruolo dell’informazione e del suo rapporto con la giustizia, riscontrando che il binomio funziona quando si fonda su presupposti di reciproca affidabilità. Una lezione per i giorni nostri.

Il libro ha una postfazione dell’avv. Emilio Ricci, vicepresidente nazionale Anpi e presidente della Fondazione Cvl. Ricci, oltre i fatti raccontati nel libro, ci ricorda che Almirante nel 1938 era stato tra i firmatari dell’aberrante manifesto della razza. Durante la guerra aveva partecipato, ed era stato decorato, alla campagna d’Africa. Dopo la guerra, nell’autunno ’46, Almirante aveva partecipato alla fondazione dei Fasci di azione rivoluzionaria e, nel dicembre dello stesso anno, a quella del Movimento sociale italiano, partito di chiara ispirazione fascista. L’anno successivo, fu accusato del reato di apologia del fascismo e per questo condannato – il 4 novembre 1947 – a dodici mesi di confino (non nei fatti, perché nel marzo dell’anno successivo girava per l’Italia facendo comizi in vista delle celebri elezioni politiche del 18 aprile 1948). Nel 1973 era stata chiesta l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti – che lo sollevasse dall’immunità parlamentare – per ricostruzione del disciolto partito fascista. L’autorizzazione fu concessa, ma il fascicolo si “arenò” fino al 1988, anno della sua scomparsa.

Troppo spesso e troppo a lungo si è parlato del bisogno di una memoria condivisa, che è sì possibile, ma da un certo punto in poi, dal punto del totale rinnegamento del passato buio e dalla piena affermazione dei principi costituzionali: solo in questo modo, la memoria diventa di tutti. Così la Resistenza e il sacrificio degli uomini e delle donne morti per la libertà non è reso vano. La condanna di Almirante nel processo per diffamazione poteva essere un viatico, il libro ci aiuta a capire che così non è stato e apre, invece, il fronte del bisogno della continuità del messaggio perché ciò che è stato non sia mai più.

Vincenzo Calò, coordinatore Anpi Area sud, componente segreteria nazionale Anpi

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