La poetessa e promotrice culturale Gertrude Stein nel famoso ritratto di Pablo Picasso, dettaglio

Nel 1913 Gertrude Stein scrisse la lirica Sacre Emily contenente quel celebre verso: “una rosa è una rosa è una rosa è una rosa”; un rigo che a Umberto Eco piaceva e di cui aveva parlato in diverse opere – serissime – di analisi semiologica; nella Struttura assente, ad esempio, dove suggeriva al lettore di guardare con ironico sospetto a quell’infilata di fiori uno dietro l’altro, come a dire – per seguitare il gioco – che “una rosa è una rosa”, certo, ma “una rosa è una rosa è una rosa è una rosa”, non è più soltanto una rosa. È molto di più. La moltiplicazione ipnotica del medesimo segno lo fa diventare qualcos’altro: una vibrazione di significati che nello scuotere la tautologia ne lascia affiorare – come in un gioco di prestidigitazione – i sensi reconditi.

Leggendo ora il primo volume del palinsesto che il grande Milo Manara ha costruito sopra – o forse sotto, o accanto, o dentro – Il nome della rosa (Oblomov editore, 72 pagine di grande formato a colori, € 20), ci chiediamo se non valga la pena ripetere il gioco (il gioco è il gioco è il gioco è il gioco… quanti ne ha disegnati il maestro Manara?) anche col celebre titolo che ha venduto oltre 60 milioni di copie in tutto il mondo: “Il nome della rosa è il nome della rosa è il nome della rosa…”, vera e propria diafora che scardina il principio di identità per raccontarci di un’opera (aperta?) che si stratifica ogni volta che passa per le mani di un nuovo artista.

Le tavole di Manara sono infatti una sovrascrittura che non solo riproduce a fumetti il plot del romanzo echiano, ma, nell’utilizzare il medium visivo – inevitabilmente – fa i conti con la pellicola di Jean-Jacques Annaud e con una serie di altri prodotti della cultura visuale che ha preceduto o seguito l’opera dell’alessandrino. Non stupisce allora leggere in esergo al volume una sorniona citazione – “Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese” – che, come avviene per i migliori aforismi, non si ha la certezza che Eco abbia davvero pronunciato, ma che in ogni caso illustra perfettamente la natura di questo lavoro: un controllatissimo divertimento culturale di rimandi e citazioni.

Il nome della rosa nel 1986 è diventato un film. Tra gli interpreti Sean Connery

Ecco dunque che senza soluzione di continuità i disegni fondono in una serie ininterrotta di vignette ciò che Eco scrive nella sagace introduzione al romanzo – le celebri pagine di “Naturalmente un manoscritto” – con la narrazione degli eventi a cui Adso da Melk ebbe l’onore e l’onere di assistere in gioventù. È un gioco dove realtà e finzione si confondono, così come il passato e il presente, amplificando in tal modo una prerogativa che era già nell’opera originaria.

Umberto Eco in veste di personaggio dei fumetti

Umberto Eco diventa un personaggio della matita di Manara come lo è Guglielmo da Baskerville, e la misteriosa abbazia in cui si svolgono gli eventi ha lo stesso statuto di realtà posseduto dallo splendido monastero di Melk, in Austria, o dai carri armati che calpestano le vie di Praga nell’agosto del 1968. Le prime tavole riproducono perciò alcuni ritratti dello scrittore accanto a un calco di uno degli iconici scatti di Josef Koudelka relativi all’invasione sovietica dello Cecoslovacchia, affiancato ancora dal rifacimento di una miniatura medievale; il vecchio Adso da Melk è esemplato infatti sul modello del copista Jean Mielot, immortalato – per così dire – da Jean Le Tavernier, mentre lavora nel suo scriptorium ai Miracles de Notre Dame (metà del Quattrocento). Insomma, l’invenzione artistica si fa realtà mentre la realtà diventa illusione.

Manara disegna battaglie, cavalli e lance che sembrano quelle di Paolo Uccello, e poi, nell’immergere il lettore tra le pagine dei codici presenti nella biblioteca dell’abbazia, strizza l’occhio all’arazzo di Bayeux, ai più celebri cicli di affreschi dell’età di mezzo e a un’infinità di miniature mutuate da disparati manoscritti medievali; ci sono rocce dai pochi alberi che sembrano quelle del miracolo della sorgente nella Basilica superiore di Assisi, ci sono contadini e contadinelle che fanno la fienagione, immortalati nella stessa delicata e flessuosa sensualità che i Limbourg donarono ai loro braccianti nelle splendide tavole delle Très riches heures du Duc de Berry; c’è un timpano gotico che sembra la summa di quanto la fede di pietra fosse riuscita a imprimere nella mente di chi varcava un tempo la soglia delle grandi cattedrali; ci sono sciapodi, blemmi, uomini seduti sulle uova e conigli voltati in predatori (questi ultimi tratti da un manoscritto del Livre de Lancelot du Lac, di fine 1200).

E poi ancora altri mostri, animali fantastici e creature bizzarre, quelli che brulicavano nell’immaginario dei bestiari, accanto a sante (bellissima la “mulier amicta sole”, la donna rivestita di luce solare che Manara evoca rielaborando un’immagine tratta da una copia dell’XI secolo dei Commentari dell’apocalisse del Beato di Liébana), musicisti e donne intente a bizzarre occupazioni (non poteva mancare la fanciulla che coglie peni dal celebre “albero dei falli” miniato in pedice a una pagina di un Roman de la rose, databile intorno al 1370 circa, e conservato presso la Biblioteca nazionale di Francia).

Milo Manara

Insomma l’opera di Manara è un inno all’intertestualità e a quella semiosi illimitata con Eco impastò il suo capolavoro. E non mancano gli ammiccamenti al cinema e ai volti più iconici del grande schermo. Mentre alcuni personaggi rievocano più o meno direttamente le fattezze e la gestualità degli interpreti della pellicola di Annaud – vedi ad esempio il Ron Perlman che impersonò il mostruoso Salvatore o il William Hickey che fece l’allucinato Ubertino da Casale – altri sono stati appositamente studiati dal fumettista per competere in fascino e carisma con i predecessori in carne e ossa; su stessa ammissione dell’autore, quella riguardante il volto da dare al protagonista Gugliemo da Baskerville è stata una scelta ardua, ricaduta infine su chi potesse gareggiare in avvenenza e fascino con l’indimenticabile Sean Connery. Durante un’intervista con Sandro Veronesi, Manara ha spiegato infatti che quando si disegna un fumetto si fa una specie di casting, magari mentale, ma per ogni personaggio si cerca di individuare la faccia più giusta. Per aiutarmi un po’ io magari visualizzo anche degli attori. Per Il nome della rosa, essendo stato interpretato da Sean Connery, cioè un attore di grande carisma, di grande presenza e di grande bellezza, io ho dovuto cercare nel pantheon hollywoodiano un attore che avesse altrettanto carisma, e non ho trovato niente di meglio di Marlon Brando.

Un Marlon Brando maturo ma ancora vigoroso, bello e magnetico che, a tratti, reca qualcosa pure di Paul Newman o di Christopher Lambert, e che agli occhi del lettore pare davvero intento a recitare su questo schermo di carta il suo ultimo ruolo. E poi, in un gioco di autocitazione, ci sembra di aver ravvisato nel volto del cadavere di Venanzio da Salvemec la testa di Golia che gronda sangue tra le mani di Davide, così come l’ha immaginata il genio di Caravaggio e come Manara l’ha, anni fa, ripresa nel suo fumetto dedicato a Michelangelo Merisi.

Copisti al lavoro

È insomma un libro piacevolissimo e serio, che gioca con le tinte per manovrare il prima e il dopo del plot, suscitando nel fruitore dell’opera un misto di angoscia e curiosità, e per la grandiosa costruzione del mondo narrativo (certi ambienti, come l’edificio che contiene la biblioteca, lo scriptorium e le cucine mostrano una tale monumentalità degli spazi da risultare inquietantemente epici) e per gli accadimenti a cui Adso e Guglielmo assistono (o vivono in prima persona).

Insomma, Manara riesce a essere intimamente fedele al testo echiano e allo stesso tempo a innovarlo dall’interno, non solo grazie all’apparato iconografico cui fa riferimento nelle tavole, ma soprattutto per l’impronta inconfondibile che il personaggio femminile offre a questa storia fatta (quasi tutta) di uomini. Laddove nell’originale la presenza muliebre era esclusivamente radunata attorno alla figura dell’anonima popolana di cui Adso da Melk si innamora, qui si dilata e conquista anche le pieghe più marginali della storia: l’utopica sensualità della ragazza – il cui incontro erotico col novizio chiude questo primo volume – è come dire anticipata negli occhi del lettore (ma pure in quelli del giovane) dalle numerose e ammalianti fanciulle che qua e là fanno capolino tra le miniature dei libri che Adso sfoglia o delle donne evocate dai racconti di Guglielmo da Baskerville o di Ubertino da Casale.

L’attrice Greta Scarano che ha recitato nella miniserie televisiva “Il nome della rosa”

Una presenza femminile che è sempre ideale, chimerica, conturbante ma allo stesso tempo rasserenante; una donna che funziona in Manara, come in Eco (e nel suo alter ego Guglielmo) agisce la brama di sapere: entrambe paradigma di un’umanissima immersione nel divino e nei territori di ciò che di più sacro ci sia per gli esseri umani e per la loro limitata comprensione del mondo.

Giacomo Verri, scrittore e insegnante