Sono trascorsi quarantasei anni dalla morte di Giovanni Pirelli, il 3 aprile 1973: una scomparsa prematura, a soli cinquantatré anni, per le conseguenze di un incidente d’auto, che privò la sinistra e l’intero movimento democratico del nostro Paese di un protagonista e di un precursore, di una figura che aveva animato alcune tra le più interessanti esperienze culturali e politiche del dopoguerra. Un protagonista, va detto subito, sui generis: schivo per carattere e per educazione, Giovanni Pirelli restò fedele per tutta la vita a una linea di condotta nella quale la capacità di costruire iniziative e reti di relazioni si coniugò con una spiccata propensione a mantenersi sempre in posizione laterale e a rifuggire ogni protagonismo, forse anche a causa di un nome tanto importante quanto difficile da portare; ed è forse proprio questa la ragione per cui la ricostruzione di una vicenda umana e politica così interessante è rimasta a lungo appannaggio di un ristretto gruppo di studiosi, parte dei quali (basti citare Cesare Bermani e Goffredo Fofi) condivise con lui alcuni delle iniziative intraprese nel corso di una intensa attività di organizzatore di cultura.
A riproporre la riflessione su una figura così complessa giunge ora la densa e coinvolgente biografia che gli ha dedicato Mariamargherita Scotti (Vita di Giovanni Pirelli, Roma, Donzelli, 2018): un lavoro importante, coronamento di un itinerario di ricerca condotto in gran parte sui documenti inediti di un archivio personale molto ricco e che restituisce la dimensione plurale di una storia di vita emblematica di un modo peculiare di concepire e praticare il nesso tra politica e cultura.
Nato nel 1918, primogenito di Alberto Pirelli, Giovanni è l’erede desinato alla direzione dell’azienda di una delle più influenti famiglie imprenditoriali d’Italia, e, come tale, viene educato nel segno di un’etica della responsabilità connessa alla sua posizione sociale, non priva del tratto di austerità tipico di alcuni ambienti del cattolicesimo lombardo: è proprio questo sentimento di responsabilità che lo conduce, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno 1940, ad essere tra i primi ad arruolarsi, spinto dal desiderio di condividere con tutti i suoi coetanei un’esperienza alla quale inizialmente aderisce con entusiasmo e dalla quale si distaccherà progressivamente e dolorosamente. La catastrofe nel quale il fascismo getta il Paese coincide infatti con un difficile percorso di disincanto e di malessere individuale, documentato dalle pagine del diario e da un intenso epistolario familiare. Questi documenti, peraltro, costituiscono una testimonianza molto personale ma al tempo stesso emblematica di un travaglio morale condiviso da un’intera generazione, e uno dei meriti più notevoli del lavoro di Mariamargherita Scotti consiste proprio nella capacità di restituire la complessità di un percorso interiore e, dentro di essa, la peculiare vicenda del rapporto di Giovanni con il padre Alberto, e del dialogo difficile, ma mai interrotto, tra due figure sempre più distanti che nella trama delle differenze, dei dissensi e in alcuni casi dei reciproci rimproveri, si impegnano per non fare mai venire meno un sottofondo affettivo continuamente operante, anche quando, nel dopoguerra, la divaricazione delle rispettiva strade diviene ineluttabile.
La crisi definitiva, per Giovanni, giunge con la tragica esperienza della Russia: qui, dove è possibile toccare con mano l’insensatezza della guerra fascista, l’inettitudine dei comandi e il disprezzo per la vita umana, l’ex “entusiasta” (è il titolo di uno dei racconti autobiografici pubblicati nel dopoguerra) matura il distacco dal passato, in una condizione peraltro aggravata da una posizione privilegiata, che vivrà con un profondo senso di colpa: quella di ufficiale di collegamento tra l’8° Armata italiana e le forze tedesche, che percorre in automobile, come portaordini, le stesse strade sulle quali gli alpini in rotta e appiedati muoiono di freddo e di stenti. Il giovane rampollo della grande famiglia borghese documenta il trauma nell’epistolario e nei diari, ed è inevitabile, a questo proposito, il confronto con le pagine pubbliche e private di altri giovani che alle medesime esperienze diedero uno sbocco analogo, da Nuto Revelli a Mario Rigoni Stern.
L’8 settembre 1943 sorprende Giovanni a Udine, presso il XXIV Comando alpino “Friuli”: evaso dopo un breve periodo di internamento, si rifugia, clandestino, a Vens, un paese della Valle d’Aosta, e nel 1944 viene assunto da una consociata della Pirelli per sfuggire alla coscrizione repubblichina. Solo all’inizio del 1945, vincendo la resistenza paterna, Giovanni prende parte attiva alla guerra di Liberazione: a febbraio si unisce alla 90° brigata Garibaldi “Elio Zampiero”, che opera in Valchiavenna, assumendo ben presto l’incarico di commissario, con il nome di battaglia “Pioppo”.
Gli anni del dopoguerra sono anni di scelte difficili: durante la guerra Giovanni ha maturato scelte che gli appaiono sempre meno compatibili con il suo destino di capitano d’industria, e all’inizio del 1946, mentre è ancora impegnato in azienda, si iscrive al Partito socialista, nell’imminenza della reintegrazione del padre Alberto e dello zio Piero ai vertici della Pirelli, e della contestuale conclusione del breve periodo di commissariamento (il commissario era il liberale Cesare Merzagora, allora dirigente della società); il distacco definitivo avviene due anni più tardi, nel 1948, dopo le elezioni del 18 aprile e dopo le astiose polemiche giornalistiche contro il “transfuga” della propria classe, nelle quali si distingue un acrimonioso e fascisteggiante Indro Montanelli. Anche in questo caso, il lavoro di Mariamargherita Scotti lumeggia con precisione e ricchezza di documentazione l’ambivalenza di una decisione, adottata peraltro in un continuo sforzo di non rompere i legami familiari (e in dialogo con il padre in bilico tra la polemica e il desiderio reciproco di trovare un punto di mediazione), che se da un lato si presenta come una vera e propria abdicazione (che gli costerà, oltre all’accusa di tradimento della propria classe, anche la speculare diffidenza con cui verrà inizialmente accolto tra alcuni dei compagni di partito), dall’altro è anche una liberazione da un modo di vivere che Giovanni avvertiva sempre più estraneo.
La nuova vita, peraltro, non è priva di tensioni e di inclinazioni diverse e non sempre destinate a comporsi in modo armonico: da una parte c’è l’intenzione di dedicarsi alla ricerca storica, incoraggiata, tra l’altro, anche da un incontro ad Harvard con Gaetano Salvemini, che porterà Giovanni – rassegnate definitivamente le dimissioni dalla Pirelli – a seguire i corsi del prestigioso Istituto italiano di studi storici di Napoli; dall’altra la forte vocazione letteraria, incentivata, a un certo punto, anche per una certa insofferenza per l’ambiente stagnante dell’Istituto dominato dalla ingombrante figura di Benedetto Croce, e incoraggiata, tra gli altri, dall’amico Mario Apollonio, storico del teatro e già precettore delle sorelle, e da Elio Vittorini, che, superando le riserve di altri influenti redattori della casa editrice Einaudi, come Calvino e Natalia Ginzburg, ospiterà nel 1952, nell’ambito dell’innovativa collana “I gettoni”, L’altro elemento, una delle prove più interessanti di Pirelli narratore. Nonostante un’accoglienza piuttosto fredda da parte della critica, Giovanni continuò per molti anni ad attribuire un grande rilievo al suo impegno letterario, tanto è vero che nel 1960, ormai quarantaduenne, in un profilo autobiografico per la raccolta Ritratti su misura di scrittori italiani, lamentava, di essere “pervicacemente citato tra i giovani scrittori” anche se, aggiungeva con amara autoironia, “di due persone con cui faccio conoscenza una mi chiede se sono il Pirelli delle gomme e una se sono il Pirelli delle Lettere.”
Le “Lettere” erano, com’è facile intuire, Le lettere dei condannati e morte della Resistenza italiana, un’opera pubblicata nel 1952 da Einaudi e destinata a costituire una pietra miliare nella storia del movimento di liberazione, della quale cui Pirelli fu curatore insieme a Pietro Malvezzi. Interessa qui sottolineare la cura e l’acribia con cui l’autrice ricostruisce le vicende editoriali delle Lettere: dall’iniziale impulso di Malvezzi, che ne fu in un certo senso l’ideatore, al lavoro di costruzione della raccolta, in termini più ampi e articolati rispetto al progetto originario, quale lo concepì soprattutto Pirelli, che vi profuse un intenso impegno, dettando criteri omogenei per l’individuazione dei testi e per la loro riproduzione, con un’aderenza al profilo più strettamente filologico che risente anche del coevo rapporto di amicizia e di lavoro comune con Gianni Bosio, già stretto collaboratore di Lelio Basso, che di quel medesimo approccio documentale e filologico alla ricerca storica e della propensione ad attribuire priorità alle fonti primarie nella ricerca sulle radici dell’antagonismo di classe aveva fatto il filo conduttore della sua esperienza di direzione della rivista della Biblioteca Feltrinelli “Movimento operaio”.
Il rigore dei criteri adottati per la scelta e la pubblicazione delle lettere rappresentava, per l’epoca un elemento di novità, inteso a mettere in luce il carattere corale, plurale e popolare del movimento di Liberazione: un taglio, ripreso anche nella successiva pubblicazione delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (1954) che, come osserva giustamente Scotti, non sembra prestare il fianco all’imputazione, pure mossa alcuni anni più tardi a entrambe le raccolte, di avere svolto un ruolo non secondario nel processo di monumentalizzazione ma anche di imbalsamazione della Resistenza. Se le “Lettere” sono state interpretate anche in questo senso, forse anche a causa del loro grande successo editoriale, si può però sostenere che non era tale l’intenzione dei curatori, come peraltro dimostrano le prese di posizione di Pirelli, anche in polemica con i vertici dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione, in favore di un rinnovamento degli studi che superasse una narrazione prevalentemente difensiva e celebrativa della lotta partigiana.
Che la Resistenza non costituisse per Pirelli una esperienza in sé conclusa e da consegnare alla ricerca storica, è ampiamente dimostrato anche da un’altra tappa cruciale del suo percorso intellettuale e politico: l’impegno a favore del Fronte di liberazione nazionale algerino nella lotta contro la dominazione coloniale francese; un impegno, vissuto, per l’appunto, nella convinzione che gli ideali della lotta antifascista, di indipendenza nazionale, emancipazione umana e giustizia sociale si riproponessero in primo luogo nei nuovi contesti della lotta di liberazione dei popoli delle colonie. Anche in questo caso, l’intuizione di Pirelli precorre notevolmente i tempi, poiché attorno al sostegno alla resistenza algerina e, qualche anno più tardi, all’opposizione alla guerra in Vietnam, avrebbe preso corpo, in Italia come in altri Paesi occidentali, una variegata corrente politica, il cosiddetto “terzomondismo” che, ancorché attraversata da slanci ideali non sempre adeguatamente supportati sul piano teorico, ebbe tuttavia un ruolo importante nel richiamare l’attenzione sul carattere esemplare di alcuni dei conflitti in corso nelle periferie del mondo e nel prefigurare una critica all’eurocentrismo politico e culturale destinata a influenzare profondamente i movimenti della fine degli anni 60. Nella formazione di questo orientamento, che peraltro ancora attende di essere studiato a fondo, Giovanni Pirelli, come mostra il libro di Scotti, svolse senz’altro un ruolo di primo piano, non solo per il suo impegno diretto a sostegno della resistenza algerina, ma anche per il lavoro di riflessione e di ricerca delle voci più originali di quel movimento. Da qui deriva anche l’incontro, l’amicizia e la collaborazione con Frantz Fanon, lo psichiatra antillese che aveva aderito senza riserve alla lotta del popolo algerino e si era fatto teorico dei movimenti di liberazione dal colonialismo.
Sempre a questo periodo appartengono due opere pubblicate da Einaudi su proposta e per la cura di Giovanni Pirelli: i Racconti di bambini d’Algeria. Testimonianze e disegni di bambini profughi in Tunisia, Libia e Marocco (Einaudi, 1963) e le Lettere della rivoluzione algerina, curato in collaborazione con il giornalista francese Patrick Kessel (Einaudi, 1963). Accomunate dall’intenzione di far conoscere al pubblico italiano (e francese, poiché entrambi i volumi furono pubblicati dall’editore francese Maspero) il punto di vista degli algerini sulla loro rivoluzione, entrambe le raccolte nascono dai numerosi viaggi compiuto da Pirelli, in particolare in Tunisia, dove risiedeva il governo provvisorio del Fnl, e ripropongono, sia pure con i necessari adattamenti, il rigoroso metodo critico già adottato per le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. Si evidenza, per questo aspetto, come nota Mariamargherita Scotti, la continuità di una impostazione tendente a privilegiare il documento, la parola scritta, la testimonianza, addirittura, in questo caso, il disegno (è appena il caso di ricordare qui che Pirelli fu anche autore di libri per bambini) e, d’altra parte, a collocare in una posizione defilata il curatore, il cui impegno prioritario resta quello di dare la parola ai veri protagonisti della vicenda narrata.
Pirelli porterà questo modo di interpretare il proprio ruolo di intellettuale e organizzatore di cultura anche nel suo impegno di militante del Psi e, dopo la formazione dei governi di centro-sinistra, al di fuori di esso. Si tratta, in primo luogo, del lavoro svolto a fianco di Gianni Bosio (e non sempre in totale sintonia con questi) nell’ambito delle Edizioni Avanti! di cui lo stesso Bosio aveva assunto la direzione dopo la conclusione del difficile rapporto con Feltrinelli, con l’obiettivo di riprendere l’esperienza della direzione di “Movimento operaio” e andare oltre la dimensione della casa editrice di partito, per formulare un’offerta culturale quanto più possibile popolare, ma anche articolata ed eccentrica rispetto ai canoni della cultura ufficiale della sinistra negli anni della guerra fredda.
Pirelli condivise questa impostazione e non lesinò il suo sostegno, anche finanziario, sia alle Edizioni Avanti! sia nel delicato momento di trasformazione delle Edizioni Avanti! nelle Edizioni del Gallo, quando, con l’ingresso del Psi al governo, maturò la frattura tra il partito e il collettivo redazionale, sia, infine, nella successiva formazione dell’Istituto Ernesto De Martino e nella nascita del Nuovo Canzoniere Italiano. Sono anche gli anni in cui si consolida l’amicizia con Raniero Panzieri, alimentata da una forte sintonia politica e consolidata nella comune esperienza di lavoro, prima all’interno dell’Istituto Rodolfo Morandi (dove Giovanni fu impegnato sia nella pubblicazione delle opere del dirigente socialista, scomparso nel 1955, sia nella progettazione di una ponderosa Bibliografia della Resistenza, che non vide mai la luce) e successivamente, fuori dal Psi, nel collettivo dei Quaderni Rossi, la rivista di cui Panzieri fu animatore fino alla morte prematura, nel 1964.
A partire soprattutto dalla metà degli anni 60, l’attività intellettuale di Pirelli si diversifica e si va svolgendo lungo una pluralità di percorsi che il volume di Scotti riesce a ricostruire districandosi con notevole acume critico nella rete di iniziative e di rapporti che Pirelli va infaticabilmente tessendo e che lo conduce a esplorare nuovi territori. Oltre a proseguire nella ricerca sulla realtà del Terzo Mondo e della lotta contro il neocolonialismo, con la creazione, nel 1962, del Centro studi dedicato a Frantz Fanon (scomparso l’anno precedente) e del successivo Centro ricerche sui modi di produzione (1970), Pirelli, dopo avere pubblicato nel 1965 un romanzo, A proposito di una macchina, che lo colloca tra gli autori della cosiddetta “letteratura industriale”, rivolgerà la sua attenzione a nuove forme di sperimentazione letteraria e artistica che lo porteranno, tra l’altro, a interessarsi al cinema d’avanguardia e, in campo musicale, a una prolungata collaborazione con il musicista Luigi Nono, sfociata nella cantata A floresta è jovem e cheja de vida (citazione di un anonimo resistente angolano) per la quale Pirelli affianca il compositore nella ricerca delle fonti. Si tratta di un’opera dichiaratamente politica, tanto è vero che la prima, al Teatro La Fenice, il 7 settembre 1966, è dedicata al Fronte nazionale di liberazione del Vietnam, ed è, per questo aspetto, la prosecuzione, con diversi mezzi espressivi, di un impegno internazionalista mai abbandonato. Ma gli interessi musicali di Pirelli non si limitano a questa dimensione militante: nello stesso periodo, fonda con l’amico musicista Angelo Ephrikian, la casa discografica Arcophon, che si dedica, con raffinata sapienza filologica, al recupero della tradizione musicale italiana, dal Cinquecento in avanti, riproponendo autori poco noti quando non del tutto sconosciuti.
La morte colse Pirelli nel pieno della sua attività. È difficile dire come si sarebbe mosso e quali sarebbero stati i suoi interessi negli anni del riflusso, della crisi della politica, di Tangentopoli e della seconda Repubblica: quello però che è certo è che l’immagine a tutto tondo restituita dal lavoro di Mariamargherita Scotti è quella di una figura unica nel panorama della politica e della cultura italiana nel dopoguerra, un intellettuale militante dotato di una profonda sensibilità che gli ha permesso di operare in più ambiti, lasciando costantemente il segno di una presenza tanto discreta quanto consapevole della necessità di corroborare l’impegno politico con una solida riflessione teorica, spesso controcorrente rispetto ai riti e alle retoriche della politica ufficiale. Molto opportunamente, al termine del suo lavoro, l’autrice ha lasciato spazio a un mosaico di voci e di testimonianze, a rappresentare la ricchezza dell’impegno e della rete di relazioni che accompagnarono una vita così intensa. In questa pluralità di memorie e di riflessioni piace qui ricordare il profondo e meditato legame con l’esperienza resistenziale, che attraversa l’intero itinerario intellettuale e politico di un personaggio così particolare. È significativo, a tale proposito, che il funerale laico di Giovanni Pirelli si sia svolto nella sede dell’Anpi di Sampierdarena: un luogo emblematico per chi coltivò e praticò per tutta la vita l’idea che la Resistenza dovesse vivere come impegno quotidiano e inesauribile di lotta per l’emancipazione umana e per una società più giusta, impegno che visse a fianco della classe lavoratrice e dei popoli del Terzo Mondo in lotta contro il vecchio e il nuovo colonialismo: un lascito da ricordare, quello di Giovanni Pirelli, che la biografia di Mariamargherita Scotti consente oggi di conoscere in tutte le sue sfaccettature e implicazioni.
Pubblicato martedì 23 Aprile 2019
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