
È Iole “la figlia del ferro” di cui Paola Cereda narra l’eroica e tragica storia (Giulio Perrone editore, pp. 238, €16); sono suoi i pensieri e le azioni di cui seguiamo la parabola negli undici fatidici mesi che dall’armistizio portano allo sbarco sull’Elba nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1944. Cereda costruisce un romanzo crudo e bellissimo risvegliando con la fantasia la storia vera di Olimpia Mibelli Ferrini che, a ventun anni, sacrificò se stessa per salvare l’onore di tante donne di Portoferraio.

Così, dopo l’8 settembre, Iole è lì da sola, in via del Paradiso, con l’unica compagnia delle vicine di casa: Lia, la materassaia che attende il ritorno del marito Pietro, e Sestilia, la camiciaia, che ama stare alla finestra per spettegolare su chi entra e chi esce dalla porta di Iole. Un po’ di veleno si sparge. Qualcuno dice che la ragazza è troppo disinvolta coi maschi, che dal suo letto già sono passati un fante e un mangia kartoffeln, che insomma “il modo sfacciato con cui Iole invitava all’allegria” non può portare a nulla di buono. Ma quello è forse l’unico modo sano di vivere: “Iole era a suo agio dentro i peccati che chiamava semplicemente giorni. Azioni. Ore”.

L’autunno ’43 diventa un vero e proprio inferno con gli aerei tedeschi che iniziano a sorvolare i cieli dell’Elba. Quando scendono le bombe, la gente cerca la salvezza sottoterra, in quei rifugi che “sono luoghi raccolti e insieme spudorati, poco adatti alle confidenze tra estranei”. Ma adatti invece a far sbocciare le passioni. Così nasce quella tra Iole e Mario, proprio durante il devastante bombardamento del 16 settembre, quando i due si baciano nel buio del nascondiglio, resi leggeri da una voglia di vivere più straordinaria della guerra stessa.
Ma l’esistenza della ragazza s’intreccerà ancora con quella di Mario e con quella dell’isola intera. Nel frattempo le gemelle tornano all’Elba e sfollano a casa dello zio. Tecla è addirittura una miracolata poiché è una delle poche superstiti del piroscafo Andrea Sgarallino, silurato dagli inglesi il 22 settembre 1943 (con più di trecento vittime), poiché, nonostante l’imbarcazione fosse stata nuovamente adibita al trasporto passeggeri, ancora manteneva la livrea militare mimetica della marina regia.

Frattanto i mesi scorrono e l’anno nuovo, il 1944, porta la liberazione dell’Elba. Liberazione? No, forse quello è solo uno sbarco che, mentre libera, sporca l’isola con la foia animalesca della vittoria. Gli alleati arrivano verso la metà di giugno – è l’Operazione Brassard –, le manovre sono affidate ai francesi del Corps expéditionnaire français en Italie. Nello specifico lo sbarco è compiuto da una divisione di fanteria degaullista formata perlopiù da truppe senegalesi e marocchine. Tra loro c’è il giovane fuciliere Ibrah.

Iole e Ibrah: le loro vite sono destinate a incrociarsi. Quando lui si era arruolato – sorretto dalla promessa di una pensione e dei privilegi di un documento francese – tutto il suo clan aveva festeggiato, “perché il prestigio di essere tirailleur era superiore al pericolo”. Ma lui, sotto la maschera del coraggio, mantiene fin che può la coscienza delle proprie origini, appena slabbrata da una fosca malinconia. Suo fratello Ousmane muore sulla spiaggia di Fonza e lui chiude gli occhi cercando di conquistare il futuro. Per la sua maison, non per una patrie che non sarebbe mai stata veramente sua (quando poi sarà ora di festeggiare il trionfo alleato a Parigi, si procederà infatti allo “sbiancamento” delle truppe francesi).
A cacciare i tedeschi dall’isola ci mettono poco, un paio di giorni, ma la vittoria si volta in un tragico bagordo. I soldati africani si danno ai saccheggi e alle violenze, le razzie e gli stupri si moltiplicano. Così Iole oppone la propria Resistenza al nemico – sollecitata da quel Mario che non aveva saputo amarla come lei avrebbe desiderato – offrendosi in olocausto a uomini stranieri che altro non sanno fare, nel frangente della conquista, che ripetere ancestrali riti di appropriazione della terra e della carne altrui. Iole assorbe la loro violenza e intanto “piange e insieme ride perché sa che la disperazione, da sola, non basta per riuscire a sopravvivere”.
Paola Cereda, inserendosi perfettamente nel solco di tanti libri editi da Perrone, scrive un romanzo-donna che tutti gli uomini dovrebbero leggere perché qui, tra le pieghe di questa storia, si legge con spietata evidenza quanto possa essere nauseante il maschio in guerra, e quanto possa esserlo anche in pace. Iole, infatti, come l’eroina da cui trae spunto, non solo ha fatto la sua Resistenza in mezzo al sangue e alla sofferenza, ma ha pure dovuto rinunciare a tutti gli onori – e pure all’onorabilità – quando le celebrazioni dei vincitori avrebbero dovuto glorificarla. È quindi ora che “la figlia del ferro” reclami la sua parte di memoria, affinché davvero non si corra il rischio di scambiare le ingiustizie per semplici disgrazie.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato domenica 24 Luglio 2022
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