“Rimaniamo civili senza ingaggio? Diventiamo militari? Siamo partigiani combattenti per la liberazione!” cantano le voci protagoniste del romanzo corale “Partigiani non santi ma combattenti” (Kimerik Editore, 2021) di Corrado Leoni in una delle scene più toccanti descritte nel libro, ambientato nel borgo di Regnano-Castello, nella Lunigiana orientale, fulcro organizzativo della brigata partigiana “Garibaldi Lunense” e centro di un efferato eccidio nazista dove vennero trucidate brutalmente quindici persone inermi, incendiate le abitazioni e depredati i pochi beni delle famiglie contadine.

Lapidi in memoria della strage di Regnano, Massa Carrara (Pietre della Memoria)

Era il 23 novembre 1944 e questi luoghi venivano attraversati la Linea Gotica, la linea difensiva tedesca lunga più di 300 chilometri che tagliava l’Italia tra il Tirreno e l’Adriatico, dove la ferocia nazista si scagliò, per strategia di guerra più che in preda all’umiliazione della sconfitta, contro chi non poteva difendersi.

Partigiani in Lunigiana (archivio fotografico Anpi nazionale)

Ed è proprio degli ultimi che l’autore racconta nel suo pregevole romanzo, persone umili, laboriose, che accettano i sacrifici con dignità, che vivono ai margini della società ma che d’un tratto diventano protagoniste della grande Storia: il rumore sferragliante di una bicicletta, le suole consunte sul selciato di una strada di campagna, il dorso di un mulo si confondono presto al campo di battaglia a un passo da casa in una confusione straordinariamente descritta da Leoni: sulle loro teste la Linea Gotica pesa come un macigno.

Questo contesto viene pregevolmente descritto anche dalla copertina del libro, che lo rappresenta idealmente: in acque agitate, simbolo di caos, sarà il faro della stella rossa a guidare le loro scelte di fronte a una guerra non voluta e non compresa.

Più che meritato il Premio “Letteratura” dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli vinto dall’opera. Si legge d’un fiato perché non c’è retorica nelle pagine di Leoni che tratteggia Orazio, Placida, Eugenio, Ancilla, Sante e Domenico così come il podestà o il segretario del fascio con grande onestà intellettuale e l’intento di voler “rendere giustizia alla memoria dei terribili eventi occorsi nell’alta Val d’Aulella dopo l’8 settembre 1943” scrive l’autore, trentino di nascita e lunigiano di adozione, nell’introduzione che anticipa il testo. “L’intento – continua – è quello di ripercorrere questi drammatici eventi non solo dando spazio ai singoli protagonisti di questa pagina di storia ma anche di onorare il ricordo degli abitanti di quelle comunità rurali, la cui vita quotidiana era basata sul duro lavoro”.

Diverse figure religiose spiccano nel racconto: sacerdoti, parroci e frati che hanno, nel contesto delineato da Leoni così come nei fatti del secondo conflitto bellico, sostenuto la popolazione. Anche a costo della vita. Qui come in tutti quegli altrove attraversati dalla guerra: torturati e giustiziati perché accusati di partigianeria. Diedero rifugio a ebrei, renitenti alla leva, ex fascisti, partigiani feriti, antifascisti, portando avanti una rete di solidarietà sempre a favore della popolazione.

Furono combattenti disarmati e nel dopoguerra indicarono, all’interno del dibattito nel mondo cattolico, il movimento pacifista e non-violento il vero erede dei valori della Resistenza. Fermo restando che al movimento di Liberazione parteciparono tutti gli orientamenti politici: cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, monarchici.

È dunque un atto amorevole di gran valore quello di Corrado Leoni nei confronti dei morti di questi territori: il loro dramma sarebbe potuto piombare nell’oblio, in mezzo ai tanti eccidi che hanno costellato l’occupazione del nostro Paese e invece, grazie alla memoria storica e al contributo fornito anche dal suo romanzo questo pathos diventa una cicatrice dolorosa che unisce istanze e valori democratici e antifascisti.