Piera Sonnino, scrittrice e testimone della Shoah italiana, con il libro “Questo è stato. Una famiglia italiana nei lager”, edito per la prima volta nel 2004 da il Saggiatore e ripubblicato dallo stesso in nuove edizioni, a cura di Giacomo Papi e con la prefazione di Enrico Deaglio, racconta, attraverso un’autobiografia, la difficile vita, durante la seconda guerra mondiale, che lei e la sua famiglia furono obbligati a vivere.

I sei figli della famiglia Sonnino, Piera era la quarta

Era nata a Portici, Napoli, l’11 febbraio 1922, Piera, da Ettore Sonnino e di Giorgina Milani uniti nel 1919 da matrimonio ebraico a Roma, quarta di sei figli. La famiglia, dopo alcuni anni a Portici si trasferisce prima a Milano e poi definitivamente a Genova. A seguito della promulgazione delle leggi razziali del 1938, la famiglia conosce l’emarginazione, la perdita del lavoro e la fame, tuttavia Piera racconta di come durante quegli anni non mancarono gesti di solidarietà di non ebrei verso la sua famiglia. La situazione però precipita dopo l’8 settembre 1943, quando i nazifascisti occupano il nord e il centro Italia.

Nonostante alcune discussioni interne, la famiglia Sonnino decide di rimanere sempre unita e di non provare a varcare il confine con la Svizzera. Così, grazie ad alcuni aiuti, si trasferisce da Sampierdicanne in Val Trebbia a Pietranera di Rovegno (tutte località nei pressi di Genova), che un maresciallo gli intima di lasciare circa un mese dopo. La famiglia torna quindi a Genova, in periferia, prima in via Archimede (un mese), poi a Carignano (un mese), e per i successivi nove mesi fino alla cattura in via Montallegro.

Il giorno della cattura è il 12 ottobre 1944, la famiglia è venduta da due delatori e arrestata da poliziotti italiani, uno dei quali disse: «Ebrei… veramente ebrei. Hanno inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo, gli ebrei. In che guaio vi siete messi da allora. In che guaio. E chi può darvi retta dopo quello che avete fatto?». In queste parole, riportate da Piera nel suo libro, possiamo renderci conto di come l’antigiudaismo fosse sopravvissuto all’interno dell’antisemitismo. Vennero poi divisi tra uomini e donne e trasferiti nelle carceri di Marassi, da dove la sera del 20 ottobre raggiungeranno il campo di concentramento di Bolzano.

Auschwitz

Da lì, il 23 ottobre l’intera famiglia è deportata nel campo di concentramento/sterminio di Auschwitz-Birkenau. La destinazione è raggiunta il 28 ottobre, e lì la famiglia viene divisa per sempre. Dopo alcuni giorni di “lavoro”, Piera matricola A-26699, la sorella maggiore Maria Luisa matricola A-26698 e la sorella minore Bice matricola A-26700, sono trasferite nel campo di Bergen-Belsen. In quell’inferno Piera perde prima la sorella maggiore e poi, nel gennaio 1945, la sorella minore. Piera nel mese di marzo è trasferita nuovamente, destinazione il campo di Berndorf. Lei riesce a sovravvivere ancora, ma tornerà a Genova solo nel settembre del 1950, dopo anni di case di cura e sanatori per guarire da gravi patologie bronco-polmonari, dove scopre di essere l’unica sopravvissuta della sua famiglia. Ha perso madre, padre, una zia e cinque tra fratelli e sorelle.

Questo libro nasce quando Piera decise di scrivere un memoriale per la sua famiglia datato “Genova, luglio 1960” e intitolato “La notte di Auschwitz”. Il manoscritto, una sessantina di fogli fotocopiati dall’originale battuto a macchina, furono conservati nel privato della famiglia per 42 anni, fino a quando nel 2002, tre anni dopo la morte di Piera, le figlie Bice e Maria Luisa, chiamate così in onore delle sorelle perse nella Shoah, inviarono il testo a Diario, una rivista settimanale, che lo pubblicò. Da lì poi il racconto di Piera divenne un libro, tradotto in molte lingue, col titolo sopracitato.

Si tratta di un’opera estremamente importante oltre che interessante, innanzitutto perché Piera non l’aveva scritta con l’intenzione di pubblicarla, bensì per farla leggere solo ai propri familiari. Il titolo originale, “La notte di Auschwitz”, pensato dalla sopravvissuta non è affatto scontato perché i testimoni avevano appena cominciato a testimoniare, infatti Primo Levi aveva pubblicato solo due anni prima “Se questo è un uomo”.

Si tratta di una storia familiare, dunque, che l’autrice ricostruisce attraverso una successione di eventi condita da particolari. Il racconto è diviso in due parti: nella prima i protagonisti sono ancora esseri umani mentre nella seconda avviene  l’annullamento e la riduzione a numero e a oggetti privi di identità voluto dai nazisti. L’autrice però grazie a questa testimonianza, dimostra di essere sopravvissuta e di aver resistito all’annullamento perpetratogli dai nazisti. Una testimonianza molto rilevante da far conoscere anche perché dimostra la non innocenza degli italiani, tra delatori e poliziotti complici dei nazifascisti.

Alla memoria di Piera, nel 2018, è stata dedicata a Genova la scalinata in Via Casoni, nel quartiere San Fruttuoso; una pietra d’inciampo è stata posta in ricordo della famiglia Sonnino.

Abbiamo raggiunto la figlia, Bice Parodi, per farle alcune domande.

Nonostante la storia dimostri il contrario, sentiamo parlare ancora di italiani “brava gente” in merito alla Shoah. Può raccontarci brevemente chi furono i responsabili dell’arresto e della deportazione di sua madre e se hanno mai pagato per i loro crimini?

Devo dire dopo l’8 settembre 1943 la mia famiglia cercò di rendersi “invisibile” e in questo fu spesso aiutata nel suo peregrinare da un rifugio all’altro da persone incontrate per caso, da sacerdoti della curia genovese e anche il maresciallo dei carabinieri di Rovegno in fondo li aiutò dicendogli che non poteva fare più finta di non vederli e se non se ne andavano avrebbe dovuto procedere all’arresto. Detto questo però italianissime furono le camice nere che comandate da Brenno Grandi, comandante della caserma Florio del quartiere di San Martino a Genova, su delazione forse di una vicina di casa, procedettero all’arresto della mia famiglia. Brenno Grandi fu processato e assolto nel 1947 per non aver “lucrato” sull’arresto, in quanto la somma di denaro che mio zio aveva affidato al vicino era stata poi sequestrata dalle camice nere ma depositata a nome della famiglia Sonnino grazie proprio all’insistenza del vicino. Un cavillo che non teneva conto del saccheggio della casa e di tutti i beni della mia famiglia e il destino di morte a cui li aveva condannati.

A Genova, città Medaglia d’Oro della Resistenza, che pagò con 1.863 morti e oltre 2.250 deportati il contributo alla lotta, e dove, unico caso europeo, gli occupanti tedeschi si arresero ai partigiani, il sindaco voleva accendere un mutuo milionario per omaggiare i caduti Rsi. Lei cosa ne pensa?

Ovviamente si resta allibiti e indignati. La Giunta comunale di fronte alle molte proteste ha poi stralciato l’articolo di spesa cambiando la destinazione dal restauro del sacrario ai caduti Rsi alla “riparazione del muro che sta dietro al memoriale e che sostiene il cimitero israelitico”. Ma non impedisce alla Giunta di partecipare alle commemorazioni pubbliche di questi militi e di riuscire a non nominare mai la parola “antifascismo” neppure il 25 aprile.

Quanto crede sia importante, visto anche lo stato in cui si trova in questo momento l’Italia, ripartire dalla scuola per formare le nuove generazioni nei valori dell’antifascismo, della resistenza e della Costituzione italiana?

Essenziale in quanto solo attraverso l’educazione al rispetto degli altri, alla non violenza ed al significato di democrazia si può arrivare ad una società dove non vale solo la legge del più forte. E per questo è necessario partire anche dalla formazione degli insegnanti.

Andrea Vitello, storico e scrittore