DefensaNogales--644x362Manuel Chaves Nogales (Siviglia 1887 – Londra 1944) è stato giornalista, scrittore e testimone importante della guerra civile spagnola. È stato riscoperto negli ultimi anni in Spagna e tradotto anche in Italia da Neri Pozza e da una piccola casa editrice, La nuova frontiera, che ha reso disponibile al lettore italiano la sua celebratissima raccolta di racconti A sangre y fuego.

Chaves Nogales si definiva un borghese liberale, distante sia dal fascismo che dal comunismo (che conosceva per aver viaggiato in Europa e in Unione Sovietica); con il colpo di stato di Francisco Franco metterà – scrisse – la sua penna al servizio della causa antifascista.

La defensa de Madrid è un volume che raccoglie gli articoli che il giornalista scrisse nel 1938 per la rivista messicana Sucesos para todos, il cui direttore fu in seguito il produttore di alcuni film messicani di Luis Buñuel.

Gli articoli di Chaves Nogales sono la cronaca dell’assedio di Madrid e in particolare dei bombardamenti del 16 e 17 novembre 1936 sulla capitale spagnola. La defensa de Madrid è una testimonianza che rende bene, salvo qualche concessione al narrativo, la paura e lo sgomento dei madrileni sotto le bombe dell’aviazione franchista. I “ribelli” – così la Repubblica definiva i generali golpisti – falliranno nel tentativo di fiaccare la tenuta morale dei madrileni. I bombardamenti quotidiani e sistematici, iniziati l’8 novembre 1936, su Madrid inaugurarono quella “guerra totale” che l’Europa avrebbe conosciuto qualche anno dopo. Arthur Koestler scrisse che i bombardamenti su una città, tra l’altro priva di difese antiaeree, «segnava[no] l’inizio di una epoca storica nuova e incerta, in cui l’antica distinzione tra soldati e civili sarebbe stata abolita, in cui la morte avrebbe colpito dal cielo indiscriminatamente, un’epoca di guerra totale e di totale paura».

 

Dal capitolo IX – Una trinchera de un millión de seres inermes

 Il 17 novembre del 1936 Madrid subì il bombardamento più terribile che aveva conosciuto fino ad allora. Più di un centinaio di edifici furono distrutti o incendiati. Quattrocento morti. Novecento feriti. Il comando dell’esercito golpista credeva che, se alle operazioni al fronte si fosse unita la demoralizzazione delle retroguardie, la vittoria sarebbe stata certa. Pura strategia di guerra totale. Ma i ribelli si sbagliavano. Questo fu il secondo errore commesso da Franco di fronte a Madrid.

Madrid sopportò una prova durissima con stoicismo e una serenità insospettabili. I bombardamenti iniziarono all’alba. E alle dieci di sera i trimotori dei ribelli fecero la loro ultima incursione per lanciare bombe incendiarie; quella notte Madrid bruciò dovunque.

Furono colpiti il palazzo del duca di Alba, il palazzo dell’Amministrazione Provinciale, il teatro Cervantes, il teatro dell’Opera, l’hotel Savoy, il mercato del Carmen e almeno un centinaio di edifici nelle vie di Fuencarral, del Desengaño, Carrera de San Jeronimo, Alcalá, Avenida del Conde de Peñalver, Caballero de Gracia, Montera, calle Mayor e altre zone dei quartieri di Vallecas, Cuatro Caminos e Tetuán.

La spaventosa voragine che scoprì il tunnel della metropolitana alla Puerta del Sol (http://www.madrid1936.es/madrid/images/sol.jpg)
La spaventosa voragine che scoprì il tunnel della metropolitana alla Puerta del Sol (http://www.madrid1936.es/madrid/images/sol.jpg)

Alla Puerta del Sol una bomba scoprì il tunnel della metropolitana. La strage fu spaventosa, i danni materiali ingenti. Le conseguenze morali, nulle. La teoria della guerra totale fallì la notte del 17 novembre a Madrid.

Un milione di abitanti sentì la guerra arrivare fin dentro le loro case. Anche la stanza più nascosta fu come la trincea più avanzata del fronte. Riparati nei seminterrati, migliaia di esseri inermi sperimentarono le stesse prove che erano riservate al coraggio e all’eroismo dei soldati. Madrid era una immensa trincea occupata da bambini, donne e anziani che un nemico spietato colpiva con furia. Nei seminterrati dei grandi e solidi edifici del centro si ammassava una immensa folla sconvolta dalla paura; solo nel seminterrato della Compagnia Telefonica, l’edificio più alto di Madrid, si ammassarono almeno seicento madrileni.

Gli abitanti delle case da due o tre piani al massimo, che le bombe potevano distruggere fin dalle fondamenta, si stipavano come pecore al piano terra trascinati da quell’istinto animale che raggruppa il gregge nell’istante del pericolo.

I bombardamenti furono così intensi da rendere i madrileni impassibili di fronte all’ampiezza del massacro. Intontiti dalle esplosioni e allucinati dalle fiamme, assistevano come attoniti alla catastrofe.

Se gettavano acqua per spegnere gli incendi vedevano con stupore che le fiamme aumentavano, per le caratteristiche, a loro ignote, del materiale di cui erano fatte le bombe incendiarie.

A rimanere nei rifugi si rischiava di restare sepolti a causa delle bombe enormi che distruggevano completamente gli edifici. Tra il fragore delle bombe, il bagliore degli innumerevoli incendi, la voce ferita delle sirene di allarme e il suono sinistro delle campane delle ambulanze, Madrid visse una notte apocalittica. Dalle colline vicine i ribelli potevano, con piacere, osservare lo spettacolo terribile che loro stessi avevano scatenato.

Il giorno dopo un’alba livida illuminò una Madrid spettrale, silenziosa, popolata da esseri che contemplavano immobili quella strage.

Il fumo degli incendi saliva verso un cielo plumbeo. L’acqua, gettata per spegnere gli incendi, gelava in grandi pozzanghere. Seduta ai bordi delle strade con il viso tra le mani, la povera gente rimasta senza casa restava insensibile al dolore e alle avversità. Nessuno si lamentava. Nessuno feriva con grida di disperazione il tragico approssimarsi dell’alba. Di fronte ai mucchi di macerie qualcuno vagava con lo sguardo attonito cercando senza speranza se qualcuno di quelli che amava fosse rimasto sotto le macerie. Solo le campane acutissime delle ambulanze, che trasportavano i feriti, osavano rompere il silenzio di quel terribile mattino, quattrocento morti!

Verso sera cortei funebri attraversavano le strade dietro le barelle e dalle pieghe delle coperte si poteva indovinare il profilo aguzzo dei cadaveri.

Non c’erano più bare e gli uomini tornavano alla terra avvolti in un sudario.

Sebastiano Leotta, docente di storia e filosofia al liceo “Cornaro” di Padova