Ci sono i “turchi un po’ più vecchi, con le pance, in completi più o meno cari, con la sigaretta in una mano e il rosario musulmano per recitare i nomi di Dio nell’altra” che osservano il via vai dei ragazzi con sacchi a pelo e thermos mentre i venditori di kufta e di tè si posizionano ai bordi di una piazza.
Inizia dai tumulti del parco Gezi di Istanbul il brillante reportage di Witold Szabłowski dal titolo “L’assassino dalla città delle albicocche” pubblicato da Keller editore. Un viaggio nella migliore tradizione di Kapuściński per esplorare la Turchia contemporanea oggi al centro delle cronache giornalistiche per le interferenze di Erdoğan nella guerra in Siria, per gli interessi nel Mediterraneo e in Libia, per le politiche repressive all’interno dei confini nazionali.
Quanto sappiamo della Turchia che si è andata delineando negli ultimi quindici anni? Quanto è importante sapere di un Paese con cui l’Italia in primis fa affari? Partendo da una rivolta popolare e trasversale per salvare un parco cittadino dalla speculazione edilizia, piano piano l’autore ci conduce per mano descrivendo varie realtà del Paese della Mezzaluna che è passato dall’autoritarismo di Atatürk, padre della Turchia moderna, ad Erdoğan, potente leader populista che sogna un nuovo splendore ottomano.
Il parco è rimasto lì dov’era, ci sono state dimostrazioni e occupazioni in tutto il Paese, migliaia di feriti, sono morte sette persone. Quei gas lacrimogeni lanciati sugli studenti che difendevano Gezi sono stati la spia di un malessere. Oltre lo sviluppo economico, i nuovi grattacieli e centri commerciali, le rivolte del parco Gezi hanno mostrato il volto duro del potere di Erdoğan prima ancora del recente tentativo di colpo di Stato nell’estate 2016.
Nel libro si indaga presente e passato, conservatorismo e modernità, Islam e islamofobia, grandi città e remoti villaggi rurali. Szabłowski parla con tutti – camionisti, imam, famiglie di emigranti, giovani donne, professori, giornalisti curdi, combattenti, ex prostitute – e ci offre un ritratto di un Paese in bilico, tra quello che poteva essere e quello che sarà. Ma essere al confine di due mondi ha anche un prezzo, scrive l’autore.
Davvero interessante è il ritratto che il giornalista fa del grande poeta turco Nazım Hikmet: “è una leggenda vivente. Per aver difeso il comunismo ha passato più di dieci anni in prigione”. Oltre alla storia con la S maiuscola però l’autore racconta – attraverso una vita rocambolesca e piena di fermenti – anche della proverbiale passione per le donne di Hikmet: “oggi sarebbe il beniamino dei tabloid. Tre delle sue quattro mogli avevano abbandonato il marito precedente per lui”, scrive. Ma, tra queste, la figura più rilevante per Hikmet è Münevver che – grazie all’aiuto della scrittrice e traduttrice italiana Joyce Salvadori Lussu, leggenda del movimento di resistenza al fascismo – fugge verso l’isola greca di Lesbo con il figlio avuto dal poeta e poi chiede asilo politico in Polonia. Lì Münevver insegnerà all’Università di Varsavia e contribuirà con le sue traduzioni alla fama dell’ex marito poeta fuori dalla patria. Hikmet – che riposa nel cimitero Novodevičij di Mosca – solo nel 2009, quarantasei anni dopo la sua morte, verrà riabilitato dal governo turco che gli restituirà anche la cittadinanza.
In queste pagine, spesso molto divertenti e ricche di aneddoti, l’autore affronta anche i molti drammi e le ferite aperte del Paese come la questione curda e il genocidio armeno. Su quest’ultimo argomento viene intervistato Halil Berktay, il primo storico turco a definire l’uccisione di massa degli armeni un genocidio. È interessante notare i meccanismi alla base delle reazioni delle persone a un tale racconto di violenza che l’autore sottolinea attraverso l’intervista. Prima l’incredulità di quello che un gruppo ampio di esseri umani ha fatto nei confronti di altri esseri umani solo sulla base di un’etnia diversa, poi l’ammissione e il ricordo dei racconti dei nonni e di tante storie simili ascoltate in famiglia. “Da anni il governo e i media ripetono che noi turchi non abbiamo ucciso nessuno. Perché non dovevamo credergli? Naturalmente non esiste un documento delle autorità turche che dica: Tutti gli armeni devono essere uccisi. Ma neanche Hitler ha mai firmato un documento simile riguardo agli ebrei”, spiega nel libro lo storico Berktay.
Da segnalare all’interno del volume anche il racconto dell’ascesa politica di Erdoğan, di come ha costruito il suo consenso partendo dal basso o l’impegno delle organizzazioni femminili contro la piaga dei delitti d’onore nel Paese oppure della battaglia di due ex prostitute candidate nel 2007 al parlamento turco.
Le molte anime della Turchia affiorano in questo reportage ricco di suggestioni. Il titolo del libro si riferisce al capitolo dedicato all’attentatore del papa polacco Giovanni Paolo II. L’autore va in visita alla famiglia di Mehmet Ali Ağca, esponente dei Lupi grigi, e cerca di capire un po’ di più di quell’uomo tormentato, a cui poi farà visita il Papa mentre è detenuto a Roma, nel carcere di Rebibbia. Anche qui il ritratto della Turchia rurale e dell’infanzia dell’attentatore restituiscono un racconto vivido e rigoroso. I tanti personaggi incontrati nell’indagine giornalistica, i numerosi paesaggi e dialoghi forniscono al lettore il racconto corale di un Paese che si interroga ancora sulla sua identità. “L’assassino dalla città delle albicocche” si è aggiudicato alcuni dei più importanti premi polacchi e internazionali per il reportage narrativo tra i quali il prestigioso English Pen Award e l’European Parliament Journalism Award.
Antonella De Biasi, giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale “la Rinascita”. È autrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
Stampato il 06/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/persone-e-storie-dalla-turchia-profonda/