Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
quelli che restano hanno i capelli bianchi
e raccontano ai figli dei figli
come, al tempo remoto delle certezze,
hanno rotto l’assedio dei tedeschi.
Primo Levi
Fermammo persino il vento. Racconti e letteratura di partigiani, curato da Marco Codebò e Domenico Gallo, si apre nell’introduzione con una domanda: ha ancora senso, in questo nostro presente in cui la Resistenza sembra patire “un’emorragia di significato”, raccontare i partigiani ai figli dei figli dei figli? Ha oggi un senso leggere narrazioni degli anni lontani di Tarzan, Riccio, Sparviero?
La Resistenza, ogni Resistenza della storia, rispondono i curatori citando Deleuze e Foucault, non nasce dal nulla. Ha origine dagli infiniti punti di forza che precedono il potere e sono fuori dalle relazioni del potere stesso. Sono ciò che il potere già trova e per essere tale combatte, e poi diventano “l’appiglio di una presa. La resistenza è la forza che resta prima e fuori”.
Seguono nel libro pagine di autori diversi che raccontano l’esperienza resistenziale in modo diretto, senza analisi interpretative, e a volte si sente l’eco del racconto orale. Sono racconti del compagno partigiano che sa scrivere mentre Fenoglio, Ada Gobetti, Calvino, Chiodi vivevano in montagna esperienze che avrebbero raccontato dopo con sapienza stilistica. Racconti di quando anche le parole erano strumenti di lotta.
Raggruppati per temi focali, vi si può raccogliere trasversalmente il filo della stessa parola “Resistenza” nella sua evoluzione. Il primo brano dell’antologia è Premessa a Mercurio. N. 4, di Alba de Céspedes che nel 1944 scriveva: “Ora, in questo anno che per intenderci chiameremo ‘di resistenza’, gli italiani hanno combattuto e vinta una loro grande guerra solo sulla guida del proprio istinto, della propria coscienza”.
“Per intenderci”, scrive: allora il termine più usato in Italia era “liberazione”. Il 18 giugno del 1940 dalla Bbc era partito un appello: “La fiamma della resistenza francese non deve spegnersi e non si spegnerà. Io, generale De Gaulle, invito gli ufficiali e i soldati francesi che si trovano sul territorio britannico a mettersi in contatto con me”. Nel vocabolario militare l’opposizione era dunque “non belligeranza/resistenza”; sul piano civile, tra gli uomini e le donne che avevano l’urgenza di difendere se stessi e i rapporti umani, la coppia di opposti era “disciplina/indisciplina” e poi, sotto il tallone tedesco, “collaborazione/liberazione”. Nell’editoriale della rivista Il Ponte di Calamandrei, (era il 1946) leggiamo: “Il movimento ha ormai un nome: Resistenza”. Con la erre maiuscola.
Era una lotta esistenziale, all’inizio: “Ognuno ha scelto la sua trincea, il suo posto di combattimento”, è ancora Alba de Céspedes. Viene in mente Claudio Pavone e la centralità della scelta nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.
Contro che cosa si dovesse fare una scelta lo descrive con efficacia Calce sul muro di Corrado Alvaro, e i colpi tedeschi che falciarono tre famiglie contadine sono ancora lì, a Caiazzo in provincia di Caserta, sul vecchio muro di pietra. Per quale fine era necessario liberarsi non sembra che fosse chiaro a tutti all’inizio: pochi avevano un’idea di come si dovesse costruire il futuro.
I più avevano soltanto “fatto la loro scelta”, come Danilo, “pallido, sbiadito nei capelli e negli occhi, col viso calmo, quasi immobile: un operaio” che, malato di cuore, non esita a portare una bomba sotto il palco da cui avrebbe parlato Graziani. Come Nino “che andava su e giù per il fiume, sulla sua barca di pescatore, remando all’impiedi come i gondolieri: portava le cassette di bombe a mano, i caricatori calibro 7,65, nei giorni in cui ce n’era bisogno” (Vasco Pratolini). Paure, furori, odi, speranze erano diventati corpi in gioco. Però quando la posta è la vita il perno non può essere più quello della scelta individuale, ma quello del corpo collettivo di cui si diventa parte; così prese il suo posto nella storia “una comune barricata dove ognuno, per combattere, portava quel che aveva” (Alba de Céspedes): anche i “pittori difendono la città” con i loro pennelli (Toti Scialoja). Per prudenza si cambiavano i nomi, quelli veri si sarebbero riconquistati dopo la Liberazione, e si era creato un fronte: il Movimento di Liberazione.
Nel Mezzogiorno liberato, a Radio Bari, nel 1944 un gruppo di giornalisti, intellettuali, artisti, uomini e donne (Alba de Céspedes, Ubaldo Lay, Corrado Mantoni, Anton Giulio Maiano, Arnoldo Foà e tanti altri) organizzarono la trasmissione “Italia combatte” per il Nord che era nel pieno della guerra partigiana; da lì nascerà intorno ad Alba De Céspedes la rivista Mercurio, da cui vengono molti racconti di questo libro. Ovunque a quel punto della lotta “si guardò in faccia finalmente la verità: che l’Italia va rifatta daccapo. Una guerra perduta non è la morte di una nazione. Le nazioni non muoiono, decadono; e il popolo italiano è ancora vitale” (Corrado Alvaro). Era vitale anche negli stalag tedeschi, con la fame rabbiosa, il gelo, l’infinita stanchezza: “Ma intanto avevo paura. Mi voltai ancora. L’ultimo della fila era Domenico. ‘Domenico, non fare il vigliacco’, gridai. E parlavo a me stesso” (Oreste Del Buono).
Dalla paura nasceva il coraggio, e ce ne voleva molto per non denunciare i compagni sotto le torture che ingigantivano l’effetto straniante dell’arresto e della carcerazione, tremende. “Egli era ancora squassato e ansante di rabbia, mi misi a guardarlo sereno più che potei. ‘Fuori i nomi’ urlava, e siccome io continuavo a guardarlo in silenzio: ‘Parlerai davanti al plotone d’esecuzione’ disse” (Raffaello Ramat). Terribili sono i due racconti di Luciano Bolis che teme di cedere alla tortura e scava con le dita nella sua carne per cercare il punto della morte, che non trova.
La guerra senza stellette era salita in montagna, e i racconti raggruppati sotto questo tema illuminano aspetti anche minimi ma non secondari della vita partigiana. Si inizia con la scelta dei nomi di battaglia: “Il malumore trovò una specie di liberazione nell’accusa di Torquato Tasso contro Alessandro Manzoni: ‘La colpa è tua. Abbiamo sempre saputo che sei un reazionario’. Alessandro Manzoni contrattaccò: ‘Sei stato il primo a lamentarti. Lo sappiamo che sei un piagnone’” (da La compagnia dei letterati di Antonio Meluschi). Poi ci sono i rapporti interni alle bande e quelli esterni con gli abitanti dei territori, i disertori dei nemici, gli alleati fuggiaschi. Gravi e complessi sono soprattutto i rapporti con gli “altri”: le spie, i nemici catturati.
In montagna ci sono partigiani esposti alla tortura e alla morte, appesi agli alberi con i loro occhi cavati e le loro lingue tagliate; ci sono le azioni rischiose, le privazioni e la delizia assoluta di un bagno con un vero sapone (Saverio Tutino), tenerezze perdute e il calore di giovani maschi senza corpi da godere (Antonio Melusci, Bruno Berellini), mentre nella stretta dipendenza reciproca della lotta nascono forti legami affettivi e la pulsione di Eros e Thanatos fino alla soglia dell’omoerotismo (Carlo Còccioli).
E ci sono donne in questi racconti. Su questo tema lo sguardo è divergente, figlio di un’epoca in cui l’esistenza femminile era ancora inchiodata a potenti stereotipi. Si riconosce alle donne capacità di ardimento, non sono più deboli, non sono più fragili: “Le donne non rispondevano agli sguardi, le donne non guardavano in faccia; le donne della Manifattura Tabacchi, infagottate di nero, le braccia spalancate, le guance infossate nello sforzo, esse tentavano di partorire lo sciopero” (Gianni Puccini). Ci sono in carcere donne per favoreggiamento di ebrei, disertori, resistenti, attività contro lo Stato, che creano un cerchio di solidarietà antifascista, sanno cantare e ridere come quando “la vita era ancora vita” (Bianca Ugo). C’è sotto il naso dei tedeschi una compagna con in mano il barattolo della pittura nel gruppo che a Roma va scrivendo sui muri “A morte i tedeschi e i fascisti” (Francesca De Giuliani).
Poi ci sono donne che instancabilmente “si radunavano a far la lana, soprattutto calze di buona lana di pecora, che i piedi erano sempre freddi, sia di quelli che andavano in azione a ribaltare con bombe i camion tedeschi, sia degli altri” (Renata Viganò). Anche il quotidiano sferruzzare delle donne è diventato scelta di campo: sono madri accudenti anche nel pericolo estremo.
Però nei racconti delle bande partigiane c’è un’infermiera ma non ci sono le staffette e le combattenti. Era il tempo in cui furono pregate di non sfilare in molti cortei della Liberazione perché loro che erano state in montagna come gli uomini, che portavano come gli uomini pantaloni e mitra, loro che torturate non avevano parlato, sarebbero state viste male. E c’è anche una donna incinta della “brigata nera” da oltraggiare nella sua femminilità mentre un partigiano commenta: “Come c’è finita. Saperlo, forse, spiegherebbe molte cose” (Angelo Del Boca).
Di questo parlano le storie raccolte da Domenico Gallo e Marco Codebò, in cui si scorgono i germogli sotterranei del neorealismo nell’Italia da ricostruire all’alba di un mondo diverso.
E qui si chiude il cerchio, affermano i curatori riproponendo in questo volume le parole di quella Resistenza così varia, così complessa, oggi così lontana; quella Resistenza dalle mille forme che, unite, crearono il fronte della democrazia. È un libro che racconta il prima di altri possibili dopo, “appiglio di una presa ideale” poiché è necessaria la battaglia della memoria che, al tempo in cui il vento riprende a soffiare, conduce l’Associazione nazionale partigiani d’Italia insieme ai giovani di tutte le età.
Pubblicato domenica 13 Giugno 2021
Stampato il 06/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/resistenza-con-la-erre-maiuscola/