Rosso nella notte bianca (Feltrinelli 2016, p. 122, € 12.00) è l’ultimo lavoro di Stefano Valenti. Racconta la storia di Ulisse, ex partigiano che torna al suo paese, in Valtellina, a uccidere chi, quasi cinquant’anni prima, aveva spiato ai fascisti dove stavano i ribelli, dove avrebbero dovuto bruciare e devastare. È un tempo lento e insieme convulso e allucinato quello che scorre nella testa del protagonista, che possiamo seguire passo passo in un ininterrotto fluire di pensieri; è un tempo che non tiene conto né di anni né di calendari, ma solo del rimarginarsi difficile di ferite profonde, che lasciano cicatrici ingombranti e dolorose. Ulisse montanaro, vinto come i vinti di Nuto Revelli, partigiano credente e comunista per istinto cieco di giustizia, alla giustizia si consegna dopo una vendetta che ha il sapore amaro di una giustizia negata.
Stefano Valenti, classe 1964 e valtellinese, vive a Milano. Esordisce con il romanzo La fabbrica del panico (Feltrinelli 2013) con cui ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 2014, il Premio Volponi Opera Prima 2014 e il Premio Nazionale di Narrativa Bergamo 2015. Ha poi pubblicato Rosso nella notte bianca (Feltrinelli 2016), premiato al Volponi 2016. Ha tradotto Germinale (2013) di Émile Zola e Il giro del mondo in ottanta giorni (2014) di Jules Verne.
Stefano Valenti è un autore giovane, della generazione dei nipoti, che si misura con il tema della Resistenza, come Giacomo Verri in Partigiano inverno e Racconti partigiani: perché? Che cosa resta da dire, o cosa occorre cominciare a dire su questa Storia, su queste storie? E quali sono i vantaggi e gli svantaggi di raccontare quegli anni, 70 anni più tardi?
L’idea di questo romanzo nasce da una sollecitazione contenuta ne Il nemico interno di Cesare Bermani, Odadrek edizioni, nel quale si racconta della permanenza del fascismo nella cultura e nella realtà politica italiane, esemplificata dalla vicenda di un uomo di settanta anni tornato al paese, dopo cinquant’anni, a uccidere un coetaneo responsabile di avere portato nel 1944 i repubblichini nella malga di famiglia con le conseguenze che questo ha comportato. L’attualità della Resistenza risiede nella mancata pacificazione di un popolo che non ha saputo o potuto condannare i responsabili del regime, passati in grande parte indenni dal regime alla Repubblica e negli effetti nefasti del non essere stati capaci di chiudere una intera stagione di crudeltà. Il vantaggio di raccontare la Resistenza a distanza consiste nella possibilità di non fare cronaca, ma al contempo esiste la difficoltà di evitare il romanzo storico e l’apologia.
Quali sono le reazioni che ha riscontrato nell’editoria di fronte alla proposta di pubblicare storie simili? E quelle del pubblico?
Io ho avuto la fortuna di collaborare con un editor come Alberto Rollo che ha mediato per me con l’editore Feltrinelli. Nessun problema nella pubblicazione, semmai una relativa pubblicizzazione del romanzo ritenuto a torto o ragione non commerciale, valore intorno al quale si è appiattita molta dell’editoria italiana e non solo. E di conseguenza il pubblico non ha accesso a questo genere di narrativa, fatta eccezione per lettori forti o molto motivati. In sostanza, non esiste più censura diretta, questo compito è affidato al mercato.
Ottime, a quanto pare, le reazioni della critica: fresco vincitore del Volponi 2016, quali sono le motivazioni per cui Rosso nella notte bianca si è aggiudicato il premio?
Preferisco riportare le parole dei giurati: «Il romanzo Rosso nella notte bianca è uno spaccato culturale e civile degli ideali tramontati della Resistenza e di un illusorio dopoguerra. Stefano Valenti dà voce alle sofferenze di un uomo, Ulisse, ossessionato dai ricordi della guerra e traumatizzato dal passato. L’insano gesto iniziale è la prova di questo dolore, ma è anche un grido di vendetta».
E ancora: «La prosa, abilmente inventata da Valenti, è ritmica, scarna e scabra, non priva di una sua ruvida pronuncia, concentrata e martellata, compulsiva, un flusso di coscienza inarrestabile e una macchina narrativa che pare alimentarsi dalle ruote dentate di un oscuro ingranaggio psicotico».
Il suo “racconto lungo” prende dunque spunto dalla vera storia del partigiano Giuseppe Bonfatti, cui va l’omaggio del suo libro: perché decidere di farne proprio un romanzo? Cosa le ha consentito di aggiungere e variare la finzione romanzesca e che plusvalore dà l’aggancio storico?
Io scrivo romanzi, non saprei scrivere altro, ed è dunque con questa forma che mi misuro di volta in volta. E d’altro canto i miei romanzi, e molti dei romanzi attuali, mescolano forma narrativa, reportage e ricerca testuale in una commistione che accentua il carattere civile dei testi. O, come dico nella nota dell’autore di Rosso nella notte bianca: «Il romanzo nasce dall’attraversamento dei comuni termini della produzione romanzesca: né romanzo di finzione né romanzo della realtà, ma romanzo testuale nato dalla rielaborazione di vicende narrative descritte da fonti qui elencate».
La storia è raccontata da un narratore esterno che spesso cede la parola ai personaggi i quali, a loro volta, la cedono ad altri, con un effetto quasi di scatole cinesi, una tecnica mista di flusso di coscienza e diretto libero che prevede anche la ripetizione a tratti ossessiva di frasi o spezzoni di frasi: perché ha optato per questa soluzione, che cosa le ha permesso di esprimere meglio?
La forma nasce dalla necessità impellente di non fare un romanzo storico, ovvero di non parlare della Resistenza al passato, ma di collocarla in un tempo sospeso, come è sospeso il tempo della sua rielaborazione. Nel fare un romanzo storico avrei dovuto confrontarmi con l’inevitabile inattualità del racconto resistenziale, inattualità che non hanno i grandi testi della Resistenza. Non mi restava altra possibilità se non quella di raccontarla al presente, cosa che Ulisse riesce a fare dando di volta in volta la parola ai fantasmi presenti nel racconto: il fantasma della madre morta, della sorella morta, dei commilitoni morti.
Nella nota dell’autore di cui ha fatto cenno, davvero utile anche al lettore che volesse approfondire il tema, lei elenca molti autori e testi: romanzieri, storici e saggisti, dai monumenti della letteratura e della storia come Fenoglio e Pavone, al più recente Odissea partigiana di Franzinelli-Graziano. Perché ha avvertito l’esigenza di elencarli?
Una antica e immotivata credenza attribuisce al romanziere la dote rabdomantica di trovare storie scavando dentro se stesso, magari in una notte buia e tempestosa, davanti a una cuccuma di caffè e con una illuminazione soffusa. Ebbene, voglio raccontare la verità ai lettori, non è davvero così. L’autore è un uomo che si informa e progetta il testo attraverso intense ricerche e rielaborazione di opere altrui. Inoltre, dal momento che tengo laboratori per giovani autori, voglio offrire ai ragazzi tutti gli strumenti e aiutarli a vincere il pregiudizio nei confronti della scrittura, in modo che nessuno creda di non avere talento per il semplice fatto di non avere preparato in modo adeguato l’approccio al testo.
Il protagonista del romanzo Ulisse dà all’Italia della “troia” e lei, in un’intervista, svela che si tratta del «troia Italia» del Fortini di Foglio di via, che ricorda anche molto da vicino il Sereni di Saba, quando – vinte dalla DC le elezioni del 1948 – il vecchio poeta triestino esclama: «”Porca – vociferando – porca”. Lo guardava/stupefatta la gente./Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna/che ignara o no a morte ci ha ferito». È vero? L’Italia secondo lei ha tradito la Resistenza? Anche noi italiani abbiamo, come Ulisse, dei conti da chiudere con gli anni della nostra guerra civile?
La Resistenza è stata, con il Risorgimento, l’unica epica nella storia moderna italiana, l’unico movimento, con il Risorgimento, di vittoriosa rivolta. Essere all’altezza della Resistenza avrebbe voluto dire rinunciare per una volta al compromesso al ribasso, puntare a una ricostruzione culturale e politica del Paese oltre che economica, facendo piazza pulita dei legami col fascismo. Per molte ragioni, non ultima quelle legate agli equilibri internazionali, il dopoguerra italiano è stata un’occasione persa. Prodotto concreto della Resistenza è la Costituzione italiana, e credo che per una parte di italiani sia anche questa la motivazione che ha portato a votare No nell’ultimo referendum.
Il suo libro cita in esergo un duro e fondamentale passo da Una questione privata di Fenoglio, quello in cui un vecchio chiede a Milton, che lo promette, di ammazzare tutti i fascisti, di non risparmiarne neanche uno. Se fosse stato lei Milton che cosa avrebbe risposto? Ritiene sia ancora possibile una risposta affermativa non solo a guerra finita, ma dopo che sono trascorsi tanti anni?
La domanda del vecchio a Milton rappresenta per me una parafrasi, la necessità di cambiare le cose, rimetterle a posto, come dice il mio Ulisse nel compiere anche lui per parafrasi l’efferato delitto che ne introduce la vicenda. L’esigenza di vendetta nasce quindi da una sete di giustizia inappagata da parte della plebe prima e del popolo italiano poi, consapevole che senza giustizia non può esserci pace. Non è la violenza la risposta necessaria, corretta, la violenza è semmai la conseguenza del rancore, della rabbia accumulata, non giustificata dunque e tuttavia, purtroppo, naturale.
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
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