Tino Richelmy è stato un poeta, scrittore e traduttore torinese, nato nel 1900 e vissuto a Collegno fino al 1991. Due le raccolte di versi pubblicate: L’arrotino appassionato (1965) e La lettrice di Isasca (1982). Colto e schivo, amante della montagna e delle colline piemontesi, Richelmy scrisse anche racconti e articoli, collaborando sia con riviste, come “Botteghe Oscure” e “Paragone”, che con quotidiani, come “Mondo Nuovo” e “Stampa Sera”.
Amico fraterno di Mario Soldati, lo accompagnò spesso nei suoi viaggi su e giù per l’Italia da cui sarebbero nate le trasmissioni televisive Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini (1956) e Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno (1960), contribuendo alla loro sceneggiatura, cosa che avvenne anche per altri film di Soldati, fra cui Malombra (1942) e Fuga in Francia (1949).
Nel 1918, ormai verso la fine della guerra, Richelmy venne assegnato al Battaglione Pinerolo del III regg.to Alpini, poi fu destinato al Deposito nel 54° regg.to Fanteria come sottotenente. Durante il secondo conflitto mondiale, invece, Richelmy fu richiamato come ufficiale col compito di sorvegliare i prigionieri alleati detenuti nel campo di Salussola-Brianco: dopo l’8 settembre li aiutò a fuggire, procurando loro abiti civili e il necessario a ricongiungersi alle loro formazioni; non prese parte attiva alla Resistenza, ma rifiutò di consegnarsi ai tedeschi, preferendo disertare e darsi alla macchia con la famiglia. I casi della vita fecero sì che divenisse genero di Renzo Balbo, giovanissima staffetta nella zona di Cossano Belbo e cugino di quel Piero Balbo “Poli” comandante della 2^ Divisione Langhe, reso immortale col nome di “Nord” dalla penna di Fenoglio.
La Resistenza fu cara a Richelmy: ce lo racconta nella terza pagina di “Mondo Nuovo” (il quotidiano del partito socialista dei lavoratori italiani, diretto dall’amico Corrado Bonfantini), in uno dei rari pezzi in cui tocca l’attualità politica, giudicandola senza sfumature. Era il 25 aprile 1947.
“Non cederemo alla illusione degli anniversari se non in quanto con le luci e con i canti d’aprile torna anche il pensiero di quegli ultimi giorni di un altro aprile, quali ognuno in quelle ansie, in quei silenzi fra il crepitio dei mitra ha almeno congiunti alla felicità d’una sensazione istantanea e perfetta: forse un’azzurrità sorpresa tra le nuvole, o il grido ilare delle rondini, forse l’arrivar del vento, o un profumo di fiori e la donna che li gettò a chi passava; forse l’espressione improvvisamente compiuta, definitiva come per morte, del viso fanciullesco e vittorioso d’un partigiano in corsa.
Adesso, ovunque sia un gruppo di case, in città e in campagna, qua e là sui nostri vecchi muri, sono incisi dei nomi nei marmi che la memoria e il decoro civico hanno infissi.
Alcuni che lenti passano guardando, chiamarono a lungo quei nomi di giovani e li hanno ancora e li avranno in sé, vite e affetti precisi, spariti. Il compianto è uguale tanto nello scriverne pensatamente quanto nel lamentarne, come in voce rotta di donna, la scomparsa; non tornano, non tornano. A tôrnô pì nen.
V’era fra loro chi nell’autunno ’43, sciolto dalle guise e dagli inganni di ciò che fingeva una patria, scampando nella propria casa vi aveva capito la patria e passando poi alla montagna o alle Langhe aveva ripreso il sentimento e la difesa primordiale del luogo natio e della sua santità.
Gruppi perseguitati e stanchi nell’inverno ’44, quando le imprese erano assurde, con armi improvvisate: i fucili nelle braccia ancora inesperte di crudezza dei partigiani primi parevano archibugi per la ripresa dei vecchi film su un bonario brigantaggio. Molti morivano.
Era con loro chi sapeva la gentilezza triste degli studi e avrebbe potuto commemorare con l’antico pianto degli elini greci(1) o delle lamentazioni i cari compagni uccisi. V’erano anche giovanotti dei campi e delle officine, già da anni costretti adoperar le persone stesse nel lavoro, generosi sempre nell’uso del proprio vigore; v’erano ragazze con la bellezza limpida dell’ardimento e preti che benedissero il coraggio; tutti ormai fratelli nel consumare in un’ultima virtù la vita.
Alcuni che hanno tuttora la coscienza fuggiasca non vogliono guardare quei marmi, né sapere quei nomi; altri i quali pur godono con dolcezza usurpata presso l’afrore delle proprie cucine la pace bruta che invocavano, negano adesso il sacrifizio e la vittoria di chi parteggiò, per la terra e per le cose comuni. Se osserviamo la pochezza del loro spirito, non so se il riso o la pietà prevale. E se non parteciparono nemmeno col cuore a quel tempo e non sentirono – né anche da serpi – quei moti, quei trasporti di violenta gioia, come non compassionarli?
I marmi che nei riflessi variati della luce paiono talvolta glauchi e sparenti come acqua di torrente lontano, potranno anche essere consunti lasciando che i nomi, pari a quello di Keats scritto nell’acqua, si uniscano al tempo fuggitivo. Non è la declamazione che li mantiene vivi, ma l’affetto che per loro e per il loro aprile sentiamo o non sentiamo e che ci divide per sempre in due schiere.
Né ci succeda intanto di dimenticare i sopravvissuti, quelli che testimoniano la nostra felicità d’allora. Nino(2) che fu al campo d’Aeronautica nei giorni della liberazione e quando accorremmo all’atterraggio quasi meteorico dei primi inglesi, inserendosi nell’estremo del sogno e dell’attesa di cinque anni, ci diede le lacrime felici d’una realtà non gratuita ma conquistata. Corrado (3), che, voce del giovane ’45 ci richiamò la voce dei vent’anni prima, gridando la vittoria delle Matteotti da Radio Milano libera; l’ignoto partigiano che in una di quelle notti superò l’ultimo bivacco dei tedeschi per gridarci «Turin a bôgia» (4) e tanti altri, allora pazienti del sacrifizio lungo e adesso semplici e forti, i quali assolvono ancora l’inutilità degli ultimi conquistadores di bracciali (5), che ormai compaiono in grottesca solennità, a guisa di leon quando si posa.
Torino tuttavia è vivida, degna ancora del dono di libertà che i partigiani e gli operai (6) le hanno dato. Nelle aspre stagioni prima del ’45 quando i ragazzi alla macchia, nomadi, proclamati ribelli e banditi, combattevano strenui alla difesa di tutti, quelli che avevano nome di re o di principe, ecc., stettero lontani, assenti dai pericoli e dai miraggi della libertà. Per merito di tutta una gente diventata partigiana quelli sono assenti anche adesso alle nostre terre e città e dai nostri cuori. Un negozio con mescita sotto i portici di corso Vittorio, frequentatissimo, ha ancora la insegna di «Provveditore del Duca, ecc.», ma provvede soltanto il popolo, non astratto, dei discorsi, ma concreto, la popolazione che lavora e in sé gode e soffre che tutti comprende e in cui siamo compresi”.
(1) Elini, probabile refuso per “elimi”: antica popolazione dell’estremità occidentale della Sicilia. Un filone della tradizione li considerava profughi da Troia, a questa si riconduce forse Richelmy immaginandone il pianto per patria distrutta.
(2) Renzo Balbo afferma che si tratta di Antonio-Nino Giachino (fratello dello studioso e traduttore Enzo), ufficiale d’aeronautica che il 27 o 28 aprile atterrò con un caccia da ricognizione alleato presso il campo volo allora denominato Aeritalia e situato tra Torino e Collegno, a poche centinaia di metri dalla casa dei Richelmy; Tino, osservatone l’atterraggio, si recò immediatamente sul posto e vi trovò Nino, poi divenuto Generale direttore dell’Accademia aeronautica di Nisida (dal 16-11-1956 al 14-11-1959).
(3) Corrado Bonfantini, membro del Comitato esecutivo per l’Alta Italia del partito socialista. Durante l’insurrezione di Milano, al comando delle brigate “Matteotti”, fu il primo ad annunciare dalla stazione radio di Porta Vigentina, occupata dai partigiani il 26 aprile, la liberazione del capoluogo lombardo.
(4) “Torino si muove” è il segnale che l’insurrezione, il 27 aprile, è finalmente iniziata dopo un intero giorno d’attesa trascorso a Beninasco dalle formazioni partigiane, ormai pronte ad entrare in azione ma rallentate dai contrasti tra il CLN e il colonnello Stevens, rappresentante degli alleati in Piemonte (che arriveranno il 1° maggio).
(5) Si tratta di bracciali in tessuto (potevano partire dalla spalla e arrivare al gomito) che solitamente la polizia militare alleata, alla quale potevano essere aggregati anche dei partigiani, indossava come distintivi del servizio d’ordine svolto nelle città liberate. Richelmy qui denuncia coloro che, a guerra vinta, corrono ad accaparrarsi riconoscimenti e ruoli non meritati.
(6) La liberazione di Torino e dei paesi limitrofi inizia precocemente con l’occupazione delle fabbriche, alle cui formazioni operaie interne si ricongiungono successivamente le brigate partigiane scese dalle montagne e dalle Langhe. Si pensi allo sciopero generale di Chieri, il 18 aprile 1945, in appoggio al quale il comandante Pompeo Colajanni “Barbato” decise di intervenire liberando la città dai nazifascisti.
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
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