Caracas, luglio ’55
Carissimo Luigi,
(…) Eccomi a dirti ciò che è stato dopo che ho lasciato l’Italia e le cose più care. Sensazioni e sofferenze indicibili nel lasciare la terra, una parte di me è rimasta là su quella linea che divide il mare dalle cose vissute. E poi otto lunghi giorni di oceano, acqua e cielo divisi da un cerchio continuo. Cattivo mare, qualche volta alleviato da tramonti intensi come esplosioni e piogge di soli sull’acqua. (…) Quello che sto facendo è per accelerare il più possibile il tempo per giungere a quel limite sospirato che sarà il principio per me di una vita felice. Sergio
Dai tempi dell’Unità d’Italia una moltitudine di italiani ha lasciato la penisola. Molti di loro, poi, hanno scelto di stabilire definitivamente la propria residenza all’estero. Dal 1861 alla metà degli anni Settanta del Novecento, anni in cui si registra il più colossale boom delle partenze, il numero degli italiani salpati per una nuova meta sale a quasi trenta milioni. Trenta milioni di persone sono un intero popolo. Un popolo costretto all’esodo. Motivo principale: la ricerca di un’occupazione migliore. Ma anche un posto di lavoro qualsiasi, che assicuri una vita dignitosa.
“L’emigrazione è una sorta di nuova nascita – scrivono Antonio Virgilio Savona e Michele Straniero in Canti dell’emigrazione –, ma negativa, involontaria, alienante, nella quale il mondo che si lascia è quello amato, mentre quello in cui si entra rende estranei e diversi”. Perché l’emigrante abbandona il proprio ambiente non certo per spirito di avventura. È per estrema necessità che lo fa. Una necessità che lo costringe a lasciare famiglia, affetti, nella incerta speranza di ricongiungersi a loro o comunque di rivederli il prima possibile.
L’Italia di quegli anni ha ben poco da offrire.
“Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, e anche nelle pianure, specialmente dell’Italia Meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell’Alta Italia, sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano forse a centinaia di migliaia”. L’Inchiesta Jacini sulla condizione del mondo agrario promossa dal ministro dei Lavori Pubblici Stefano Jacini, a partire dal 1880, fotografa la situazione di un’Italia medioevale, arretrata rispetto al resto del mondo, moderno e lanciatissimo verso il progresso.
Impossibile restare in un’Italia ancora così sottosviluppata, infettata dal colera, il “male blu” che ancora colpisce giovani e vecchi, a varie ondate negli anni Ottanta dell’Ottocento.
Occorre andarsene alla svelta, per garantirsi una sopravvivenza, una possibilità di vita. Così, si parte alla volta del Canada, degli Stati Uniti, dell’Argentina, del Brasile, della Francia, del Belgio, della Svizzera.
Tante canzoni raccontano questa dolorosa condizione di straniamento, lo sradicamento forzato che rende stranieri gli emigranti che affrontano la nuova realtà. Canzoni che rispecchiano gli atteggiamenti, i sentimenti, le manifestazioni della cultura popolare sull’emigrazione, percepita sia come maledizione della sorte e come flagello, che come inizio speranzoso di un avvenire proficuo.
Il repertorio dei canti friulani, veneti, trentini, lombardi, piemontesi, napoletani, siciliani rappresenta un bagaglio ricchissimo di espressione della cultura orale propria delle popolazioni migranti. Le tematiche ricorrenti rievocano i grandi momenti che hanno caratterizzato la vicenda migratoria italiana, anche quella più antica.
Diversi, per esempio, testimoniano le prime emigrazioni interne al Paese, quelle verso le Maremme: canti che documentano i flussi migratori nella Maremma toscana, in quella romana, in Campania e nel Tavoliere delle Puglie a partire dal Cinquecento e fino al Settecento quando, in molte regioni italiane, la crisi agraria e sociale influenza e determina le migrazioni. Proprio in quelle zone in cui lo Stato organizza e agevola la transumanza, così redditizia per le sue casse, si registrano i più forti abbandoni di territori: “Nelle terre che venivano pressoché invase dal bestiame durante la stagione invernale – scrivono Savona e Straniero – la manodopera agricola diminuiva d’intensità, la malaria avanzava man mano che le terre venivano abbandonate, le condizioni ambientali peggioravano proporzionalmente all’afflusso delle greggi e il declino dell’agricoltura incalzava”. Così le canzoni documentano la vita di stenti, di miseria e carestia che i pastori affrontano quando emigrano stagionalmente scendendo dalle zone montane per affittare i pascoli invernali.
Tra i numerosi canti ci sono:
“Giunto che fui ’n Maremma”: Giunto che fui ’n Maremma, al mio destino/presto detti principio a lavorare;
“Me vo’ partì de qui”: Me vo’ partì de qui, vo’ gi’n Maremma/ per fa’ contenta la ragazza mia;
“Partenza e vita dei Maremmani”: Un saluto mi parte dal mio cuore/ per voi, o gioventù sacrificata/ che andate là nel mezzo dello squallore/ in dove ne passate l’invernata/ e versate par forza quel sudore:/ ditemi che vitaccia strapazzata/ e poi di più dopo aver lavorato/ il vostro sudor non è ricompensato.
E poi c’è il canto toscano “Tutti mi dicon Maremma”: Tutti mi dicon Maremma, Maremma, / e a me mi pare una Maremma amara. L’uccello che ci va, perde la penna;/io ci ho perduto una persona cara.
La versione di Caterina Bueno è tratta da Bella ciao, spettacolo presentato al VII Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1964.
Stesso tema compare nel canto valdostano “Les montagnards”: Lascia le tue montagne/ mi disse uno straniero/ seguimi nelle mie campagne/ vieni, non fare più il pastore./ Mai mai questa follia/Io sono felice di questa vita!
Questa la versione del cantante francese André Dassary
Successivamente tra le rotte più battute dai migranti ci sono quelle verso la Germania, l’Austria, la Francia e la Svizzera, alla ricerca di lavori stagionali. Tanta, laggiù, la richiesta di muratori e boscaioli. E nonostante quei mestieri non avrebbero cambiato le sorti di poveri contadini e valligiani, almeno c’era la speranza della sopravvivenza per qualche tempo. Molte testimonianze di queste realtà giungono da Veneto, Friuli e Piemonte.
Andiamo in Transilvania – dice un canto trevigiano – a menar la carioleta/ che l’Italia povereta/ no’ l’ha bezzi da pagar (soldi per pagare).
Chissà il mio amore dov’è – si canta in friulano – dove va/ È in Germania / a fare scodelle/ a fare piatti/ a fare mattoni/ è in Germania a lavorare.
Poi prende il sopravvento il viaggio per le Americhe, meta di milioni di proletari attratti dalle possibilità che offre quel Paese: il sogno di ricominciare da capo una vita dignitosa nel luogo delle mille possibilità. A volte si parte con in cuore la nostalgia e la voglia di tornare presto: soldi in tasca e matrimonio con l’amata. In altre predomina la rabbia verso l’Italia che nulla offre a poveri contadini stanchi di lavorare giusto per un pezzo di pane.
Quaranta ghéi d’inverno è proprio un lamento amaro sulla condizione dei poveri contadini costretti a partire: Quaranta ghèi d’inverno, cinquanta d’està/ se ghé ie dassen sti pover paisan/ nanca farien una pell de pan […] I pòer paisan intanta in là a spettà/ la lettera dell’America che la dev rivà.
America America – dice, invece, un canto veneto – si campa a meraviglia/ andiamo nel Brasile/ con tutta la famiglia. / America America/ si sente a cantare/ andiamo nel Brasile/ Brasile a popolare.
Quando saremo in Merica – dice un canto trentino – la terra ritrovata/ noi ghe darem la zapa/ noi ghe darem la zapa/ Quando saremo in Merica/ la terra ritrovata/ noi ghe darem la zapa/ ai siori del Trentin.
I siori porta sassi – dice un altro – le siore porta malta/ chi vol andare in Merica/ che là si starà ben.
Prendi quel sasso – dice un canto mantovano – butta quel pan/paga la macina/ porco villan. /Su bravi, o signorini/buttate gli ombrellini/gettate i vostri guanti/lavoratevi i campi/noi andiamo in America!
No sta piandar Catineta – si canta a Vicenza – se in America ho d’andar:/ che se po la me va dreta/ se se poderem sposar.
Nella Brianza lombarda, si canta a squarciagola Ciapa la rocca e ’l fus, che tradotto suonerebbe: Prendi la rocca e il fuso/ che andiamo in California,/ andremo in California/ in California a tappare i buchi!/ Quando avremo tappato i buchi/ I buchi in California/ Lasceremo la California/ Torneremo con rocca e fuso.
Anche il canto trentino Quando l’alber comincia a fiorire racconta dell’amato che parte per l’America e lascia lei a struggersi di gelosia e patimento: Quando sarai via nell’America/ tu sposerai una americana/ non penserai più di me italiana/non penserai più di me italiana […] E maledetta ne sia la macchina/ il macchinista e la ferrovia/che m’ha rubato l’amante mio.
Ma tra le canzoni le più note spicca certamente Mamma mia dammi cento lire, ballata popolare che narra le vicissitudini di una giovane emigrante. Ve ne sono tantissime versioni di cui l’originale risale alla seconda metà dell’Ottocento. La storia che vi si racconta, però, inizialmente non ha nulla a che vedere con l’emigrazione. Si tratta di una ragazza che, per amore, si allontana da casa in groppa a un cavallo e, inseguita dalle maledizioni della madre indignata, muore poi miseramente. La canzone, infatti, era nota con titoli come Maledizione della madre, La maledetta, La figlia disobbediente. Solo in secondo tempo, alla linea melodica originale è stato aggiunto il nuovo testo che racconta il fenomeno migratorio e ne svela il lato più amaro: il sogno di una nuova vita si tramuta preso nell’incontro con la morte in alto mare: Pena giunti in alto mare/ bastimento si ribaltò!
Di questo, a sua volta, esistono diverse versioni: Cara mamma voglio partire, Osteria della Rosa Bianca, A Turin a la Rosa Bianca. Canzone popolarissima, la cantano davvero in tanti:
Gigliola Cinquetti
https://www.youtube.com/watch?v=-WAaAwu8IS0
il Quartetto Cetra
Le Mondine
Orietta Berti
i cileni Quilapayún
Sandra Mantovani ne fa una versione folk.
La cantano perfino Arisa e Max Pezzali in duetto al Festival di Sanremo del 2011.
Per l’America si parte anche in Italia bella mostrati gentile, stornello polemico raccolto a Porciano, comune di Stia in provincia di Arezzo, dove l’emigrazione verso le Americhe è notevolissima nella fine Ottocento e nel primo Novecento: Il secolo presente qui ci lascia/ il millenovecento si avvicina. /La fame ci han dipinta sulla faccia/ e per guarirla ’un c’è la medicina./ Ogni po’ noi si sente dire: io vo/ la dov’è la raccolta del caffè.
Caterina Bueno interpreta lo stornello nello spettacolo Ci ragiono e canto curato da Cesare Bermani e Franco Coggiola, regia di Dario Fo.
In America ci si arriva dopo lungo viaggio, e di viaggi le canzoni ne raccontano parecchi: viaggi per mare, viaggi in nave a vapore, viaggi a dormire in terra, di tutto pur di arrivare: Trenta giorni di nave a vapore/ fino in Merica ghe semo arivati/ fino in Merica ghe semo arivati/ no abbiam trovato né paglia né fieno/ abbiam dormito sul duro terreno/ come le bestie che va a riposà.
E se ci si arriva, vero è che dalle Americhe anche si torna per rivedere l’Italia: terra nostra d’amor!/ Squilla dalla riva al vapore/ il gran grido del cuore: Patria e mammà!
Il fox-trot della nostalgia, canzone apparsa negli anni Venti, fu un grandissimo successo: un tentativo di accostare la canzone italiana commerciale alla realtà sociale del Paese. Una canzone autoriale scritta per raccontare gli emigranti e i loro stati d’animo.
La canta a piena voce Claudio Villa.
In molti canti, naturalmente, compare il tema dell’addio, il saluto alla terra che si abbandona e ai cari che restano ad attendere un ritorno. Ma anche quello del viaggio con le sue peripezie, i pericoli, i rischi. L’impatto con il nuovo ambiente, la nostalgia dei luoghi lontani e degli affetti. Tematica, quest’ultima, che si presenta secondo diverse sfaccettature a seconda delle regioni degli emigranti: “Mentre gli emigranti del settentrione – scrivono Savona e Straniero – celebrano con maggiore attenzione le peripezie di viaggio, quelli meridionali preferiscono attardarsi nella rievocazione nostalgica, secondo una logica che pare attagliarsi abbastanza ovviamente alle differenze di carattere e di cultura tra i due gruppi, genericamente considerate”.
Il repertorio classico napoletano, per esempio, esprime fortemente il tema della nostalgia: centro ideale di questa amorosa contemplazione è Napoli, come luogo della famiglia e della memoria, come materno rifugio.
Addio mia bella Napoli, è tra i brani più noti. Testo e musica di Teodoro Cottrau, qui è cantato dalla grande voce di Enrico Caruso.
Come anche Santa Lucia luntana, testo e musica di E.A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, tra i massimi esponenti della canzone napoletana del primo Novecento. L’autore lo scrive subito dopo la prima guerra mondiale, nel 1919, quando il flusso migratorio intercontinentale raggiunge punte elevatissime. Esprime la sofferenza degli emigranti quando si allontanavano dalla terraferma, fissando il pittoresco panorama del borgo di Santa Lucia, ultimo scorcio della loro terra che riescono a vedere all’orizzonte, sempre più piccolo, prima di salpare dal porto di Napoli, quasi sempre in direzione delle Americhe.
Partono i bastimenti/per terre assai lontane/. Cantano a bordo: sono napoletani. / Cantano mentre/ il golfo già scompare/ e la luna in mezzo al mare/ un poco di Napoli gli fa vedere. […] Quanti ricordi, ahimè / quanti ricordi!/ E il cuore non lo sani/ nemmeno con le canzoni: /sente voci e suoni/ si mette a piangere che vuole tornare.
La cantano le più belle voci popolari e del belcanto italiano: Massimo Ranieri
Andrea Bocelli
Roberto Murolo
Claudio Villa
Perfino la cantante israeliana Noa ne interpreta una struggente versione.
Ma straordinaria resta quella di Giuni Russo nell’album Napoli che canta.
Tra le canzoni autoriali, sempre dedicate a Napoli, spicca Vurria, testo di Antonio Pugliese, musica di Furio Réndine.
Vincitrice del sesto Festival della Canzone Napoletana nel 1958, racconta lo struggimento e la malinconia dell’emigrato per il suo paese lontano. Le fonti di ispirazione sono spesso le stesse: la mamma, l’innamorata, la speranza del ritorno, il desiderio di rivedere il mare, il sole e il cielo di Napoli, il ricordo dei luoghi familiari. Questa, tra tutte, è diventata un classico della canzone napoletana, nota anche all’estero.
Infatti, la cantano le voci internazionali di Giuseppe di Stefano
e di Mario del Monaco
https://www.youtube.com/watch?v=4SQWIPeLpq4
Poi c’è Torino, altra città da cui si parte: Ciao Turin, in dialetto torinese, scritta negli anni Quaranta dal maestro Carlo Prato, allora istruttore della scuola di canto dell’E.I.A.R., su testo di Lampo, pseudonimo dell’attore piemontese Lampugnani. Vince il primo premio al primo festival di Nizza.
Questa la versione cantata da Tino Vailati
e quella in italiano:
Ciao Turin… io vado via/ vo lontano a lavorar/ io non so che cosa sia/ ma il mio cuor sento tremar…/ Ciao Turin che nostalgia/ che sia vero non mi par/ cara e bella città mia/ il doverti salutar.
E Firenze, naturalmente: Un bacione a Firenze, testo e musica di Odoardo Spadaro:
La porti un bacione a Firenze/ che l’è la mia città/ ma in cuor l’ho sempre qui/ la porti un bacione a Firenze/ io vivo sol per rivederla un dì. / Son figlia d’emigrante/ per questo son distante/ lavoro perché un giorno a casa tornerò./ La porti un bacione a Firenze, se la rivedo glielo renderò.
La canta anche Nada.
Si parte, si fanno lunghi viaggi carichi di aspettative, ma poi, quando si arriva, la realtà, il più delle volte, non è quella sognata. Numerosi sono i canti che riportano fatti tragici: gli incidenti durante le traversate, le morti sul lavoro, le morti ingiuste dei tanti italiani sfruttati e incolpati di reati mai commessi.
Canto per quei linciati/ che laboriosi, onesti/ perché italian nomati/ non fu pietà per questi;/ In tanta strage, perfidia, orror!/ Uccisi, appesi quai malfattor/ […] American Governo / Perché pietà non porti?/ Così nel canto, eterno /V’è ’l grido di quei morti./ Dalle innocenti famiglie lor/ soccorri e vendica l’orbato onor.
Corso Antonio, ex-sottufficiale di finanza firma questo testo che racconta lo sgomento per il linciaggio di cinque italiani avvenuto nel 1899 a Tallulah, nel Mississippi. Diversi emigrati italiani, appartenenti alla mafia, in quegli anni furono protagonisti di violenze. I cinque di Tellulah avevano subito un regolare processo ed erano stati assolti. Ma la popolazione di New Orleans accolse con ostilità quella sentenza, assaltò le carceri e impiccò i prigionieri. L’italiano, mafioso, era una minaccia ai valori americani, di libertà e democrazia, tanto da generare un’esplosione di risentimento contro l’Italia e i sui cittadini, discendenti di banditi e assassini.
“Se ci mettiamo a osservare l’Italia – scrive il New York Times –, scopriamo uno stato di cose davanti al quale i nostri racket, le tangenti e gli affari sporchi impallidiscono per un’evidente inferiorità di scelleratezza. Nella misura in cui l’italiano è più pigro, più pettegolo e più adatto agli intrighi rispetto all’americano, è anche più che un artista a gestire le cose”. (“Una naturale tendenza alla criminalità”, New York Times, Usa, 16 aprile 1876). E da quel gestire le cose si deduce sia niente di buono.
Del resto “Il racket, – scrive il New York World-Telegram – originariamente conosciuto come denaro sporco, non è una caratteristica americana ma è importato dalla Sicilia e da Napoli e l’attuale governo italiano fu fondato su questo terrorismo e oggi costituisce un racket o una mafia di stato”. (New York World-Telegram, Usa, 4 giugno 1940).
L’italiano, in “Merica”, non ha per niente una buona fama. Occorrerà tempo e fatica ai nostri emigranti per levarsi di dosso la nomea del criminale e mafioso.
Se ci sono quelli che muoiono ammazzati ce ne sono anche tanti altri che perdono la vita prima ancora di arrivarci in “Merica”. Il tragico affondamento del bastimento “Sirio” racconta con un fatto di cronaca avvenuto in mare, la morte che sopraggiunge nel momento della speranza, per chi è alla ricerca di un nuovo destino.
Nella versione da Bella ciao, lo spettacolo allestito a cura di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, la canta Michele Luciano Straniero.
Stessa testimonianza si trova in E da Genova il “Sirio” partiva:
Il 4 agosto alle cinque di sera/ nessun sapeva il suo rio destin/, urtò il Sirio un orribile scoglio/ di tanta gente la misera fin […] Ci fu pure un vapore stranier/ che da lungi vide il Sirio perir/ con destrezza di ver marinaio/ i naufraghi dell’acqua levar.
Era il 1906, il transatlantico, partito da Genova per il Sud America, a causa dell’urto con uno scoglio, affondava. Numero delle vittime: 350.
Come del resto, era affondata anche la nave Utopia che il 7 marzo del 1891 salpava da Trieste alla volta di New York. Giunta nella baia di Gibilterra per la poca visibilità data da una tempesta si scontrava con la corazzata inglese Anson. E fu il disastro: “Quando la prua dell’Utopia iniziò ad affondare – racconta lo Scientific American Supplement – le persone a bordo del vascello si precipitarono in avanti, lottando gli uni contro gli altri nel disperato tentativo di guadagnarsi la salvezza raggiungendo il sartiame. Venti minuti più tardi, il castello di prua scomparve sotto la superficie delle acque, portando con sé tutti gli sventurati”. Numero delle vittime: 576 annegati. [Cfr., Gian Antonio Stella, Odissee, p. 84]
Ma era carico di italiani anche l’Ortigia che, il 24 novembre 1880, davanti alle coste argentine de la Plata, cozzò con il mercantile Oncle Joseph: 149 morti. E poi il Sudamerica, che si inabissò nelle stesse acque nel gennaio 1888 con un carico di 80 anime. Poi fu la volta del piroscafo francese Bourogne che naufragò il 4 luglio 1898 al largo della Scozia: 549 morti, tutti emigranti. Infine il Titanic che la notte fra il 14 e il 15 aprile 1912 diretto in America sbatté contro un iceberg: 1.523 morti.
Il viaggio verso la nuova vita, di vite ne ha rubate parecchie.
Altra tragedia è quella del Mattmark. Il testo di questa ballata, La tragedia del Mattmark, scritto da Adriano Callegari, rievoca il drammatico episodio accaduto in Svizzera il 30 agosto 1965, quando persero la vita ottantotto operai, tra cui cinquantasei italiani impegnati nella costruzione della diga del lago Mattmark, travolti dalla valanga del ghiacciaio dell’Allalin. Il brano è stato raccolto da Roberto Leydi a Pavia da un gruppo di cantastorie locali.
Lu trenu di lu soli, testo di Ignazio Buttitta, musica di Otello Profazio, racconta, invece, del disastro nella miniera di Marcinelle, l’8 agosto 1956.
“Ultime notizie della notte – un commento radiofonico interrompe la melodia del brano –. Una grave sciagura si è verificata in Belgio, nel distretto minerario di Charleroi. Per cause non ancora note una esplosione ha sconvolto uno dei livelli della miniera di Marcinelle. Il numero delle vittime è assai elevato”. E poi aggiunge: “I primi cadaveri riportati alla superficie dalle squadre di soccorso appartengono a nostri connazionali emigrati dalla Sicilia”.
Rosa Scordu, moglie di Salvatore Scordu, così apprende della morte del marito. Lei, con i figli e con il cuore addolorato sta lasciando Mazzarino per ricongiungersi con il marito minatore. Un viaggio in treno che “Ogni tanto si fermava/ e salivano emigranti/con i visi macilenti/senza carne come i santi”. Poi, nella notte, la radio che annuncia la tragedia, Rosa che si dispera tra gli emigranti che non sanno cosa fare, come affogati fra le onde di quel mare senza pesci: il treno che corre in una notte lunga e scura.
Solo pianti e desiderio di morire.
Qui la versione cantata da Profazio.
Lacreme ’e cundannate è una canzone composta da emigrati campani durante il processo a Sacco e Vanzetti a Norfolk in America.
Il 5 maggio 1920 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, calzolaio e pescivendolo, emigrati italiani negli Stati Uniti d’America, anarchici, vengono arrestati nel Massachussetts. Il 31 maggio del 1921 inizia il processo alla Corte d’Assise di Deham nella Contea si Norfolk: Sacco e Vanzetti sono imputati di rapina a mano armata e di duplice omicidio, mentre di dichiarano innocenti. Il processo durerà sei anni, durante i quali si avranno in tutto il mondo grandi dimostrazioni popolari in difesa dei due italiani: artisti e intellettuali si mobilitano per fermare la sentenza di morte emessa dal tribunale.
Nell’ottobre del 1921 anche in Italia comincia, per iniziativa degli anarchici, l’agitazione a difesa di Sacco e Vanzetti. A nulla valgono gli sforzi della difesa per smontare il fragile castello accusatorio: Sacco e Vanzetti, il 9 aprile del 1927, vengono condannati a morte, a seguito della sentenza del giudice Thyler. Malgrado il regime fascista, in Italia continuano le proteste. Ma a nulla valgono. E benché durante il processo nessuna prova sia emersa a carico dei due, Sacco e Vanzetti vengono giustiziati a Charleston nel Massachussetts mediante sedia elettrica il 23 agosto 1927. “Se non fosse stato per queste cose – disse prima di morire Vanzetti – io avrei vissuto la mia vita là fuori, parlando agli angoli delle strade con degli uomini disprezzati. Io sarei morto trascurato, sconosciuto, un fallimento. Ora noi non siamo un fallimento. Questa è la nostra carriera e il nostro trionfo. Mai nella nostra intera vita avremmo mai potuto sperare di compiere un tale lavoro in favore alla Tolleranza, alla Giustizia, alla Comprensione che ha un Uomo di un altro Uomo come ora noi facciamo per caso. Le nostre Parole – le nostre Vite – le nostre Pene – non hanno fatto niente. La presa delle nostre Vite – vite di un buon calzolaio e di un povero pescivendolo – ha fatto tutto! Questo ultimo momento appartiene a noi – questa Agonia è il nostro Trionfo!” (Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, The Letters of Sacco and Vanzetti, London, Penguin, 2007, p. I).
https://www.youtube.com/watch?v=thdHgBmY6Wg
Dal film “Sacco e Vanzetti”, regia di Giuliano Montaldo, con Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, Rosanna Fratello, Sergio Fantoni, Italia, 1971
La eco di questa storia non ha mai smesso di ispirare musicisti, scrittori, registi che ne hanno tratto film, libri, canzoni. Tra tutte resta Here’s to you Nicola and Bart, scritta e interpretata da Joan Baez con musica di Ennio Morricone, colonna sonora del film di Giuliano Montaldo, Sacco e Vanzetti (1971): Here’s to you Nicola and Bart/Rest forever here in our hearts/The last and final moment is yours/ That agony is your triumph!
Il caso si inseriva in pieno nel clima di repressione dell’America di quel primo ventennio. La rapida politicizzazione a sinistra (anarchici e socialisti) e la sindacalizzazione di larghe masse di lavoratori di recente immigrazione, unitamente allo spauracchio della rivoluzione bolscevica, avevano spaventato la borghesia americana e ingenerato nei ceti ricchi della società la psicosi di imminenti rivolgimenti sociali. Sacco e Vanzetti furono le vittime di questa isteria collettiva che si era impossessata dell’opinione pubblica conservatrice e delle istituzioni giudiziarie. Per quanto l’innocenza dei due risultò presto evidente, l’America razzista e reazionaria li volle morti in quanto italiani e anarchici: la condanna di Sacco e Vanzetti non fu un errore giudiziario, ma un omicidio legale lucidamente e consapevolmente perpetrato: “Il delitto più atroce compiuto in questo secolo dalla giustizia umana”, disse Franklin Delano Roosevelt.
La versione di Daniele Sepe.
La versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare.
La versione pop-rock di Les Anarchistes.
Gli emigranti italiani, è chiaro, non godevano di buona fama, anzi. Un articolo del New York Times, datato 15 maggio 1909 così li descrive: “Si suppone che l’italiano sia un grande criminale. È un grande criminale. L’Italia è la prima in Europa con i suoi crimini violenti. […] Il criminale italiano è una persona tesa, eccitabile, è di temperamento agitato quando è sobrio e ubriaco e furioso dopo un paio di bicchieri. Quando è ubriaco arriva lo stiletto. […] Di regola, i criminali italiani non sono ladri o rapinatori – sono accoltellatori e assassini”. (New York Times, Usa, 14 maggio 1909).
Un altro articolo del 1872 li menziona come i peggiori rifiuti d’Europa: “Alcuni uomini della Società Italiana – si dice – dichiarano che le persone che arrivano in America appartengono alla classe più pericolosa d’Europa; sono carbonari e banditi e non aspettano altro che la più piccola provocazione per manifestare il proprio carattere; così New York diventerà una colonia penale per i rifiuti dell’Italia” (“Gli immigrati italiani: una classe pericolosa”, New Harald, Usa, 12 dicembre 1872).
Altri li descrivono come “pigri, venali e camorristi” o “detentori del record di criminalità”, “corruttori di giudici e politici”, “mendicanti per professione e per piacere”, “felici di sguazzare nella spazzatura” e l’elenco potrebbe continuare, senza che si riesca a trovare un giudizio positivo sugli italiani che allora emigravano, soprattutto in America.
Ma alla fine, invece, questi italiani ce l’hanno fatta. Noi ce l’abbiamo fatta. “Inondando il mondo di arrotini della Val Rendena e contadini delle Murge – scrive Gian Antonio Stella in Odisee –, pescatori delle Eolie, balie della Romagna e spazzacamini della Val Vigezzo, stradini friulani e minatori abruzzesi. Sopravvivendo a mille stereotipi insultanti. […] Piangendo con dignità i nostri morti […]. Facendoci forza anche dopo stragi immeritate e infami”. Gli italiani ce l’hanno fatta. A guadagnarsi giorno per giorno stima e riconoscenza, a riappropriarsi con orgoglio di storie autentiche di miseria e disperazione: le avventure, terrificanti, disgraziate ed epiche che hanno condotto uomini e donne a solcare mari e oceani, con in tasca il sogno onesto di una vita migliore.
Ce l’hanno fatta anche cantandole queste tragedie e queste storie a volte vincenti, a volte disastrose. Un grande atlante sonoro, fatto di musiche e parole invece che di cartine geografiche. Un atlante che racconta di loro, di come erano e di come sono cambiati. Che ci aiuta a guardare al presente, ai migranti di oggi, con i loro viaggi rocamboleschi, le loro speranze, le identiche morti tra le onde di mari e oceani, da sempre tombe di tanti sogni.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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