“Non è per via della gloria che siamo andati in montagna a fare la guerra. Di guerra eravamo stanchi, di patria anche.
Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza.
Per questo abbiamo sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravamo persone, e loro marionette”.
Nino Pedretti

Nella foto (penultimo a destra) lo scrittore Massimo Carlotto. Alla sua sinistra Paolo Enrico Archetti Maestri, leader degli Yo Yo Mundi. Maurizio Camardi è il primo a sinistra

Anche da queste parole del poeta di Santarcangelo di Romagna hanno preso forma uno spettacolo teatrale e un album, dal titolo Partigiani Sempre!, edito da Nota, con le musiche e i testi di Yo Yo Mundi insieme a Maurizio Camardi e la scrittura drammaturgica di Massimo Carlotto. Il titolo prende spunto da altre parole, ma inedite, tratte dagli stornelli di Radio Libertà, emittente clandestina dalla provincia di Biella che fu attiva dall’autunno 1944 all’aprile 1945, gestita da partigiani. Omaggio, dunque a Cantacronache, autori, in particolare Sergio Liberovici per la musica e Franco Antonicelli per il testo, di Festa d’aprile, brano composto nel 1948 proprio a partire dagli stessi stornelli. Un riconoscimento a Cantacronache è del resto quasi obbligato, a loro (Sergio Liberovici, Emilio Jona, Michele L. Straniero, Fausto Amodei, Margot), si deve il recupero, tra i primi, dei canti intonati dai partigiani e la composizione di canti nuovi, a memoria della Resistenza, con l’impegno di riportare in primo piano i valori emersi da quell’esperienza di lotta e di riscatto, proponendoli in un contesto conflittuale come quello che vedeva l’affermarsi di un governo, quello di Fernando Tambroni, nato nel marzo 1960, con l’appoggio esterno del Msi. Formare una coscienza civile, era l’obiettivo, rendere consapevoli le nuove generazioni che gli scontri di piazza del luglio 1960 erano figli della lotta partigiana.

L’album si struttura in un alternarsi di canzoni, musiche e narrazioni, in cui la voce di Carlotto disegna la trama che tiene unite le storie, a cominciare da È sempre 25 aprile.

Così, allo stesso modo di Cantacronache, con l’intenzione di tenere vivi i valori che nacquero in seno alla Resistenza, alla base del progetto Partigiani Sempre! c’è l’idea di ricordare, attraverso canzoni e racconti, alcune delle stragi più feroci della Resistenza, tra cui forse la più devastante. Si tratta della Benedicta, avvenuta il 7 aprile del ’44, presso Capanne di Marcarolo, nel comune di Bosio, Appennino ligure. E con essa celebrare il sacrificio di tanti giovani, senza armi, scarpe rotte e poco altro, che presero la strada dei monti, salirono lassù tra i boschi della Benedicta, dove la nebbia è più fitta – parole della canzone Sai che vai su, tratte dal romanzo Primavera di Bellezza di Beppe Fenoglio – e in tanti ci rimasero.

“Tutto nasce, grazie al nostro legame con l’Associazione Memoria della Benedicta – spiega Paolo Enrico Archetti Maestri, leader di Yo Yo Mundi, in un’intervista rilascia a Patria Indipendente – al fine di dare un risalto più ampio a questa strage così rilevante e tragica, così poco ricordata. La strage della Benedicta è sotto la nostra pelle come lo fu la vicenda della Divisione Acqui”.

Arte e manutenzione della memoria, uno dei disegni di Ivano A. Antonazzo

La citata Associazione Memoria della Benedicta, attraverso la sua pagina informativa online porta a pubblica conoscenza l’entità della perdita: “Il 7 aprile 1944 ingenti forze nazifasciste circondarono la Benedicta e le altre cascine dove erano dislocati i partigiani e colpirono duramente i giovani, spesso impossibilitati a difendersi per la mancanza di un adeguato armamento e di esperienza militare. Il rastrellamento proseguì per tutto il giorno e nella notte successiva. Molti partigiani, sfruttando la conoscenza del territorio, riuscirono a filtrare tra le maglie del rastrellamento, ma per centinaia di loro compagni non ci fu scampo. In diverse fasi i nazifascisti fucilarono 147 partigiani, altri caddero in combattimento; altri partigiani, fatti prigionieri, furono poi fucilati, il 19 maggio, al Passo del Turchino. Altri 400 partigiani furono catturati e avviati alla deportazione (quasi tutti a Mauthausen), ma 200 di loro riuscirono fortunosamente a fuggire, mentre i loro compagni lasciarono la vita nei campi di concentramento.”

Un numero di vittime impressionante, una strage di giovani senza eguali. Una vicenda emblematica che riassume in sé tutto lo strazio e l’insensatezza della guerra.

Tema caro alla band folk-rock di Acqui Terme, da sempre interessata al recupero di storie legate alla lotta partigiana nel loro territorio, con lo scopo di farne memoria, come già fu per i precedenti lavori. Dalla partecipazione all’album Materiale Resistente (1995) con la canzone I banditi della Acqui, brano da cui nascerà uno spettacolo teatrale intitolato Il Bandito della Acqui: memorie di un soldato dimenticato. Poi il concerto-evento, nel gennaio 2005 a Casale Monferrato in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione. Uno spettacolo intitolato La Banda Tom e altre Storie Partigiane, dedicato alla banda partigiana trucidata dai nazi-fascisti il 15 gennaio del 1945, diventato l’album dal vivo Resistenza, pubblicato il 25 aprile 2005.

Qui si avvalgono dell’intervento importante di Massimo Carlotto. E della consultazione dei materiali originali, custoditi presso il Centro di documentazione Cascina Pizzo, oltre che delle testimonianze di coloro che vissero la tragedia avvenuta sull’Appennino ligure, tra Genova e Alessandria.

Un altro dei disegni di Ivano A. Antonazzo

Le atmosfere musicali create da Maurizio Camardi, poi, con i suoni antichi del duduk, strumento tradizionale armeno, insieme all’uso di sintetizzatori, flauto armonico, ukulele, tin whistle, banjio, percussioni, sax soprano e sax tenore, sono una colonna sonora senza tempo e dalla connotazione geografica vasta e variegata, per raccontare storie che si sono disseminate in tanti luoghi, ovunque ci sia e ci sia stata una dittatura, ovunque un oppressore abbia ridotto un popolo alla privazione dei diritti umani fondamentali.

Così, numerose sono le vicende messe in scena, storie vere di uomini, donne, bambini scomparsi. Attraverso la narrazione di Carlotto prendono vita come i personaggi di una Spoon River partigiana a cui lo scrittore dona voce e memoria perché possano raccontare chi erano in vita e ciò che è stato di loro.

Il primo, appena trentenne, da Genova sale sui monti nella zona del Tobbio e delle capanne di Marcarolo sull’Appennino, tra edifici diroccati e borghi disabitati. Pronto a organizzare la resistenza di un gruppo eterogeneo per cultura e fede politica, accomunato dal fatto di essere composto di giovani volenterosi, pronti a mettersi a disposizione per la medesima causa. È proprio lui a raccontare dall’interno la strage che avvenne. Di come il 6 aprile del ’44 si scatenò l’inferno, dentro la sacca senza uscite che era la zona tra la Valle Stura e la Valle Scrivia.

“All’alba del 7 aprile iniziarono ad ammazzarci – racconta – I bersaglieri ci avevano divisi a gruppi di cinque e il fattore della Benedicta annotava diligentemente i nostri nomi prima che ci spingessero lungo un sentiero che porta al torrente Gorzente. Quindici gruppi, settantacinque ragazzi. Io ero nel dodicesimo. Due palle nel petto, il colpo di grazia alla nuca sparato da un caporale dall’accento toscano. Altri ventidue giustiziati nei dintorni. Trenta catturati sul monte Figne, quaranta rastrellati tra Campo Ligure e Rossiglione. Quattordici trucidati a Passo Mezzano. Sette caduti in un’imboscata tra Cravasco e i monti di Praglia. E poi i contadini abbattuti nelle cascine. I casolari bruciati, la Benedicta demolita dall’esplosivo. Si era alla vigilia di Pasqua e il Tobbio grondava sangue.”

Così, le canzoni si intramezzano alle parole e Il silenzio che si sente, è il nulla che resta dopo il massacro: Siamo campi calpestati dagli anfibi dei soldati, qui dove non nasce più niente.

Sotterrato in una fossa comune il giovane spiega di come si continuò a fucilare partigiani fino al 19 maggio, giorno della strage del passo del Turchino, valico appenninico sito tra il comune di Masone e il comune di Mele che collega Isola d’Asti a Genova Voltri attraverso Acqui Terme, e quindi Genova con la provincia di Alessandria e con Asti.

Vi morirono in trentotto, il più giovane aveva diciassette anni, il più vecchio ventidue. Tutti di Serravalle Scrivia, tutti amici, immortalati come una classe in gita in una fotografia, con gli occhi pieni di sole e di vita. Erano i ribelli della Banda Odino. Tra di loro, Marco Guareschi, nome di battaglia Massimo. Arrivato da Genova a Montei, sulle colline di Serravalle con la famiglia, padre professore universitario, madre laureata in chimica. Quelli che non furono uccisi subito vennero rinchiusi dentro carri bestiame pronti a partire verso i campi di concentramento. In questo gruppo era Guareschi. A lui Carlotto fa dire: “Abbiamo fatto tutto il nostro dovere, il nostro onore è completamente salvo. Se volessimo potremmo anche cantare; ora facciano di noi quello che vogliono. Del resto i tedeschi stessi non hanno nascosto di avere più stima di noi che dei fascisti”. Guareschi, brigata autonoma Alessandria, studente universitario di fisica, partigiano dal 5 marzo 1944, come riporta il sito di Anpi Serravalle Scrivia, morì di stenti il 12 aprile 1945 a Mauthausen, quindici giorni prima della liberazione del campo da parte dell’esercito americano.

Uno dei disegni di Tinin Mantegazza sulla strage di Tavolicci

Un altro eccidio irrompe nella narrazione, di nuovo vittime innocenti. A Tavolicci, paese di ottanta anime, contadini, boscaioli, povera gente, vive Aldina. “Ci hanno obbligato a uscire dalle case. I dieci capifamiglia li hanno legati e raggruppati in disparte, mentre le donne, gli anziani e noi bambini siamo stati rinchiusi nella casa di Domenico Baccellini, nella stanza sopra alla stalla. Dalle finestre vedevamo i militi ammassare su un paio di carri quello che riuscivano a portare via dalle case. Poi uno di loro si è coperto il volto con un fazzoletto, è entrato nella stanza dove stavamo e ha iniziato a sparare. Sono morta così. A otto anni.”

Racconti che restituiscono verità sconcertanti. Tavolicci è la “strage più raccapricciante e numericamente più consistente della Romagna: sessantaquattro persone, di cui diciannove sotto i dieci anni, vengono trucidate dal IV Battaglione di volontari di polizia italo-tedesca” si legge sul sito dell’Istituto Storico di Forlì-Cesena. Un eccidio che è rimasto vergognosamente impunito: un luogo isolato difficilmente raggiungibile, scarsa la documentazione, la memoria tramandata con difficoltà che non raggiunse le aule di tribunale.

Alcuni partigiani della Divisione Mingo

Chi sopravvisse alla Benedicta si unì nella divisione Mingo, attiva nell’Ovadese e in altre formazioni della Val Borbera e dell’Appennino alessandrino. Poi, dappertutto, tanti giovani, sempre più numerosi scesero dai monti a liberare le città intonando canzoni. Quelle composte davanti a un fuoco, tra le macerie di un edificio diroccato, in un nascondiglio tra i boschi, da chi non era riuscito a darvi voce.

Un altro dei disegni del booklet

“Canteremo noi per voi nelle vie e nelle piazze delle nostre belle città quando le avremo liberate”, si sentiva dappertutto. Una promessa che è stata mantenuta, se ancora oggi nuove canzoni si scrivono, si incidono dischi a tema, si eseguono concerti nei teatri, nelle piazze. Nelle quindici tracce dell’album l’eccidio della Benedicta è il tassello centrale dentro un grande atlante delle stragi in cui la violenza cieca della dittatura nazifascista condusse a morte e distruzione.

“Insieme a Massimo Carlotto e Maurizio Camardi abbiamo voluto sottolineare anche l’aspetto europeo della Resistenza ancora così poco espresso nei lavori artistici dedicati alla Resistenza”, dice Archetti Maestri.

Si ricorda dunque anche la Guerra di Spagna con Viva la Quinta Brigada, traduzione del testo e musica di Christy Moore. La Quinta Brigata, ovvero El Quinto regimiento:  “compagnia di eroi, da tutto il mondo arrivò per terra e per mare una Brigata Internazionale. Per difendere il popolo spagnolo, per fermare la dittatura” al grido di No pasarán.

La strage di Tavolicci, evocata anche dai disegni dell’artista Tinin (Agostino) Mantegazza che la definisce “una storia terribile”. Quella al passo del Turchino, quella di Monte Sole.

Ma non mancano le vicende delle partigiane e dei partigiani che in vario modo diedero il loro contributo, ricostruiti attraverso le testimonianze. Come quella di Martina Scarsi, che salì alla Benedicta dopo il rastrellamento e l’esplosione per verificare cosa fosse accaduto ai giovani compagni. “Cominciammo ad alzare una di quelle sette pietre e a scoprire il volto di quei sette caduti. Il primo fu per noi sconosciuto. Il secondo anche. Finalmente con la terza pietra scoprimmo che si trattava del povero Romeo. Lo dissotterrammo. Aveva il volto intatto, pareva sereno. Spostammo poi le altre e trovammo anche Aldo Canepa. Continuammo a piangere in silenzio. Andammo al grande cascinale La Benedicta. Trovammo in terra tutto attorno, carte da gioco, spazzolini, dentifrici, ogni cosa e tanta legna bruciata”. (Isral, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria, Carlo Gilardenghi).

Oppure evocati dalle parole di Carlotto. Tra questi, Spartaco Fontanot, nato a Monfalcone (Gorizia), emigrato in Francia dove presto abbandonò studi e lavoro per dedicarsi alla lotta agli occupanti nazisti. Membro di una cellula di partigiani, partecipò a numerose azioni, tra cui l’attacco a un deposito tedesco di Nanterre, l’assalto a una colonna di autocarri della Wehrmacht a Parigi, l’attacco di una caserma a Rueil. Collaborava con il poeta armeno Missak Manouchian, operaio alla Citroën, che aveva fondato un sindacato di lavoratori stranieri: italiani, francesi, armeni, ungheresi, polacchi, rumeni. Furono condannati a morte e fucilati tutti insieme al Fort Valerién il 21 febbraio 1944. Ai giudici che chiesero a Fontanot perché combatteva per un paese che non era il suo, rispose che la patria, per un operaio, è dove lavora.

C’è la voce della cantautrice astigiana Lalli che restituisce l’orrore, lo sguardo attonito e inerte di chi osserva e nulla può. Come gli aironi che vedono i deportati stipati nei vagoni. Anche la natura, la fauna che popola certi ecosistemi, sembra essere toccata dallo strazio degli eventi narrati.

Partigiani sempre! è anche uno spettacolo. Massimo Carlotto, voce narrante

“Lalli ha una voce da sogno, poetica, emozionante – dice Archetti Maestri – Chi meglio di lei poteva dar voce e suono a un affresco così fortemente legato alla natura? Natura e ambiente che, tra l’altro, hanno da sempre caratterizzato la nostra opera (il primo album del ’94 si intitolava La diserzione degli animali del circo, ma potremmo citare anche La solitudine dell’ape). Ultimamente, immerso nelle poesie della Szymborska o della Candiani, mi sono convinto che il dramma della nostra epoca legato ai disastri climatici sia nato proprio dalla rottura tra l’uomo e l’ambiente, dallo sfruttamento folle delle risorse, ma soprattutto dalla sottovalutazione del rapporto che ci lega profondamente al mondo animale e vegetale. La poesia che ci regala stimoli e risposte”.

C’è chi è salito sulle aride montagne cercando libertà tra rupe e rupe, frase di Dalle belle città, canto nato tra le alture liguri, inno della III Brigata garibaldina Liguria, scaturito dall’ingegno e dalla passione dei partigiani Emilio Casalini “Cini” per il testo e Luciano Rossi “Lanfranco” per la musica. Canzone di riscatto, qui riproposta in forma acustica, voce e chitarra, così come la si intonava tra i monti.

La piccola Elide, invece, danza a Monte Sole, superstite di un’altra terribile strage, la più efferata compiuta dalle SS naziste in Europa, nei territori della provincia bolognese: Monte Sole, Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, il 29 settembre 1944. Sopravvissuta in mezzo alle macerie di corpi fatti a pezzi.

Partigiani sempre è, dunque, la condizione necessaria, perché il fascismo è sempre dietro l’angolo e serve vigilare. Mantenere viva la memoria, anche cantando e suonando gli strumenti più a portata di mano:
Disse un fascista ad un ribelle, voglio il tuo cuore per farti la pelle. Ma il partigiano al fascista sicuro, prese la pelle e ci fece un tamburo. La nostra chitarra ha un dolce suono, ma per i fascisti ha un lugubre tono.

Il poeta Nino Pedretti direbbe che non sono importanti le cerimonie, ma che si deve pensare ai vivi. Perché bisogna essere partigiani sempre e ovunque, contro i fascismi, per la libertà, per i diritti, la giustizia sociale. E la memoria deve essere coltivata, nutrita, insegnata. Bisogna pensare ai vivi, che sappiano fare del nome inciso su una lapide la storia di una vita da cantare e raccontare, piena dell’orgoglio e della fierezza dei partigiani e delle partigiane che hanno combattuto, che sono morti, che sono stati imprigionati, che hanno sfilato lungo le vie delle città liberate.

Ecco che raccontare, ma soprattutto cantare sembra essere lo strumento che più di altri si presta a mantenere viva una memoria. Cantare canzoni partigiane ma anche comporne di nuove.

Paolo Enrico Archetti Maestri

“Credo che tutta la magia stia nell’incontro tra tutto ciò che è storia e memoria – dice Archetti Maestri –  come cantiamo nell’ultima canzone dell’album –  Storie e memorie che si intrecciano e ci regalano qualcosa che, fuor di retorica, possa rinnovare l’emozione rispetto a questi temi. Forse abbiamo bisogno di uscire da una narrazione spesso celebrativa, spesso simile a se stessa e talvolta retorica, che invece di coinvolgere le nuove generazioni le allontana. Così come si allontanano molti di quelli che sostengono questa nostra storia così tanto tragica, quanto meravigliosa. È la radice dell’antifascismo da proteggere, sta a noi fare di tutto per mantenerla viva e renderla sempre più luminosa. Anche scrivendo e cantando nuove storie, nuove canzoni”.

Opera complessa, Partigiani Sempre!, in cui la narrazione inchioda a un ascolto e a una partecipazione attiva, che non lascia indenni. Conduce lo spettatore a provare l’angoscia che tanti giovani patirono, ma anche ad ammirare il coraggio che ancora oggi rende le loro gesta esemplari. Alla narrazione e alle canzoni si aggiungono poi, nell’articolato booklet, fotografie d’epoca e illustrazioni. Quelle di Tinin Mantegazza e quelle di Ivano A. Antonazzo, a ricordarci, queste ultime che, perché la memoria resti vivida e continui a parlare, occorre una manutenzione costante. Perché mai si dimentichi. Che la Resistenza è il sangue che ha fecondato le nostre terre. Che attorno a questo principio le comunità devono stringersi. Oggi, ancora di più.

La storia e la memoria, sorelle in altalena, con gli occhi spalancati, schiena contro schiena.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli