Renato Carosone

La canzone era una macchietta internazionalizzata, qualcosa che partiva sempre da Napoli, ma non sempre per ritornarci, visto che qualche volta approdava a lidi davvero lontani. E, più che di canzone, talvolta si doveva parlare di cabaret, di teatro dell’assurdo sonico. Di un avanspettacolo musicale che si faceva beffe di annegati e innamorate in punto di morte, papaveri e papere, convenzioni e seriosità. Renato Carosone

 

Renato Carosone, compositore, pianista, raffinato musicista, autore e interprete, è stato soprattutto un incredibile sperimentatore e innovatore della canzone italiana. Dagli anni Cinquanta ha portato Napoli e l’Italia alla ribalta internazionale e ha reso il capoluogo campano il simbolo di una città pronta ad accogliere la sfida del futuro senza rinnegare le sue radici. Renato Carosone, mancato nel 2001, è stato l’artefice di uno stile attualissimo e contemporaneo, world music ante litteram.

(bibliotecauniversitarianapoli.beniculturali.it)

“Sono nato il 3 gennaio 1920 (…) in vico dei Tornieri, che oggi non esiste più, a due passi da piazza Mercato, cuore di una Napoli popolare, stracciona eppure nobilissima”, racconta Renato Carosone nell’autobiografia scritta con Federico Vacalebre.

La musica era una consuetudine in famiglia e già dalla prima infanzia, per Renato, il mondo delle sette note era pane quotidiano. Mamma Carolina riempiva le stanze di melodie suonando un pianoforte verticale di marca francese, dono di nozze dei suoi genitori. “Giravo intorno allo strumento per ore – racconta Carosone -, incantandomi ad ascoltare mia madre che cantava accompagnandosi come sapeva”. La famiglia, composta dai fratellini Olga e Ottavio, insieme a papà Antonio, che lavora al teatro Mercadante, al botteghino e qualche volta come impresario, era di fatto una compagnia d’arte, dove tutti avevano con la musica un rapporto prediletto.

Appena possibile si assisteva alle prove degli spettacoli e spesso il padre imbracciava il mandolino accompagnando tutta la famiglia nel repertorio classico della canzone napoletana.

Il teatro Mercadante

Quando all’età di sette anni Renato perde la madre è la musica che va a colmare quel vuoto, attraverso le lezioni di pianoforte dal maestro Orfeo Albanese. Poi da Vincenzo Romaniello e infine da Celeste Capuana, sorella di Franco, direttore d’orchestra. Qualche tempo dopo un altro brutto colpo travolge la famiglia: il Mercadante chiude e occorre che tutti diano una mano per sopravvivere alla fame.

Abbandonata la scuola, l’unica prospettiva di lavoro per Renato è quella di un ingaggio nel mondo dello spettacolo, trovare una compagnia di varietà o un complessino in cui suonare alle feste. Galleria Umberto I in quegli anni è il luogo d’incontro di artisti alla ricerca di fortuna. Qui, un tale Gegè Maggio, impresario improvvisato, lo recluta in una compagnia di avanspettacolo. Che però non ha grande successo, anzi, per la disorganizzazione, nessuno si presenta alla prima serata.

Ma Renato non si abbatte e un lavoro non tarda ad arrivare: a quattordici anni è pianista al teatrino dell’Opera dei Pupi a suonare la colonna sonora delle imprese di Orlando, Rinaldo e Carlo Magno, personaggi adorati dal pubblico degli appassionati dei quartieri di Napoli. Quattro lire a giornata, in nichelini da venti centesimi.

Tra i grandi interpreti di “Santa Lucia luntana” (E.A. Mario) anche Enrico Caruso

Il secondo lavoro importante gli viene proposto dal grande impresario E. A. Mario, autore della celeberrima Santa Lucia luntana, che lo assume come “ripassatore” di canzoni, presso le sue edizioni musicali ai Quartieri Spagnoli. Il mestiere consisteva nel far ascoltare le canzoni del noto autore ai cantanti interessati a interpretarle. Esperienza più che gratificante, a contatto con le più grandi voci partenopee. L’impegno, poi, non così gravoso, gli permetterà di diplomarsi in pianoforte al conservatorio di San Pietro a Maiella.

La svolta arriva poco dopo: gira voce del progetto di una compagnia di varietà che si sarebbe esibita in tournée all’estero, partendo dall’Eritrea, con grandi compensi e larga fama. È Renato il pianista prescelto, e nel 1937, con il contratto firmato dal responsabile spettacolo del partito fascista, parte alla volta dell’Africa, sbarco a Massaua. Se l’ingaggio nel famoso ristorante-teatro per cui era nata l’impresa non va in porto (suonare canzoni napoletane a un pubblico di piemontesi in trasferta per lavoro, non ottiene grande successo), un’orchestra di Asmara lo chiama immediatamente come pianista per spettacoli di cabaret.

Di night in night club, il successo è tale per cui tutta la famiglia in breve tempo lo raggiunge. Ma la felicità dura poco: il regime fascista, con il folle progetto di costruire un impero, ha invaso l’Etiopia. Il sogno di mantenere la posizione di direttore dell’Orchestra dell’Aquila Bianca ad Addis Abeba, si infrange immediatamente. Nella speranza di risparmiarsi il servizio militare si arruola volontario nel battaglione Granatieri a maneggiare armi invece dei tasti del pianoforte. Un amico lo salva dal fronte procurandogli un impiego da dattilografo. Tramite un espediente sarà presto disertore, in fuga verso casa.

Non siamo stati “brava gente”. Una vignetta delle tante vignette di propaganda fascista

Missione impossibile però: con la disfatta fascista finisce la guerra ma non le violenze e i rischi per gli italiani che subiscono anche la reazione dei popoli vessati per anni.

Un cugino, Antonio Carosone, lo toglie dai guai, offrendogli di raggiungerlo all’Asmara dove è direttore del teatro Odeon. Tra posti di blocco e il pericolo continuo di essere fucilato o rinchiuso in un campo di prigionia, Renato è grazie alla musica e al coraggio che si guadagna il lasciapassare per la salvezza. Impressionare un capo abissino suonando con la fisarmonica la celebre Mazurka di Migliavacca, non era da tutti. Invece, Renato vince contro la sopraffazione, la paura, l’ingiustizia.

Il teatro Odeon e il night omonimo sono la realtà in cui il giovane pianista Renato getta le basi di quello che sarà il suo futuro di grande artista, la stella della canzone Renato Carosone.

Il pubblico di ufficiali, sottufficiali, soldati, è desideroso di lasciarsi alle spalle i brutti ricordi della guerra, divertirsi, inventarsi una nuova vita in quel Paese straniero in cui ancora devono trattenersi.

Per loro Carosone suona il repertorio da ballo americano che ha imparato nei night: personali riletture di Night and day, Tea for two, Blue moon, Chicago, Caravan. Whisky, musica swing, giovani donne arrivate dall’Italia per affascinare i militari desiderosi di trovare compagnia, se non l’amore.

Sarà Carosone a trovare l’amore, quello vero, proprio all’Asmara nelle forme della bellissima veneziana Lita Levidi, unica donna della sua vita.

Con l’esperienza di dieci anni nei night eritrei, il successo e qualche soldo in tasca, il grande amore della vita e una famiglia, il 28 luglio 1946 è tempo di tornare a Napoli.

A Napoli nel 1944

Sbarcandovi, la prima impressione è di una città sconfitta e avvilita. Anche qui non si suona per la gente del posto, nei locali che sono rimasti in piedi si intrattengono i militari americani che vogliono ascoltare i ritmi che vengono dal loro paese e che Carosone ha già nella testa e nelle dita avendoli suonati nei night club degli Alleati, in Africa.

“L’avventura africana, musicalmente parlando – racconta Carosone -, mi aveva arricchito moltissimo, era stata una gavetta rigenerante: ormai, quando mi sedevo al piano, fondevo senza neanche accorgermene le melodie partenopee classiche con il boogie più disincantato e ballabile, gli echi delle armonie arabe con l’umorismo e l’ironia tipici di noi napoletani, virtù uscite indenni dal disastro bellico”.

Musicalmente l’Italia del dopoguerra è quella dei papaveri e delle papere, dei vecchi scarponi, delle mamme, dei tanti cuori infranti e degli amori tormentati. Un’Italia bigotta e fasulla. Carosone, invece, ha dentro un’altra musica, il ritmo e i suoni dell’America, le immagini e le colonne sonore che si ascoltano nei cinema della città. La fine della guerra è anche ripresa di vita sociale, rinascita di spazi per la socializzazione e la condivisione della cultura.

Per Carosone, è l’occasione di esibirsi nei locali che suonano musica da ballo un po’ in tutta Italia, da Roma, a Milano, a Capri, a Napoli. All’inaugurazione dello Shaker club, mette in piedi un Trio di musicisti con il quale parte alla volta di una vera e propria innovazione della canzone italiana, con lo svecchiamento del modello in voga. Irrompe nel clima mieloso della canzonetta d’evasione con una musica originale, frutto della commistione di varie suggestioni, un’inedita mescolanza tra l’America e le sonorità partenopee.

Peter Van Wood, “l’olandese volante”

Alla chitarra viene arruolato Peter Van Wood, soprannominato l’“Olandese volante”, musicista talentuoso, diplomato al Conservatorio Reale d’Olanda, pioniere di sonorità inedite, attraverso l’uso degli affetti speciali come l’eco e il riverbero. Viaggiatore e artista a 360 gradi, canta in quattro o cinque lingue e suona una chitarra elettrica che mai si era vista prima a Napoli. Un personaggio straordinario. Con lui si combina perfettamente il batterista Gegè Di Giacomo, stirpe di percussionisti, capace di far suonare come una batteria, set di bicchieri, sedie di legno, forchette e coltelli. Un talento impressionante.

Lo Shaker apre il 28 ottobre 1948 con il Trio Carosone che riscuote subito un grandioso successo amplificato dalla radio che, tramite la partecipazione a un concorso, promuove i pezzi del trio. Pezzi che per buona parte nascono dall’improvvisazione, dalla commistione di idee di tre musicisti che conoscono accenti e ritmi tipici delle diverse parti del mondo in cui hanno viaggiato.

“Avevo capito – racconta Carosone – che si poteva rinnovare la canzone napoletana, anzi italiana, sposandola ai ritmi che arrivavano dall’America”. Blues, jazz, swing e fronne, i canti dei venditori ambulanti, potevano amalgamarsi e dare l’avvio a una rivoluzione musicale.

In quel periodo, infatti, le canzoni napoletane tradizionali non erano apprezzate nei locali: troppo lente per essere ballate, troppo tristi per divertire i giovani soldati. Nasce così l’idea di reinventarle in stile swing, accenderle di un ritmo più vivace. Un vero e proprio colpo di genio, quello di Carosone: “Non è vero – racconta – che i ritmi americani sono arrivati dopo la Liberazione: io e altri li usavamo già prima, ma non li avevamo mai applicati alla musica di casa nostra”. Invece ora era necessario, perché quei ritmi erano il ritorno alla vita dopo la tragedia della guerra, erano il ballo e la gioia sfrenata, erano Napoli e l’Italia che si rialzavano in piedi.

Il successo è tangibile, come il primo 78 giri che il Trio registra nel ’55 per la casa discografica Pathé, con i pezzi del repertorio nei quali si riconoscono i tratti caratteristici dell’ensemble: swing, giochi di parole e invenzioni linguistiche, amalgama di suoni arabi e partenopei, vivacità del ritmo, parodie nonsense. Perché ciò che rende straordinario il gruppo è anche lo stare in scena in modo scherzoso, la voglia di sdrammatizzare, inventare gag e ridere, ridere a crepapelle.

Tra i brani più noti Mambo italiano, con Carosone al piano, Gegè di Giacomo e Piero Giorgetti alla voce, Sylvano Santorio alla chitarra,

lato B a Io, mammeta e tu di Domenico Modugno e Riccardo Pazzaglia.

Tutti vogliono assistere agli spettacoli del Trio Carosone, i locali di tutta Italia se li contendono: sono a Capri al club “La canzone del Mare”, diretto da un cantante inglese, sono a Roma ad inaugurare l’“Open Gate” alla presenza di Elisabetta d’Inghilterra e Filippo d’Edimburgo. A Milano aprono le danze al “Caprice” e per questa occasione speciale il Trio si trasforma in Sestetto. Ne fanno parte oltre a Carosone e Gegè, il cantante Piero Giorgetti, il chitarrista Raf Montrasio, Gianni Tozzi, Toni Grottola.

I pezzi forti sono gli standard rivisitati della canzone napoletana: Scapricciatello di Aurelio Fierro;

 ’A sunnambula di Pisano e Alfieri;

T’è piaciuta di Capillo e Rendine.

Poi arriveranno i brani originali, tra cui soprattutto Maruzzella, scritta con Enzo Bonagura. Che cos’è Maruzzella per Carosone? “Una donna di mare, una Maria, una ragazza vivacissima.” Maruzzella inizia con un canto a fronna poi nel ritornello si trasforma in una tarantella moderna.

Una canzone classica napoletana, ma riletta alla luce di uno stile swing, da night club.

Tantissime versioni decreteranno il successo di questo brano, colonna sonora del film omonimo diretto da Luigi Capuano, nel 1965.

La interpretano in tanti: Massimo Ranieri,

Lina Sastri,

Renzo Arbore.

E poi La salsa del pensamiento, cantata in un improbabile spagnolo che si combina con una filastrocca popolare partenopea al ritmo carioca.

La svolta vera nella produzione musicale di Carosone è data dall’incontro con il paroliere Nicola Salerno, in arte Nisa. Napoletano, classe 1910, studi artistici e specializzazione nell’illustrazione di libri per ragazzi e spartiti musicali, si avvicina poi alla musica leggera e in particolare alla scrittura di testi. Negli anni Quaranta è autore di successi memorabili: Serafino campanaro, cantata da Mina,

le canzoni del film “Pane amore e gelosia” affidate alla Lollobrigida, Guaglione che vince il Festival di Napoli del ’56.

Un concorso radiofonico è l’occasione per la Ricordi di combinare un testo di Nisa con la musica di Carosone. Una serie di pezzi a firma del duo vedranno la luce in breve tempo, a delineare i contorni di quell’Italia che aveva deciso di tornare alla vita anche cantando. Canzoni divertenti, parodie dei vizi e delle virtù degli italiani. Canzoni come ’O sarracino, Caravan petrol, Torero, Pigliate ’na pastiglia, messa in ridicolo dell’italiano medio col cuore a pezzi per amore che, disperato, corre in farmacia senza trovare rimedio. Meglio allora la solita pastiglia.

C’era la voglia di dare voce “a una generazione stanca delle banalità canzonettare, ma non disposta a rinunciare a un facile consumo musicale”, ricorda Carosone. Canzoni che potevano essere spensierate come lo erano gli italiani di allora, accompagnando la loro vita notturna, le feste nei night, divertendo e intrattenendo con ritmi esotici, testi come giochi di parole, invenzioni dadaiste. E poi virtuosismi musicali, mescolanze di generi, echi da tutto il mondo. Un suono decisamente nuovo. “Io dichiaravo – racconta Carosone – la mia eterna ammirazione per la melodia classica partenopea, ma ne demistificavo la museificazione ridendoci sopra (…). Blues, boogie, cha-cha-cha, bajon, flamenco, mambo e samba mi servivano per divertire, per utilizzare linguaggi stranieri e fonderli nel mio napoletano”.

A Torino nello stesso momento stava nascendo Cantacronache, gruppo di intellettuali, musicisti, ricercatori fedeli al motto “evadere dall’evasione”, che contestavano il vuoto della canzonetta sanremese. Come del resto, seppure in altro modo, anche Carosone, era ben consapevole della propria identità musicale, che aveva, nell’avversione a una certa canzone retrograda e bigotta, un progetto comune con i torinesi. Diverso nell’espressione. La rivoluzione poteva avvenire anche nella composizione musicale, nell’uso della parodia, della messa in ridicolo, dello svelamento dei nuovi stereotipi, come quello dell’italiano che vuole sentirsi americano.

“Era una nota stonata nella colonna sonora di una nazione che cambiava pelle – racconta Carosone – senza accorgersi che si stava facendo colonizzare anche il subconscio sonoro, perché dopo tanti stenti e tante pene, qualsiasi cosa sapesse di americano ora sembrava sinonimo di libertà e opulenza”.

E così la contestazione di Carosone al sistema imperate è presto chiara: “I miei motivetti – dice – intonati con l’eterno sorriso sulle labbra, cozzavano con tutte le convenzioni e le mode del cantar leggero di casa nostra (…). La mia vocella contro le ugole d’oro”, la varietà delle suggestioni contro il conservatorismo culturale; il jazz, il boogie-woogie, il rock ’roll per evadere dagli amori infelici e dalle mamme addolorate. E per mettere in luce l’esagerata esterofilia degli italiani.

Come faceva Fred Buscaglione che, nella Torino degli stessi anni, con le sue criminal songs raccontava l’american dream che, per gli italiani, era miraggio di benessere e successo in ogni campo. Il mito del latin lover alla Buscaglione si traduceva con Carosone nel “sarracino”, seduttore “bello guaglione” che “tutte ’e femmine fa ’nnamurà”.

A questo comune denominatore Carosone aggiungeva, guadagnandosi il titolo di “Mister Simpatia”, le varie e innumerevoli improvvisazioni da avanspettacolo che facevano di quel tipo di intrattenimento una diretta continuazione della storica Commedia dell’Arte napoletana.

Come Buscaglione, le canzoni di Carosone erano portatrici di una forte innovazione nello stile musicale, con l’uso di materiali sonori diversi, dai rumori, agli spari, ai fischi, al gergo, alle immagini, alla teatralità. E di una forma di protesta: “sfottevo l’americanismo dilagante, il cinismo, la volgarità dei nuovi ricchi che sguazzavano nel lusso più sfrenato, nello spreco e nell’ignoranza”. Nell’Italia del Piano Marshall, dello spopolamento delle campagne, della perdita della cultura contadina, dell’emigrazione, del tirare a campare, l’America era un immaginario a cui tutti ambivano, senza comprendere i rischi a cui tale dipendenza avrebbe condotto.

Tu vuo’ fa’ l’americano, che nasceva dalla collaborazione con Nisa, era il ritratto della gioventù italiana ossessionata dal mito dell’America, venduto a suon di reclame, invasione di prodotti e di sottocultura. Era l’identikit dei giovani, vitelloni felliniani, figli di un’Italietta di mediocri come il Nando Mericoni di “Un americano a Roma” che, disconoscendo le proprie radici culturali, avevano americanizzato ogni aspetto della propria vita. La scena tratta dal film “Totò, Peppino e Le Fanatiche” (1958).

La canzone diventa un successo internazionale, cantata niente meno che da Boris Vian nella versione francese Tout functionne à l’italiano del 1957.

Stessa sorte per Torero, tradotta in quasi tutte le lingue del mondo. Qui l’ambientazione spagnoleggiate con i suoi luoghi comuni unisce in uno stesso territorio fantastico Madrid, l’America Latina e Napoli con i suoi Quartieri Spagnoli. Il protagonista è ispirato al grande mito del momento, il torero Luis Dominguín che aveva sposato la Miss Italia Lucia Bosè.

In piena era Mattei, capo dell’Eni, nasceva poi Caravan petrol, che ironizzava sul simbolo di ricchezza proprio dei Paesi arabi, il petrolio, raccontando la storia improbabile di un giovane che voleva cercare l’oro nero nei quartieri di Napoli.

Carosone diventava una leggenda, a lui si spalancavano le porte della Carnegie Hall di New York, primo italiano a solcare quel palcoscenico. E poi gli studi dell’Ed Sullivan Show, a intrattenere non solo il pubblico degli emigrati ma quello di tutta l’America. Che lo conoscerà anche grazie alla colonna sonora di “Mean Streets”, film del ’73 di Martin Scorsese. Maruzzella e Scapricciatiello verranno scelte dal regista come sfondo sonoro delle vicende di alcuni giovani nella Little Italy. Un grandioso riconoscimento che lanciava Carosone nell’Olimpo degli artisti più celebrati dalla critica di tutto il mondo.

Con il ’58 dall’America era arrivato il rock ’n roll a stravolgere la realtà musicale italiana e i gusti del pubblico. La figura di Modugno, autore e interprete e l’avvio della stagione dei cantautori, imponevano una nuova canzone che prendeva il sopravvento e risuonava in ogni dove. Carosone già meditava il suo ritiro, lasciando in eredità le sue invenzioni musicali, riconoscibili già in Pasqualino marajà di Modugno e Franco Migliacci.

Del 1959 è l’addio alle scene: “scendere dalla ribalta mentre sono ancora vivo, finché la mia faccia non ha ancora cominciato, o almeno mi illudo, ad annoiare”, dirà. Riflessioni da cui si intuisce il grande rispetto che questo artista talentuoso nutriva per la propria musica, nonché la sua integrità e dignità di artista e di uomo, non disposto a scendere a compromessi, a correre dietro alle novità per restare sulla breccia a tutti i costi. Altre imprese lo vedranno protagonista, da organizzatore di eventi, a pittore apprezzato. Fino al ritorno sulle scene nel 1975 con “Bentornato Carosone”, spettacolo-concerto trasmesso dalla Rai e con un album live. A questa seguiranno altre esibizioni negli anni Ottanta, al Madison Square Garden e in Canada, che faranno delle sue canzoni dei classici senza tempo.

Numerose sono quelle che compongono il suo repertorio e che si possono ricordare. Come il fox-trot Nenè e Pepè, ovvero “CantaNapoli vezzeggiativa”,

Mi par di udire ancora, bolero tratto dai “Pescatori di perle” di Bizet, a ribadire il rapporto stretto con la musica colta;

la personale versione del capolavoro di Totò Malafemmena,

fino al classico della canzone napoletana di E. A. Mario, Tammuriata nera.

E poi le più recenti Napoli, omaggio alla città, C’aimma fa?, lettura disimpegnata della cronaca politica degli anni Ottanta;

Caino e Abele, la Bibbia raccontata come un fotoromanzo;

O suspiro, canzone-sceneggiata dedicata all’avvenenza delle ragazze di Napoli.

Carosone l’americano ma non solo, con la sua musica multietnica ha aperto la strada ai numerosi ed eccellenti continuatori, come Peppino Di Capri, Pino Daniele, Edoardo Bennato, James Senese, Almamegretta, 99 Posse. Tutti hanno portato avanti la tradizione contaminatrice della canzone napoletana, storicamente luogo di incontro di molteplici suggestioni sonore. Dando vita a innumerevoli esperienze, nell’incontro con l’America, hanno generato un Neapolitan power di cui Carosone è forse il padrino.

“Noi napoletani abbiamo con l’America un cordone ombelicale – dice – che non può essere reciso e che ci porta a fare i conti con la sua musica. Io ero cresciuto con il jazz, nei night. E avevo capito che non potevo mettermi a fare l’americano: loro, gli americani, in questo erano più bravi. Allora ho preso in prestito questo ritmo a stelle e strisce, e l’ho unito al dialetto napoletano”.

Nel 1996 riceve il Premio Tenco per la sua eccezionale opera di cantautore. A Carosone, infatti, va riconosciuta la particolarità di uno stile che ha generato una scuola. Con l’eterna curiosità, l’apertura mentale verso ogni genere di musica, da quella per pianoforte classico a quella jazz di Cole Porter, ha dato vita a una canzone leggera e smaliziata, cosmopolita e popolare, fotografia di un’Italia che voleva dimenticare gli orrori della guerra. Anche con l’ironia, anche con lo scherzo e la macchietta, anche con la voglia di farsi beffe dei propri vizi e stereotipi. Anche e soprattutto con il ritmo.

Di Rai Tre il documentario “Renato Carosone – ‘O Sarracino’ del ritmo”.