Cesária Évora

Io sono nata per cantare. La morna mi ha preso, che cosa posso volere di più? Cesária Évora

 

Come Oum Kalsoum ha simboleggiato l’indipendenza di un Egitto al confine tra civiltà moderna e passato arcaico, fino al sogno dell’unità araba, Cesária Évora è stata la voce di Capo Verde. Indissociabile dalla storia dell’arcipelago africano, Cesária, la cantante dei bar di Mindelo, la voce della morna, è la prima donna africana a vendere così tanti dischi nel mondo. Innalzata al rango di ambasciatrice di Capo Verde, presentata a volte nei termini di governatrice del suo Paese, quella che la stampa internazionale ha soprannominato “la diva a piedi nudi”, è sempre rimasta se stessa: una donna del popolo di Mindelo, la città principale dell’isola di São Vicente, per lungo tempo dedita al commercio portuale sotto il dominio delle compagnie carboniere inglesi.

Mindelo è femmina. Una città in cui le donne hanno saputo lavorare con lo stesso coraggio delle bretoni nelle fabbriche di sardine a Douarnenez. Dove le donne hanno faticato con lo stesso fatalismo delle mogli dei pescatori di Nazarè, portoghesi perennemente in lutto, piantate sulla spiaggia nei loro scialli neri, in attesa del ritorno delle barche multicolori dei loro mariti. Mindelo, come quelle mogli, ha sempre aspettato. Davanti al mare, osservando le onde, scrutando l’orizzonte dove la terra riemerge dall’acqua. Il mare è dentro l’anima dei mindelesi.

Un Paese scoperto disabitato, ma diventato presto un ventre femminile da rendere fertile. I conquistatori europei su Capo Verde rivendicheranno una assoluta autorità per la posizione geografica preziosa, sulla rotta dell’Africa nera e su quella delle Indie e del Brasile. Ma più spesso lo sfrutteranno per il commercio di schiavi, depauperandolo delle sue materie prime, abbandonandolo al suo destino.

Così è la vita di Cesária. Messa continuamente alla prova, sfruttata, dimenticata. Ma resistente. Come è tipico delle donne africane che hanno ereditato dal passato il senso della resilienza, dell’ostinazione per la sopravvivenza ai numerosi ostacoli. Come i cicli di siccità che periodicamente hanno distrutto l’economia del Paese; come l’emigrazione massiccia; come la vergognosa tratta degli schiavi; come la nostalgia di un ritorno a tempi sereni.

Cesária Évora (Mindelo, 27 agosto 1941), Cize per gli amici, nasce femmina, africana, povera. Non ha mai davvero patito la fame, però, grazie all’aiuto dei fratelli più grandi emigrati, all’affitto di una parte della casa della nonna e a un pezzo di terra che l’anziana coltiva a mais e fagioli ai piedi di Monte Verde. Cesária conosce la durezza della vita molto presto, ma la sua infanzia è felice. Se piove si diverte con gli amici e i fratelli a plasmare bambole di fango, inventare ricette da impiattare su vassoi di melma asciutta. Se piove molto, si va tutti a raccogliere l’acqua piovana nelle bacinelle per portarla a casa. Si lascia depositare la fanghiglia al fondo e poi quell’acqua si può bere. Quando smette di piovere per lungo tempo, sale enormemente il prezzo delle derrate alimentari. Poi diminuisce l’affluenza dei battelli al porto di Mindelo, gli inglesi della Compagnia del carbone partono e la città rimane deserta.

Cesária, nata in una famiglia povera, ma piena di dignità, rappresenta la tipica donna mindelense per il coraggio di affrontare le sventure, di girare pagina dopo ogni episodio turbolento della sua vita – come i tanti legati all’abuso di alcol –, di guardare avanti, verso un nuovo futuro.

Cesária ricorda bene il nonno materno, arrivato da Santo Antão per aiutare sua figlia, che vive a São Vicente dall’infanzia. Un uomo di bell’aspetto, con la pelle scura che lo fa sembrare un indiano. Quando la madre esce di casa per il lavoro di cuoca è lui a prendersi cura dei nipoti. Il padre di Cesária è violoncellista, alla sua morte, quando lei ha sette anni, sua madre, che nonostante l’aiuto non ha la possibilità di mantenere la famiglia, la manda in un orfanotrofio gestito da religiosi. Tutti i suoi sei fratelli, tranne Chico, sono già emigrati per cercare lavoro. Cesária resta in quell’istituto per tre anni, sopportando poco quell’ambiente. Impara il cucito, la stiratura, il ricamo, ma non è la vita che fa per lei. Così chiede a sua nonna di farla uscire da quel posto dove si sente prigioniera. La nonna la manda da dona Maria Amelia, direttrice di una scuola dove Cesária studia la mattina, pratica il cucito il pomeriggio, per il tempo di due anni, quelli della scuola primaria. Il terzo anno decide di abbandonare la scuola e di conoscere il mondo a suo modo. Ama la libertà Cesária, fin da bambina. Sua madre lavora tutto il giorno e lei trascorre il suo tempo per strada. Con suo fratello Chico ha istituito regole di gioco e una parola d’ordine: quando lui la pronuncia, significa che la strada è libera e lei può andarsene a fare una passeggiata. È timida, riservata, ci sono poche persone attorno a lei con le quali può confidarsi. E a cui far ascoltare la sua voce. È Eduardo, un musicista, che per primo la scopre. Cesária canta per le strade della città mentre lui la accompagna alla chitarra sulle antiche mornas di Ti Goy e le insegna nuove coladeras. Con lei tutta Mindelo vibra di una musica diversa. Il compositore Frank Cavaquim descrive questa effervescenza in una ardente coladera che rimane nel repertorio di Cesária per molto tempo: “Oggi risuona del cha cha cha, del twist e del merengue, la coladera è per ieri, oggi le ragazze hanno il cuore pieno di gioia” [Véronique Mortaigne, Cesária Èvora, la voix du Cap-Vert, p. 96]. La storia con Eduardo dura un battito d’ali, lui emigra in Olanda, si sposa e si fa la sua vita. Ma intanto Cesária ha scoperto il grande dono della voce che ora risuona a Radio Mindelo e giunge nelle isole vicine. Non è solo per la sensualità della sua voce che in tanti impazziscono per lei. “Ho avuto talmente tanti amori da perdere il conto – dice –. Mai nulla di ufficiale. Gli uomini con cui ho avuto dei figli non hanno mai vissuto con me. La prova? Io ho sempre abitato con mia madre, la sua casa è sacra” [Mortaigne, p. 44].

Con Madonna

Il padre del suo primo figlio Eduardo si chiama Benjamin, si conoscono a bordo di un battello dove lui è meccanico, lei ha diciotto anni ed è lì per cantare. Quando resta incinta lui sparisce senza mai più dare notizie di sé. Ma se un uomo si allontana un altro arriva, perché Cesária è così: quando sta con un amante ne sta già guardando un altro. Le piacciono i giocatori di calcio: atletici, muscolosi. Con uno di loro mette al mondo altri due figli: uno muore piccolo, l’altra, Fernanda, vive con Cesária tutta la vita, portando in quella casa i suoi figli, nati anche loro da padri sconosciuti. Molte donne di Capo Verde allevano sole i loro figli, in parte perché ai loro uomini non importa essere padri, in parte perché questi uomini devono partire per guadagnare qualche soldo. A volte anche perché, pur guadagnando abbastanza, di quei figli si dimenticano comunque. E anche loro, le donne, di tanto in tanto se ne vanno e lasciano quei loro pargoli ai nonni. A Capo Verde le donne si arrangiano come possono.

Cesária non è stata così diversa dalle migliaia di capoverdiane, contadine dell’Isola di Santiago, o venditrici ai mercati di Mindelo, o domestiche nelle case dei benestanti. La sua differenza l’hanno fatta la voce, la sua estrema sensibilità alla poesia e il suo modo di vivere e di frequentare i margini. Cesária ha fatto pochi compromessi. Non è mai stata dalla parte dei borghesi. Non ha mai tradito il popolo. Lei gli è sempre appartenuta.

Questo forse spiega la sua capacità di esprimere concetti profondi, essenziali con poche parole: le mornas e le coladeras che lei ha scelto per il suo repertorio sono tra le più intense mai scritte a Capo Verde, un Paese in cui la letteratura creola ha mostrato la sua originalità negli anni Trenta, nonostante la durezza del regime salazarista e che ha dato al movimento dell’indipendenza africana una delle personalità politiche più carismatiche, Amilcar Cabral. Questi canti popolari hanno inoltre accompagnato passo dopo passo la storia di questo Paese occupato dal Portogallo per più di cinquecento anni, raccontando la vita delle persone e i loro sentimenti profondi.

La morna è musica viaggiante che parte da un’origine in comune con il fado portoghese e la samba brasiliana. Si dice sia la musica dell’aconghego, l’abbraccio che culla un neonato. Ha a che fare con la tenerezza, la dolcezza, la tristezza fino alle lacrime, ma è raramente drammatica. La morna, infatti, “riguarda i sentimenti. In essa l’emozione regna con sconcertante innocenza” [Mortaigne, p.145]. È una composizione malleabile, plastica, che possiede un grande potere di comunicazione grazie alla semplicità e alla concisione dei testi. Poeticamente innovativi, i versi sono cantati su una struttura musicale tradizionale. Le grandi interpreti come Cesária epurano ancora di più queste frasi che diventano più dirette e incisive. Lei inoltre accentua gli aspetti metafisici della morna tanto da renderla più intimista e suggestiva. Qualcuno la definisce un fado tropicale, una sorta di blues filosofico: un dialogo con la propria anima in cui l’interprete cerca risposte sul proprio destino, sul senso di assenza, di mancanza e di nostalgia che lo pervade. Difficilmente la morna mette in scena personaggi o racconta fatti accaduti, mitologie o leggende. L’autore di morna in genere non commenta le ingiustizie sociali come le discriminazioni, la miseria quotidiana, non espone la propria sofferenza oggettiva: cerca la verità dell’assenza, al di là delle apparenze. Tranne i compositori di Mindelo che, invece, spesso commentano i fatti della politica internazionale. Comparsa nel XIX secolo in un’epoca di relativa prosperità di Capo Verde e in un momento di sviluppo del porto di Mindelo, qui la morna e il suo corrispettivo gioioso, la coladera, restano canti privi dell’amarezza, del dolore e del fatalismo del fado o dei lamenti del blues. Più vicini alla samba, con il suo umorismo pungente, benché sia in essi molto presente la vena nostalgica, la sodade, il sentimento di quelli che partono e pensano a quelli che restano, immaginando un prossimo incontro. Tutta una dualità di sentimenti.

Per il pubblico occidentale Cesária ha dato voce a due canzoni memorabili: Mar Azul, scritta da B. Leza, personaggio chiave della poesia capoverdiana, e soprattutto Sodade, grazie alla quale ha costruito la sua fama mondiale. La prima è una preghiera indirizzata al mare perché si lasci oltrepassare, così che lei possa fare ritorno alla sua terra lontana, la piccola São Vicente dove vive la famiglia. Canto nostalgico di emigrazione, vocazione capoverdiana, questa supplica al ritmo dondolante di una scialuppa evoca il passato della sua terra mitica, quell’Africa da cui intere popolazioni sono state sradicate per diventare schiave. Così, questa canzone sprofonda nel cuore del blues, genere a cui Cesária offre il suo contributo di donna nera, sradicata.

Sodade, parole e musica di Armando Zeferino Soares (1920-2007), di professione commerciante, compositore nativo di Praia Branca, sull’sola di São Nicolau, nell’arcipelago di Capo Verde, evoca uno degli episodi più dolorosi della storia capoverdiana: la deportazione forzata di lavoratori verso le isole di Sao Tomé e Principe o verso l’Angola. Triste prolungamento della schiavizzazione, questa pratica si è estinta solo nella seconda metà del Novecento. È da Mindelo che partono queste “navi della vergogna” sulle quali i colonialisti portoghesi imbarcano lavoratori per le piantagioni di caffè e di cacao praticando un sistema di lavoro coatto. Cesária ha portato tutta questa storia sulle sue spalle. Quella del declino del porto di Mindelo, della povertà della sua gente, dell’emigrazione forzata: Chi ti ha mostrato questo cammino così lontano, questo lungo cammino per São Tomé? Nostalgia, nostalgia della mia terra São Nicolau.

Ma Cesária ha saputo anche raccontare l’orgoglio di quel popolo, sorridente, meticcio, amante della danza e della poesia. Un popolo conviviale che ha fatto della condivisione uno stile di vita, una tavola sempre imbandita, con un piatto di mais e fagioli, la catchupa, da mettere in comunione.

Dopo le prime esibizioni per le strade la fama di Cesária cresce e lei si esibisce nei bar di Mindelo: lo Sporting Club, il Mindelo Bar, lo Scotland Bar e Le Café Royal, luogo d’incontro degli uomini d’affari di Mindelo. Qui si beve Johnnie Walker, Havana Club, il rum di Cuba, e il bagaço, l’alcool portoghese. Cesária vi incontra musicisti, compositori che scrivono per lei brani come Cize, del trombettista Morgadinho, diventata poi canzone feticcio di Cesária. Commercianti e avventurieri, avvocati, mercanti e funzionari portoghesi sentono i brividi nell’ascoltarla: Un raggio di luce sul tuo viso/Illuminami sulla via del mio destino/Conosco la felicità/Oddio questa è la pura verità/I tuoi occhi nella luce argentata/Per me il tuo viso è quello di un santo/Oh Cize, sei la luce della mia vita/ Voglio morire.

Non solo nei bar o negli hotel, la voce di Cesária si ascolta ora anche sui battelli, sulle piccole navi che trasportano paccottiglia esotica importata dalle coste africane. Si ascolta a Radio Barlavento e chi possiede un magnetofono la registra come può.

Chi la vede non può non restare impressionato dai suoi piedi.

Le verruche che si sono formate sono difficili da estrarre, ma per lei non sono una vergogna. Lei detesta le scarpe, cammina a piedi nudi, per calpestare la terra come facevano i suoi antenati.

“Ai tempi dei coloni non ci era permesso di camminare a piedi nudi in certi posti, soprattutto quelli frequentati dalla gente altolocata. Coloro che non avevano le scarpe dovevano rimanere sulla strada e quelli che avevano le scarpe potevano passare sul marciapiede”. Anche dopo il successo Cesária non frequenta i posti in cui borghesi, benestanti, ricchi, coloni, si incontrano. Lei non vuole avere niente a che fare con quella parte di popolazione. Così, nelle sue ferite indelebili porta l’orgoglio dei poveri, di colore, a piedi scalzi. Coloro che, anche se l’hanno assimilata, non accettano più la discriminazione razziale e presto decideranno di rivoltare le cose.

“Un giorno, al tempo dei portoghesi – racconta – il ministro degli Esteri era venuto a São Vicente. Io dovevo cantare in un locale, ma non mi hanno lasciato entrare perché non avevo indosso le scarpe. Un’altra volta, per il passaggio di una delegazione portoghese, avevano talmente insistito che cantassi che dovetti acquistare delle scarpe. Ma al momento di cantare le ho levate. Una signora della delegazione mi ha presa in simpatia e mi ha difesa, per fortuna. Ma è stato un tale scandalo, che io non sono mai stata pagata per quella serata” [Mortaigne, pp. 57-58]. Lei deve cantare anche per i potenti e a volte se ne vergogna così tanto da nascondersi dietro una tenda. Terminato il concerto se ne torna a casa con i suoi piedi nudi. Perché ciò che ama veramente è cantare per i suoi amici, la gente del popolo, bere un bicchiere con loro ed essere felice di quel poco.

Ma c’è un momento in cui tutto cambia.

Alla fine degli anni Sessanta la lotta per l’indipendenza delle colonie portoghesi si intensifica e la terribile polizia politica del regime salazarista impone le sue regole. A Capo Verde, le serenate della vita popolare sono vietate, gruppi di musicisti perseguiti. La censura richiede che l’elenco di musicisti e delle canzoni siano forniti in anticipo – cosa in contrasto con la pratica dell’improvvisazione tipica delle serate capoverdiane -. A mezzanotte tutti devono tornare alle loro abitazioni.

Nel 1975 Capo Verde ottiene l’indipendenza. Gli ammutinati dell’esercito africano annunciano la caduta del regime istituito quarantadue anni prima da Salazar, amico di Franco e di Mussolini. In tutte le radio, prima di ogni comunicazione ufficiale, si trasmette Grândola, Vila Morena una ballata del cantante portoghese Josè Alfonso. È la Rivoluzione dei garofani. È l’indipendenza dell’isola.

Il nuovo governo non è insensibile alla cultura popolare: eroi del movimento anticolonialista come Amilcar Cabral e Abilio Duarte, funzionario della Banca nazionale di Mindelo e futuro presidente dell’Assemblea Costituente di Capo Verde, non disdegnano comporre mornas e apprezzano quelle di Eugenio Tavarès o di B. Leza. Ma quando arrivano al potere, le casse dello Stato sono vuote, il Paese impoverito. Gli sforzi economici sono indirizzati alla sanità, all’educazione. Ma anche verso la cultura ufficiale, il patrimonio storico, la letteratura. Il sostegno alla musica popolare passa in secondo piano. Nei bar restano in pochi ad ascoltare canzoni e serenate e più nessuno paga un centesimo. Cesária è costretta ad abbandonare le esibizioni in pubblico e cade, per dieci anni oscuri, nel gorgo dell’alcolismo. Dal 1975 al 1985 oltrepasserà la soglia di casa solo per andare a contemplare il mare.

Solo nel 1985 un’associazione di donne nata negli anni Ottanta, Organizaçao das Mulheres do Cabo Verde, promuove spettacoli destinati a sollevare dall’indigenza quella che si ritiene sia “la voce di Capo Verde”. Ma Cesária non accetta collette, vuole guadagnare del suo lavoro, del suo talento. Così, incoraggiata dal musicista e compositore Bana, esule capoverdiano in Portogallo che le procura inviti in quel Paese, torna a esibirsi di nuovo anche nei bar di Mindelo. In quel momento tutta l’Europa la scopre. La radio francese France Inter passa Mar Azul, canzone che parla di povertà, di vita dura, di sofferenze vissute. Sull’accompagnamento di una musica sublime.

“Così ho ricominciato a cantare davvero, pensando che in questo Paese, potevamo cantare molto e bene, pur restando sullo stesso palco: mal pagato. Non credo nei sogni o nel destino. Il destino è un masso che cade su di te mentre sogni. Ciò che mi rasserena oggi è la felicità di aver attraversato tutta la sofferenza possibile, per riuscire a vivere meglio. Da noi esiste un detto: è meglio bere prima il fiele e poi il miele. Io ora bevo miele”, dirà. [Mortaigne, p. 106].

Il successo planetario di Cesária arriva molto tardi, quando più nessun produttore avrebbe scommesso su di lei, una povera donna di colore, a malapena capace di scrivere, già invecchiata e troppo spesso sfruttata da manager disonesti.

Invece, nel 1985 una telefonata dal Portogallo le cambia la vita: accetta di incontrare il franco-capoverdiano José Da Silva, che diventerà suo mentore e produttore, e la porterà a cantare a Parigi. Il suo primo album, nel 1988, si intitola La diva dai piedi nudi, e consacra il suo stile unico, in cui la sua voce impressionante si unisce a una miscela armoniosa di sodade, con sonorità africane e cubane.

E la sua immagine, forte e potente, di donna che rivendica le sue origini. Nei primi anni Novanta seguono Mar Azul

e Miss Perfumado (con il suo capolavoro Sodade),

le tournée mondiali negli Stati Uniti, in Svezia, in Giappone e in Senegal. Incide poi Cabo Verde (1997)

e São Vicente di longe (2001)

e ancora altri album. Dopo aver ricevuto la Legion d’honneur in Francia, Cesária viene colpita da un ictus che la costringe a rallentare il ritmo, ma nel 2009 pubblica il suo undicesimo album, Nha Sentimento. Disco gioioso, di coladeras fiammeggianti e mornas nostalgiche, come Sentimento scritta da Tutuca, compositrice dell’isola di Boa Vista.

A seguito dell’album, nel 2010 esce l’emozionante documentario Nha Sentimento.

Da New York a Los Angeles, da Rotterdam all’Olympia di Parigi, i più importanti intellettuali, artisti e uomini di cultura, di teatro e di cinema adorano questa donna che rappresenta così bene la loro idea di Terzo Mondo innocente e militante, orgoglioso malgrado le difficoltà della vita, dignitoso e resistente per necessità. Il suo essere un’anti-diva, nonostante la incredibile storia di successo così eccezionale, rendono mitologica la sua figura: lei, con il suo talento e il suo coraggio, è una doccia fredda di acqua cristallina su un mondo impantanato sulle discriminazioni e le diseguaglianze.

Tra le maggiori mornas che Cesária porta nel mondo c’è Brada Maria, scritta alla fine del XIX secolo, la più antica di Capo Verde, storia di un’amante tradita che indirizza le sue preghiere a Dio. Dello stesso periodo è Unino, morna di Santo Antão che racconta la deportazione di un giovane in Angola. Storia di un amore inquieto è Papa Joachin Paris, sullo sfondo di morti misteriose e creature d’ombra.

E poi c’è Um vez Soncente era sabe (Una volta São Vicente era meravigliosa),  una morna nostalgica che racconta il tempo in cui la baia e il porto di Mindelo erano pieni di battelli, quando il caffè fumante risvegliava dalla stanchezza delle notti di festa, mentre col tempo tutto è cambiato: Oggi le persone sono così, in totale miseria, affamate, si imbarcano, se ne vanno via, senza documenti, senza un nome, come un sacco di carbone, scrive l’autore Sergio Frusoni, commentando i viaggi dei poveri cristi verso Sao Tomé e Principe, deportati volontari o costretti [Mortaigne, p. 157].

Qui interpretata da Bana, tra i maggiori interpreti di morna:

Armando Antonio Lima Lela è l’autore di numerose mornas a tema sociale. Tra queste Bissau na flôr de bô agua: Tristezza della nostra vita, che qui non ha tenerezza da nessuno, né è amata, scritta da dietro le sbarre della prigione di Tarrafal, dove scontava una pena militare per disobbedienza. Nel 1952 si imbarcherà per l’Angola ai lavori forzati e scriverà molte mornas sulla condizione dei contratados. Del giovane Teofilo Chantre Cesária incide Tortura nell’album Miss Perfumado, un sensuale tormento d’amore.

Spicca tra tutti B. Leza, nome d’arte dello zio di Cesária, compositore che prenderà la testa di un movimento di rivolta degli artisti capoverdiani contro il governo di Salazar. Sua è Hora di bai (Il momento di partire) in cui emerge la novità da lui apportata, ovvero l’introduzione del mezzo tono e del modo minore sotto l’influenza della musica brasiliana. Infine Manuel de Novas, uno dei maggiori compositori di Capo Verde, che ha scritto per Cesária numerosissime mornas. Tra queste Nos raça, in cui spiega come è nata la razza capoverdiana, frutto di una mescolanza di bianchi e di neri, portoghesi e africani, padroni e schiavi. Tuto tem se limite, è invece una coladera con un messaggio rivolto ai giovani che non hanno sperimentato le atrocità di una vita di lavoro in schiavitù.

Importante merito di Cesária è anche quello di aver mostrato al mondo la sua terra, ignorata per molto tempo. Grazie alle fotografie, ai documentari, ai film e alla sua musica, Capo Verde è diventata un paesaggio reale, non un idealizzato paradiso terrestre rigoglioso e lussureggiante, ma la verità di luogo desertico e ostile. Un’isola solitaria, intima e arida, così in contrasto con la sua musica: mornas e coladeras piene di linfa vitale.

Capo Verde è un Petit Pays, canta Cesária: In cielo, tu sei una stella/ Che non brilla più / Nel mare sei sabbia / Che non bagna / Disperso dal mondo / Rocce e mare / Terra povera piena d’amore (morna di Nando da Cruz).

Un piccolo Paese dominato dal Portogallo per cinque secoli. Ne ha subito gli umori, il fascino, le crudeltà e le contraddizioni. Allo stesso modo Cesária è una specie di condensato di questi cinquecento anni di storia: innocenza, generosità, negligenza, disprezzo per se stessa, abbandono, poesia ardente e incomprensione. Protesta.

Se per anni si è intestardita a voler cantare a piedi nudi, non è stato certamente per comodità o scelta estetica, ma per una ragione politica. Contro il colonizzatore portoghese, inserito nella buona società locale, che vietava di camminare senza scarpe per le strade, riservando, in una sorta di apartheid, una parte del selciato per i neri poveri, scalzi come lei. Lei, scalza, per protesta, è sempre rimasta.

Muore il 17 dicembre 2011 per problemi cardiaci nella sua casa di Mindelo, sulla sua amata isola di São Vicente.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli