Per i morti di Reggio Emilia (https://soundcloud.com/storicamente/per-i-morti-di-reggio-emilia) di Fausto Amodei, scrive Umberto Eco, «è canzone politica, di satira sociale e ideologica, non di rado diventa un “bignami” canoro della rivoluzione […]. Mai in Italia era stata suonata una canzone di protesta e di incitamento alla lotta altrettanto ingenua, proterva, dogmatica, dichiaratamente retorica, senza pudori e senza infingimenti, e per questo accettabile perché vera, nata da un moto di indignazione, destinata ad essere cantate sulle barricate».
Canzone di protesta, quindi. Possiamo annoverarla anche tra le canzoni resistenziali?
Certamente è centrata sul racconto dei fatti tragici accaduti a Reggio Emilia il 7 luglio 1960, quando, dopo l’insediamento del Governo Tambroni grazie ai voti del Msi, si era levato nel Paese un vento di rivolta che aveva smosso lavoratori, studenti, giovani e anziani, incoraggiandoli a tornare nelle piazze per manifestare il loro dissenso.
Il Msi aveva inoltre deciso di indire il proprio congresso nazionale a Genova, città Medaglia d’Oro della Resistenza, chiamando a presiederlo “il criminale fascista Basile, che si era reso responsabile durante la Repubblica di Salò della deportazione in Germania di migliaia di operai genovesi”, come ricostruisce Gianpasquale Santomassimo. Così, la città insorse e il 30 giugno 1960 avvenne uno scontro durissimo tra manifestanti e polizia. Il Msi fu costretto a rinunciare al congresso, ma da quel momento si susseguiranno scontri in tutta Italia contro il governo Tambroni: a Licata in provincia di Agrigento (5 luglio), dove ci sarà la prima vittima, a Roma a Porta S. Paolo, luogo simbolo della Resistenza romana (6 luglio). Si arriverà, infine, al 7 luglio, con lo scontro a Reggio Emilia tra i partecipanti a uno sciopero indetto dalla Cgil e le forze armate che lascerà sul campo cinque vittime.
Così Piergiuseppe Murgia ricostruisce quei momenti drammatici:
«Il primo a cadere è Lauro Farioli, 22 anni, padre di un figlio. Ai primi spari, si è lanciato incredulo verso i poliziotti come per fermarli; gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto, gli sparano sulla faccia (…). Intanto l’operaio Mario Serri che piangeva di rabbia si è affacciato oltre l’angolo della strada per protestare gridando: “Assassini, assassini!”. Un’altra raffica lo ha subito colpito e anche lui è caduto (…); è morto mezz’ora dopo all’ospedale. Marino Serri, 40 anni, operaio, ex partigiano: lo hanno ucciso gli stessi agenti che un attimo prima hanno ucciso Farioli. Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni, muore poco dopo. Un proiettile l’ha ferito all’addome (…). Emilio Reverberi, 30 anni, operaio, ex partigiano: lo spezza in due una raffica di mitra. Morirà più tardi in sala operatoria. L’operaio Afro Tondelli, 35 anni, viene assassinato freddamente da un poliziotto che s’inginocchia a prendere la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo (…). Il fuoco dei moschetti e dei mitra dura quasi ininterrottamente per quaranta minuti. Poliziotti e carabinieri sparano contro i cittadini inermi almeno cinquecento colpi di mitra e di pistola».
La canzone di Amodei racconta ed elabora questo episodio, sigillato nelle trame della storia tragica del Paese.
Ma non fa solo questo, c’è di più.
La memoria della tragedia è fissata nel testo e nella musica di una canzone diventata monumento, luogo della memoria, attorno a cui radunarsi per ricordare nomi, persone, eventi della storia partigiana. Per i morti di Reggio Emilia, infatti, costruisce un legame fortissimo con il passato e con la memoria resistenziale: «Vengono idealmente congiunte le lotte degli scioperanti con quelle dei partigiani», come rammenta Stefano Pivato, e le vittime di quel luglio ’60 diventano anche tutte le vittime partigiane cadute nella guerra contro il fascismo: «Son morti come vecchi partigiani». Basta l’attacco che chiama a raccolta a fare di chi ascolta, una comunità: «Compagno, cittadino, fratello partigiano/teniamoci per mano in questi giorni tristi» e le parole si fanno carico di condensare il ricordo di fatti e sentimenti, diventano nucleo simbolico per una cerchia di persone che li vivono e rivivono: «Sangue del nostro sangue/ Nervi dei nostri nervi», recita il testo. In questa appropriazione c’è tutto il senso della condivisione e della comune appartenenza (di una comunità) che fa del canto un veicolo per rinnovare nel presente il passato. Non a caso la canzone richiama consapevolmente le parole di altre canzoni popolari partigiane, e ha la funzione di riannodare un filo. C’è Fischia il vento (https://www.youtube.com/watch?v=TeLAGblQhZQ): «Uguale la canzone che abbiamo da cantare: scarpe rotte eppur bisogna andare» mentre nel finale si cita Bandiera Rossa (https://www.youtube.com/watch?v=ha8HLOSXHCs).
«Le rivolte di piazza di quei giorni – spiega, infatti, Fausto Amodei – erano la ripresa della guerra di Resistenza, le vittime della polizia di quei giorni erano gli eredi dei caduti partigiani, a quei “tempi tristi” si era arrivati perché si erano poco per volta messi in soffitta i valori della guerra antifascista […]. Per ribadire anche musicalmente il carattere resistenziale e neo-partigiano della canzone e dei fatti narrati, partii dalla constatazione che la più celebre canzone partigiana, Fischia il vento, si serviva di una melodia russa, Katiuscia, (https://www.youtube.com/watch?v=2SLvtP6KMUM) imparata presumibilmente da alpini dell’ARMIR […] e volli dare un carattere decisamente di inno sovietico alla melodia, prendendo a prestito un breve risvolto melodico tratto da I quadri di un’esposizione di Modesto Musorgskij».
In breve tempo Per i morti di Reggio Emilia diventerà la colonna sonora di una nuova generazione di giovani nati dopo la guerra, che per la prima volta entravano in scena come soggetto politico, giovani che non sapevano niente, non avevano neanche memoria del fascismo e della guerra. Erano i giovani con le magliette a strisce: «Non era un’uniforme – dice Vittorio Foa – i ragazzi portavano quelle magliette e secondo il costume giovanile si vestivano tutti uguali. La loro scatenata allegria, la loro gioia di muoversi insieme, quella protesta così alta che sembrava toccare il cielo, aveva un significato: basta con la politica incomprensibile, ci siamo anche noi, vogliamo capire e dire anche la nostra».
Perché così giovani, infatti, è il titolo di un articolo de L’Espresso che si chiedeva come mai la gioventù fosse pronta a scendere in piazza. Questi ventenni erano uomini nuovi che si battevano a difesa dei valori della Resistenza e per una libertà quasi ancora da riconquistare. L’antifascismo era diventato il nuovo credo del Paese e «ogni tentativo di svolta autoritaria e ogni attacco alle libertà costituzionali avrebbero incontrato l’opposizione di un grandioso e incontrollabile movimento di massa», scriveva Paul Ginsborg.
Scrivere Per i morti di Reggio Emilia significò dare un calcio al fucile e caricare un’arma forse più deflagrante, quella di una canzone che raccontasse alla gente che cosa era accaduto quel 7 luglio a Reggio Emilia e quali fossero i valori a cui tenersi ben saldi.
Dal 1968 in poi la si sentiva cantare spesso nelle grandi manifestazioni di operai e di studenti che attraversarono per anni tutto il Paese e quasi un tratto d’unione fra tre generazioni: quella della Resistenza, quella degli anni 60 e quella degli anni 70, fino alla fine del decennio e oltre, a testimonianza di quanto la forza della canzone stia nel saper radunare persone diverse, appartenenti a contesti sociali e momenti storici lontani, ma riunite da ideali e principi condivisi, propri di una comunità.
La sua ampia diffusione, nel tempo, pur senza aver mai goduto del sostegno di una massiccia campagna di promozione discografica, dimostra chiaramente come la musica possa generarsi dal basso e farsi prezioso strumento «di conservazione e valorizzazione dell’esperienza collettiva», spiega Marco Peroni. Ascoltarla, cantarne il testo o la melodia è davvero partecipare a un rito. Non è un caso che questa canzone sarà tra quelle adottate come canto di lotta dal movimento del Sessantotto, ma diffusa come creazione di “autore anonimo”. Un fatto, ha dichiarato Amodei, di cui andare orgoglioso, ovvero quello «di essere immeritatamente divenuto voce del popolo».
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2015
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