Il palcoscenico dei mie concerti è il solo luogo nel quale davvero mi senta a casa. Il solo in cui non ci sia l’esilio. Miriam Makeba

 

Miriam Makeba è la voce, nel mondo, della lotta per la liberazione del Sudafrica. Non solo. È una leggenda: una bambina africana, nata nel fango, che è diventata l’artista, donna, simbolo dell’orgoglio nero.

Miriam viene al mondo il 4 marzo del 1932, microscopica, nera e poverissima, dentro la capanna di un compound, quartiere ghetto non lontano da Johannesburg, nel Sudafrica martoriato dell’apartheid, terra di eterni contrasti. Tra la massima povertà e la più scintillante ricchezza, tra la sabbia e i diamanti, la schiavitù e la libertà. Tra il bianco e il nero.

Le viene dato il nome di Zenzi, da uzenzile, che vuol dire: Non devi biasimare nessun altro che te stessa. Miriam, traduzione britannica, è artefice del proprio destino.

Sua madre Caterina, che è infermiera, quel giorno fa tutto da sola: i medici sono solo per i bianchi. Taglia il cordone ombelicale e la schiaffeggia. Miriam respira, ma è terribilmente deperita. Suo padre Caswell, che è in cerca di lavoro, prega che non muoia. Lei ce la fa e così le viene affibbiata subito un’altra etichetta: microscopica, nera, poverissima, sudafricana della tribù degli xhosa.

Costumi e colori tradizionali degli xhosa

Perché in Sudafrica ci sono gli swazi e gli xhosa, un tempo gli zulu e i sotho. Quando arrivarono gli olandesi cacciarono molti appartenenti a quelle antiche tribù. Gli inglesi, successivamente, chiamarono boeri (in olandese, contadini), sia gli olandesi sia gli ugonotti che nel frattempo erano giunti. Per sé, olandesi e francesi, riservarono il termine di afrikaners. Erano la maggioranza dentro la minoranza bianca, e diventeranno agricoltori, poliziotti, controllori dei neri. Il potere politico, invece, sarà sempre prerogativa degli inglesi. Da quel nome derivò anche una nuova lingua, l’afrikaans, un misto tra tedesco e olandese, dal suono gutturale. Con quella lingua gli afrikaners scandiranno gli ordini di un genocidio, gridando agli indigeni di abbandonare terre e capanne, agli eserciti di aprire il fuoco su un popolo disarmato. L’antico vincolo tra le tribù autoctone e quella terra veniva leso per sempre. Del resto: “Qualunque nuova era della Storia cominciasse – scrive Miriam nella sua autobiografia – la nostra terra offriva la risorsa naturale che in quel momento occorreva: diamanti e oro per le teste coronate nell’era delle monarchie, carbone durante la rivoluzione industriale, petrolio nell’epoca delle automobili, uranio nell’era atomica. Fu per accaparrarsi queste ricchezze che i colonizzatori europei combatterono l’uno contro l’altro. Noi africani non fummo consultati né degnati della minima attenzione. Fummo spinti da parte, derubati della nostra terra, e quando protestammo fummo massacrati. Da allora sono passati trecento anni, ma il peso di quell’oppressione grava ancora sulle nostre spalle, senza essere in alcun modo divenuto più leggero” [Makeba, Hall, Miriam Makeba. La mia storia, p. 10].

Gli africani vivranno nei ghetti costruiti dai bianchi. Senza poter votare, sotto le direttive di un governo coloniale britannico a decidere del loro futuro.

Il compound che si trova nel sobborgo di Pretoria, sede del Governo del Sudafrica, è un insieme di baracche di fango disseccato disposte in cerchio. Miriam ha cinque anni, le è appena morto il padre per una malattia che neanche comprende, vive lì con i fratelli, le sorelle, la nonna e i suoi ventuno nipoti. Vede sua madre solo ogni tanto, lei sta a Johannesburg, pulisce nelle case dei bianchi. Caterina va a trovarla una volta al mese, con il treno riservato ai neri. Quando arriva, si balla, si canta, perché lei conosce le danze tradizionali, suona l’armonica, la pianola, il tamburo. Sembra di essere altrove. Ma ci vuole poco per ripiombare nella paura. Bastano le grida dei poliziotti bianchi che controllano i lasciapassare. Sono i permessi di soggiorno. Senza questi non si può nemmeno attraversare la città. Chi non lo possiede è residente illegale, viene picchiato e rinchiuso in prigione.

Nella scuola riservata ai neri c’è un coro di studenti. Il maestro che sente cantare Miriam la coinvolge subito. Si cantano i brani di compositori sudafricani nelle diverse lingue tribali. Alcuni sono anche sovversivi nei confronti del governo dei bianchi, ma i bianchi non lo sanno. A scuola si insegna la storia e la cultura dell’Inghilterra, niente che riguardi le tribù locali. L’istruzione è arma pericolosissima.

Nel giorno della visita in Sudafrica di re Giorgio d’Inghilterra e di sua figlia, la principessa Elisabetta, nel 1947, è Miriam a esibirsi per loro. Intona Com’è triste la vita di un nero, un canto in lingua indigena, che incita a reagire alle sofferenze prodotte dalla colonizzazione: Svegliati, gente mia! Uniamoci tutti/Perché l’errore è tra di noi. La canzone poco dopo verrà messa al bando.

Le elezioni del 1947 segnano una svolta tragica nella storia del Sudafrica: il Partito nazionalista degli afrikaners si ritiene proprietario di quella regione in quanto gli olandesi vi arrivarono per primi nel corso del Seicento. Niente abitanti indigeni al loro arrivo, da tempo emigrati al nord. Una regione popolata, dunque, da quei primi coloni bianchi. Così, con questo racconto, nel 1947 nasce l’apartheid, termine afrikaans, derivato da apart, cioè separato e heid, cioè cappuccio. Nasce il termine e il sistema politico. Si dichiarava che il Sudafrica non era mai appartenuto agli indigeni locali che, anzi, adesso si chiamavano bantu. D’ora in avanti tutti gli africani, dal Congo fino all’estremo sud, tribù da sempre diverse le une dalle altre, erano da considerarsi tutte popolazioni bantu. Nelle case le radio in filodiffusione informavano su cosa si poteva e non si poteva fare, perché l’apartheid richiedeva misure rigide e regole da rispettare per tenere ben separati i neri dai bianchi. I neri, per esempio, venivano ricollocati in zone deserte chiamate homelands. Se non restavano a lavorare come servi o nelle miniere. Per salari da fame, a scavare la terra, alla ricerca di minerali da vendere all’estero. “Noi – dice Miriam – siamo la forza lavoro, gli schiavi. Noi siamo quelli che muoiono” [Makeba, p. 287]. Diverse scuole, poi, venivano chiuse, ridotto il tempo dell’insegnamento, riformulato il percorso di studi: nel Bantu Education Act verrà eliminato l’inglese e proposti programmi impoveriti. L’indigeno doveva restare ignorante. Quando si parlava con un afrikaner si doveva rispondere sempre: “Sì, padrone”.

Miriam si dà da fare come cameriera, come bambinaia, come lavandaia nelle case dei bianchi. E a diciassette anni resta in cinta. Il suo fidanzato, Gooli Kubay, riconosce la bambina dalla pelle chiara che viene al mondo poco dopo con il nome di Bongi. Non è facile però la vita in casa dei suoceri, alla madre in particolare Miriam non piace. Troppo povera, mentre lei è una coloured, ovvero di razza mista, nata da un bianco italiano e una donna di tribù shangan. Anche Gooli, che è un poliziotto, non ha vita facile. I poliziotti neri non vengono dotati di fucile, non possono arrestare i bianchi, devono guadagnarsi la loro approvazione tormentando la loro stessa gente. Una violenza psicologica. Che in casa diventa anche fisica. Il giorno che Gooli alza le mani su Miriam lei se ne torna di corsa nel compound della nonna. Poi da una zia a Johannesburg. Qui suo cugino la invita a esibirsi nella sua band, i Cuban Brothers, un complesso composto da un percussionista, un pianista, alcuni ottoni, voci maschili e lei come solista. Cantano canzoni americane: il soul, lo swing, il jazz, il gospel. Miriam viene subito notata da una band molto famosa nel Paese, che incide dischi e suona dappertutto. Sono i Manhattan Brothers. Che la scritturano subito e la battezzano Miriam Makeba invece di Zenzi. Ogni sera nelle sale da concerto delle townships nere la sua voce risuona dalle otto a mezzanotte. Cinque sterline a spettacolo. A volte in quei locali ci sono risse, accoltellamenti, sparatorie a opera di bande di gangster. Ma Miriam adesso può pagarsi l’affitto di una casa in uno dei distretti che il governo sta costruendo per i neri. Può anche registrare il suo primo album per la Gallotone Records con la canzone Lakutshuna Ilangu, da un canto xhosa. Canzone d’amore di un uomo che pensa alla sua donna scomparsa: Ti cercherò ovunque, negli ospedali, nelle prigioni/ fino a che non ti avrò trovata. Ospedali e prigioni, i luoghi in cui per primi si va a cercare un nero quando sparisce. La canzone viene suonata dalle radio e ha un tale successo da oltrepassare l’oceano. In America le chiedono di registrarne una versione in inglese: You Tell such lovely lies. Piace molto anche se non ha nulla a che vedere con l’originale: Tu sai dire splendide bugie con i tuoi splendidi occhi/E quando mi allontano dalle tue braccia un’altra prende il mio posto.

Con i Manhattan Brothers.

Sembra andare tutto alla grande, ma ora che si viaggia per il Paese, si corre spesso il rischio di essere fermati dalla polizia. Che potrebbe non trovare in ordine i lasciapassare notturni, decidere di arrestare qualcuno, o di usare violenza: “I bianchi non vogliono trattarci come esseri umani – dice Miriam – perché è più facile tenerci sotto controllo se pensano che siamo come degli animali” [Makeba, p. 70]. Una sera a un suo concerto ci sono dei giovani con la bandiera dell’African National Congress, associazione nata nel 1912 in difesa dei diritti dei neri. Il colore nero rappresenta gli africani, il verde la terra fertile, l’oro, la ricchezza mineraria. Sono molto impegnati, parlano della Carta delle Libertà, un documento in cui si afferma che il Sudafrica appartiene a tutti quelli che ci vivono, neri e bianchi. A fine concerto, uno di questi giovani la saluta, gli piace il suo modo di cantare. Si chiama Nelson Mandela. Qualche anno più tardi sarà arrestato durante una riunione dell’ANC in un sobborgo di bianchi. Condannato all’ergastolo, resterà in prigione per molti anni per poi diventare Presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999, nelle prime elezioni democratiche con suffragio esteso a tutte le etnie.

Nel 1956 Miriam è in tournée con lo spettacolo African Jazz Variety che ha molto successo. Incide dischi di african jazz con il gruppo femminile The Skylarks: canta Holilili

e Stoki

ed è la fidanzata di Sonny Pillay, il primo indiano sudafricano famoso. Un regista americano, Lionel Rogosin, che vede lo spettacolo, rimane folgorato e le chiede di partecipare a un documentario sulla vita dei neri in Sudafrica. Il film, viste le tematiche, sarà girato in segreto, con il titolo di Come back Africa, come l’inno dell’African National Congress.

Miriam è in una sheben, locale in cui si servono alcolici illegalmente, quando un gruppo di giornalisti la riconosce e le chiede di cantare una canzone. È una sola scena, sembra niente, invece, sarà l’inizio di tutto.

Nel 1959 arriva un altro ruolo importante in King Kong, un’opera jazz tutta recitata da neri che racconta la storia vera del grande pugile africano Ezekiel Dlhmini. È un successo, soprattutto il suo brano Back of the moon.

Miriam comincia a guadagnare, mette da parte qualche soldo, ora che aspetta di nuovo un bambino. Ma la mattina che scopre la sua gravidanza extra-uterina è anche il giorno in cui rischia la vita. Non le viene permesso di essere curata nell’ospedale più vicino, ma deve essere trasportata in quello per i neri, a chilometri di distanza. Abortirà. Sonny, che nel frattempo è partito per l’Inghilterra in cerca di successo, le scrive Oh, so alone.

Poco dopo, nel 1960, il film Come back Africa viene accettato al Festival di Venezia. Lei è attesa lì. Via dall’Africa, via dall’apartheid. Via anche dalla piccola Bongi che viene lasciata dalla nonna. Prima di partire Miriam incide Iphi Ndhlela che significa Vi chiedo di indicarmi la via: Stai di buon animo, gente mia/Io parto/Vado nella terra dell’uomo bianco/Vi chiedo di essere con me/E indicarmi la via/Noi ci incontreremo e ci riconosceremo/Al mio ritorno.

A Venezia Miriam desta stupore. I bambini chiedono di poterle toccare i capelli. Sono corti, lanosi, chissà se ispidi o morbidi. Non hanno mai visto una donna africana. La sera, al festival, il film vince il premio della critica. In tanti vogliono vederlo, soprattutto in America. Sarà Harry Belafonte, conosciuto a Londra durante una presentazione del film alla BBC, che le apre le porte dei migliori club e show televisivi degli Stati Uniti: lo Steve Allen Show, il Village Vanguard. Penserà per lei cosa indossare, cosa dire, cosa cantare.

Per Steve Allen e per gli spettatori dello show di Los Angeles Miriam canta la canzone indigena Into Yam.

A New York, il piccolo jazz club Village Vanguard ospita un pubblico di star: Sidney Poitier, Duke Ellington, Nina Simone, Miles Davis. Per loro Miriam canta Jikele Mayweni (The retreat song) canto triste di un guerriero sconfitto.

Poi Back of the moon, e una canzone xhosa, Qonqgonthwane (The click song), brano tradizionale che si canta in Sudafrica quando una giovane donna si sposa.

https://www.youtube.com/watch?v=Qg4Fp-A7IRw

Infine Seven good years, canzone yiddish imparata dalla madre del produttore di African Jazz and Variety, ebrea.

Lo spettacolo si chiude con un canto tribale, Nomeva, a cui seguono applausi a non finire.

E nuovi concerti al Blue Angel. E contratti con la William Morris Agency e trattative con la Rca per l’incisione del suo primo album, che si chiamerà Miriam Makeba. Il New York Times, il Newsweek la acclamano come il più rivoluzionario nuovo talento apparso sulla scena negli ultimi tempi. Sorprendente. Come l’immagine pubblica che ricopre ora, quando le viene chiesto di recarsi alle Nazioni Unite, a New York, a incontrare i delegati dei paesi africani che in quel momento, il 1960, stanno raggiungendo l’indipendenza. Ci sono donne e uomini dal Ghana, dalla Nigeria, dal Senegal, dalla Costa d’Avorio, dal Congo belga diventato Zaire. Miriam è il simbolo dell’Africa che vuole essere libera.

Così cominciano i suoi spettacoli d’impegno con gli studenti delle università, degli istituti tecnici, con gli operai, i lavoratori delle miniere. Dopo la proiezione del documentario in molti vogliono capire di più dell’Africa, come stanno veramente le cose. Corre voce che si stia organizzando una protesta, una marcia non violenta contro l’obbligo del lasciapassare. Un evento storico visto che in Sudafrica non si sono mai svolte proteste organizzate. Si terrà in un sobborgo nero fuori da Vereeniging, una township chiamata Sharpeville. Ma la marcia pacifica sfocia nella tragedia. Contro i partecipanti disarmati viene mandato l’esercito che spara e massacra. Hugh Masekela scrive per lei Soweto Blues.

I rifugiati che arrivano in America le portano notizie dalla sua famiglia: due dei suoi zii sono rimasti uccisi. Per un malore, poi, anche sua madre è morta. Le dedicherà l’album Sangoma che nella cultura degli xhosa è un guaritore e uno sciamano, come era la madre.

Miriam vuole tornare a casa, ma dal Consolato le fanno sapere che il suo passaporto non è valido. Nessun viaggio di ritorno. Ritenuta pericolosa, la sua voce disturba il regime di Pretoria. Troppo gravi i fatti che Miriam potrebbe rivelare al mondo tornando al suo Paese. Che, in pratica, la esilia.

C’è la Georgia, però, stato a sud degli Stati Uniti che non è così diverso dal Sudafrica. Se la discriminazione razziale là si chiama apartheid, qui prende il nome di Jim Crow; se in Sudafrica i neri abitano in zone appartate chiamate townships, qui vengono rinchiusi in ghetti; se in Sudafrica una marcia pacifica si trasforma in sterminio, in America la stessa marcia, quella del Lincoln Memorial, si conclude con il bellissimo discorso di Martin Luther King che tempo dopo, però, verrà assassinato. “Secondo me la situazione è la stessa in entrambi i paesi – dirà Miriam -, con la differenza che la Costituzione americana condanna il razzismo, mentre quella sudafricana lo approva” [Makeba, p. 125]. Big Brother Belafonte la coinvolge in un raduno organizzato dal reverendo Martin Luther King che in quel momento si sta battendo fortemente per i diritti civili, e in diversi spettacoli. Diventano occasioni per raccontare diversità e analogie tra Sudafrica e America e per denunciare i crimini commessi contro la gente del Sudafrica. Anche una canzone d’amore con Miriam diventa una metafora del desiderio di libertà di tutto un popolo in catene. Come Forbidden games

o i classici come Mas que nada.

Alla festa di compleanno per il Presidente Kennedy la accompagna un trio di voci maschili con il quale intona Wimoweh, uno dei suoi traditional più noti.

“Rivolgo un appello alle Nazioni Unite – dirà poco dopo, nel 1963, davanti agli undici membri della Commissione speciale per i problemi dell’apartheid presso l’Onu – affinché usino la loro influenza per far aprire le porte di tutte le prigioni e di tutti i campi di concentramento che ci sono in Sudafrica, nei quali migliaia di persone – uomini, donne, bambini – sono attualmente detenuti” [Makeba, p. 137]. Miriam chiederà anche di fermare l’invio di armi, usate contro donne e bambini. A seguito di questo appello i governanti del Sudafrica la dichiarano una criminale. Come punizione riceve la messa al bando dei suoi dischi in tutto il Paese. La sua voce, considerata illegale, verrà condannata al silenzio.

Ma lei non si ferma e nel 1964, davanti alla stessa Commissione, chiede il rilascio di tutti i prigionieri politici in Sudafrica.

Nulla cambia, se non in peggio. Il 1965 è segnato dall’uccisione di Malcom X, uno dei primi neri americani che si era impegnato a incontrare i capi di Stato africani nel tentativo di unire i popoli dell’Africa, anche coloro che da lì se ne erano andati: “Nella misura in cui voi respingete e odiate l’Africa – aveva detto ai neri americani – voi respingete e odiate voi stessi. Non si possono odiare le radici di un albero senza odiare tutto l’albero” [Makeba, p. 165].

Così continua l’impegno di Miriam per far conoscere il dramma del suo popolo. Con la Reprise Records organizza un concerto all’Apollo Theater di Harlem durante il quale canta Malaika, canzone in swahili, lingua dell’Africa orientale, che parla di un uomo che vorrebbe sposarsi ma non ha i soldi.

Compare all’Ed Sullivan Show dove canta Love Tastes Like Strawberries

al Tonight Show e al Mike Douglas Show. Nel 1966 riceve il Grammy per la migliore incisione folk per l’album An Evening with Belafonte/Makeba che tratta esplicitamente temi politici relativi alla situazione dei neri sudafricani sotto il regime dell’apartheid. Il disco contiene il brano Khawuleza che racconta delle violente incursioni poliziesche, del regime segregazionista, nelle townships. Servivano ad arrestare i militanti ‎dell’ANC, oppure a ‎reprimere attività considerate illegali, come la fabbricazione clandestina di birra e alcolici. Una canzone di protesta che Miriam non teme di cantare.

Come anche Ndodemnyama Verwoerd!, che ha per tema l’uccisione di Hendrik Frensch Verwoerd, teorizzatore ‎del sistema segregazionista dell’apartheid, primo ministro del Sudafrica dal 1958.

https://www.youtube.com/watch?v=DYwgmOxhUvk

Nel 1967 esce il disco Pata Pata che contiene l’omonimo brano. Una canzoncina buffa scritta nel 1956 in Sudafrica che si riferisce a una danza locale: Pata in zulu e xhosa significa “tocco”. Un successo da subito, ma mai quanto la versione in inglese. Nelle discoteche di tutto il mondo Pata Pata è il nuovo ballo di coppia.

Il successo non l’abbandona, come invece il marito, il trombettista Hugh Masakela, che non regge la competizione. Lei gli aveva dedicato Where does il lead: Dove porta/questo mio insolito e giovane amore?/Soltanto il cielo e i gigli lo sanno.

Una campagna diffamatoria, poi, viene montata in occasione della guerra tra Israele ed Egitto. Le viene imposto di non cantare una canzone ebraica, Erev Shel Shoshanim perché Israele è in guerra con uno stato africano. Diversi articoli di giornale manipolano la notizia e fanno ricadere su di lei la scelta di eliminare quel brano dal repertorio, accusandola di antisemitismo. Harry Belafonte la escluderà dal loro tour. La carriera in America le viene sbarrata. Ed è solo l’inizio.

Conosce Stokely Carmichael, attivista per i diritti civili. In America è considerato un estremista, una minaccia, soprattutto durante la militanza nel Black Panther Party for Self Defense, vera e propria milizia popolare nera. Miriam invece se ne innamora fino a sposarlo, compromettendo ulteriormente la sua carriera in America. Seguita dall’Fbi, bloccata negli aeroporti con passaporto revocato, concerti e incisioni discografiche annullati con l’idea che possano finanziare attività sovversive. Il sogno della piccola donna africana che diventa una star in America crolla definitivamente. A lei, che aveva combattuto la causa della sua terra, non con la militanza politica, ma con la voce, quella voce viene tolta. Negli anni della guerra in Vietnam, della radicalizzazione degli scontri sociali ed etnici, delle proteste studentesche, delle rivolte nei ghetti, Miriam viene considerata non un’artista, ma una rivoluzionaria. Come Stokely che, originario di Trinidad, un tempo colonia inglese, viene messo al bando dai paesi del Commonwealth britannico: potrebbe incitare le popolazioni locali a ribellarsi, dicono. Il 4 aprile 1968, con la morte di Martin Luther King, l’America si ferma. Era come se la rabbia degli americani neri non potesse più esprimersi con mezzi nonviolenti. Focolai di rivolta infiammano tutta Washington e poi l’America intera.

Miriam non si dà per vinta e ricomincia dall’Africa. Il presidente della Guinea, Ahmed Sékou Touré, le offre passaporto, residenza, possibilità di una nuova carriera. Certo, non è facile nemmeno lì: vi sono le terribili epidemie, la povertà estrema, i problemi politici: la Guinea verrà invasa da soldati mercenari provenienti dalla colonia portoghese della Guinea-Bissau. Ai cittadini il presidente Touré farà distribuire armi chiedendo di sparare agli invasori. Il terrore. Sembrerà sempre, per Miriam, che nessun posto sia mai davvero casa. Ma è felice quando riceve passaporti onorari, anche per il fatto simbolico: “Io ho fatto la scelta di parlare sempre dei problemi del mio paese – dice –, di conseguenza quei governi che sentono solidarietà verso il mio popolo e desiderano la libertà per la mia gente, mi considerano come la rappresentante dei miei fratelli e sorelle. Ogni volta che ricevo un passaporto onorario da un qualsiasi paese, lo accetto in nome del mio popolo” [Makeba, p. 225].

Rose Theatre al Lincoln Centre a Manhattan

In America vi ritorna nel 1975, un concerto al Lincoln Center. E poi vi resta su richiesta del presidente Touré come delegata della Guinea presso le Nazioni Unite. Il 1976 viene dichiarato dall’Onu “Anno internazionale contro l’apartheid”. Crimine internazionale, inserito nella lista di quelli contro l’umanità, resterà vigente fino ai primi anni Novanta, quando il Paese otterrà la denominazione di Rainbow Nation (nazione arcobaleno, ovvero abitata da persone di diversi colori). Quell’anno è lei a pronunciare per la Guinea, il discorso di apertura davanti all’Assemblea generale. Parlerà per la prima volta di Soweto, South Western Townships: “Negli anni della mia adolescenza – dirà – questa parola non esisteva, ma il trattamento disumano di cui le nostre vite sono costantemente oggetto era noto a tutti”. Ora sono i giovani che si ribellano organizzando manifestazioni con spari, incendi, gas lacrimogeni. “Non accade più come dopo Sharpeville – continua –. Adesso la gente non si ferma. Si fa sparare addosso ma continua. Ciò costituisce un fatto nuovo e sorprendente” [Makeba, p. 245].

Poi, con la morte di Touré, il colpo di Stato che segue colpisce anche lei: nessuno di coloro in passato vicino al Presidente si sente al sicuro, i soldati cercano ministri e collaboratori. Tutti vogliono scappare. Lei fuggirà in tournée in Europa.

Ma tornerà nella sua terra. La televisione svizzera la raggiunge per girare un film sulla sua vita, la musica e l’attivismo. Uscirà solo nel 2011, dopo la sua morte, con il titolo di Mama Africa. Lei, da sempre definita “l’imperatrice della canzone africana”, per tutti diventerà Mama Africa.

In quel momento la vita affettiva purtroppo le riservava un dolore immenso: la perdita, nel 1985, della figlia Bongi. Morta per aver dato alla luce un figlio senza vita, morta di solitudine e disagio mentale, morta per lo strazio di una madre sempre lontana, in esilio: “Mia figlia è morta perché l’esilio l’ha fatta impazzire – dirà Miriam – e per vendicare la sua morte e le morti di tanti familiari e della mia gente, io devo continuare a parlare contro il razzismo e la violenza assassina che insanguina e insudicia la mia casa” [Makeba, p. 300].

Nel 1986 a Bruxelles le viene conferito il Premio per la pace. Nel 1987 collabora al tour dell’album Graceland di Paul Simon,

,mentre nel 1990 partecipa al Festival di Sanremo con Give Me a Reason, versione di Bisognerebbe non pensare che a te di Caterina Caselli.

Nel 1992 recita nel film Sarafina! Il profumo della libertà, ispirato alle sommosse di Soweto del 1976.

I tempo:

https://www.youtube.com/watch?v=xU4K6PYVpms

II tempo:

https://www.youtube.com/watch?v=307E8YD2YHc

Nel 2002 prende parte al documentario Amandla!: A Revolution in Four-Part Harmony, ancora sull’apartheid.

Nel 2005, ormai malferma in salute, si dedica a un tour mondiale di addio alle scene, cantando in tutti i paesi visitati nella sua carriera, spesso da esule.

Canta perfino a Castel Volturno, in una delle zone d’Italia più dimenticate da Dio. Canta contro la camorra, il razzismo e lo sfruttamento: “Voleva venire anche in questo angolo sperduto – scrive Roberto Saviano che la invita a tenere quel concerto nel 2008 – dove quasi due mesi prima c’era stata una strage di sei africani. Ché per lei erano africani, non ghanesi, ivoriani o del Togo” [Saviano, La bellezza e l’inferno, p. 32]. Dove tempo prima era morto, solo, l’imprenditore Domenico Noviello.

Quella sera, il 9 novembre, poco dopo il concerto, Miriam si sente male e muore per arresto cardiaco. Muore vicino alla sua gente, tra gli africani della diaspora che lì ancora lavorano, abitano, sopravvivono in quella che venne definita la Soweto d’Italia. Nuova township che Miriam avrebbe voluto abbattere con la forza della sua voce, portatrice dei valori della dignità e della fratellanza.

Makeba, Apartheid years:

Intervista del 1969:

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati,edizioni Unicopli