La fame di storie che il cinema vive da sempre, si esaspera in tempi in cui sembra che le realtà e le fantasie possibili da narrare stiano scarseggiando. Per cui è inevitabile che si vada spesso a realizzare il remake di film già di successo, una sicurezza per le case di produzione, che non hanno paura che il pubblico si stanchi del già visto. Non sempre va loro bene, ma di solito l’usato sicuro è una garanzia. Le biografie cinematografiche sono un altro ambito di sicura realizzazione, perché l’interesse su alcuni personaggi resta vivo, a lungo e con attenzione. Quelle che riguardano il mondo della musica, peraltro già sostenute nell’immaginario collettivo dal sistema mediatico, sono foriere di storie appetibili per le major cinematografiche. Se ci mettono le mani autrici e autori veri, o quantomeno professionisti seri, possono uscirne cose interessanti.

Se si pensa alla discografia e all’importanza storica delle sue canzoni, la biografia di un musicista come Robert Allen Zimmerman, al secolo Bob Dylan, non poteva non trovare la via degli schermi cinematografici. Non mi riferisco solo agli innumerevoli documentari. Tra questi, peraltro, due diretti da Martin Scorsese (non dico poco, quindi): No Direction Home. Bob Dylan (2005) e Rolling Thunder Revue. A Bob Dylan story (2019). Già nel 2007 Todd Haynes con Io non sono qui aveva narrato una complessa biografia di Dylan, strutturata attraverso sei personaggi, interpretati da attori diversi (tra cui Cate Blanchett), ognuno dei quali incarna uno degli aspetti della variegata personalità dell’artista statunitense.
Non è certo un caso se James Mangold, realizzando il suo film su Dylan, abbia scelto un titolo come A complete unknow. È difficile infatti inserirlo nell’usuale panorama dello star system musicale: ha sempre rifuggito dagli schemi di qualunque tipo, definito sempre un altrove rispetto a sé stesso, che lo rende difficile da inquadrare, forse da conoscere realmente. Mangold sceglie un periodo determinato della sua storia: quello degli inizi della carriera artistica, del repentino successo, della prima svolta musicale del suo percorso autoriale e interpretativo. Conosciuto al capezzale del grande folksinger Woody Guthrie da Pete Seeger, altro grande cantore dell’America marginale e dissidente, viene introdotto da quest’ultimo (secondo il film) nell’universo della musica folk country più militante. Conosce Joan Baez, ha con lei una burrascosa storia d’amore, Joan, già famosissima, duetta con lui in più circostanze contribuendo così al suo straordinario successo, diviene un testimone di rivolta e di contestazione conosciuto in tutto il mondo, per la militanza della prima produzione musicale e l’esplicita politicità dei testi. Sarà sul palco con la Baez a cantare al termine della Marcia su Washington per il lavoro e la libertà del 1963, quella resa celebre, tra l’altro, dal famoso discorso di Martin Luther King I have a dream.
Con il suo secondo e il suo terzo album, The Freewheelin’Bob Dylan e The Times They Are a-Changin’ (1963 e 1964), Dylan sarà già proiettato nella dimensione globale non solo della musica, ma soprattutto del fronte per i diritti civili, preparando parte consistente della colonna sonora del Movimento che da lì a poco infiammerà Europa e Stati Uniti.

Molto, troppo peso, per le spalle di un ragazzo di poco più di vent’anni. A complete unknow ruota intorno al Newport Folk Festival – organizzato da Pete Seeger, e condotto con rilevanti aspetti politici – del 1965, in cui Bob si esibisce con strumenti elettrici, rompendo in chiave rock con la tradizione di cui era già diventato un esponente di assoluto primo piano, appunto il folk politico. Nello sconcerto di buona parte dei presenti, che lo contesta sonoramente, ma soprattutto di Seeger. Non è solo un problema di stile musicale: il giovane artista si sente costretto a un ruolo non suo, nella difficoltà più generale di doversi definire in modo determinato. Da lì a poco ci sarà una frattura anche con il movimento per i diritti civili, e Dylan diventerà sempre di più un completo sconosciuto.
Il film lega la figura di Dylan al grande Woody Guthrie: va a conoscerlo nelle prime scene, lo visita più volte, torna a salutarlo nel partirsene da Newport prima dei titoli di coda. È quindi il filo conduttore della sceneggiatura, anche se impedito nella parola per la malattia, pienamente consapevole peraltro del ruolo straordinario che questo ragazzo avrà nella musica di là a venire: non a caso gli regala la sua armonica a bocca. Guthrie morirà nel 1967, a 55 anni, per una malattia neurodegenerativa: il funerale sarà l’occasione per Dylan e Seeger per rincontrarsi dopo l’episodio di Newport, ma senza riconciliarsi. Bob ha illuso tutto un movimento socio musicale che fosse arrivato un bardo definitivo, in grado di imprimervi una svolta di massa. Non sarà così. L’artista del Minnesota avrà un suo straordinario e variegato percorso artistico, ci regalerà canzoni straordinarie, sarà il primo musicista a vincere il Premio Nobel per la Letteratura nel 2016; ma rifuggirà da responsabilità politiche così dirette, continuerà a rimettere sempre tutto quanto in discussione. Come ha sempre fatto nei concerti: in cui le sue canzoni storiche, quando sono eseguite, lo sono in modo sempre diverso, stravolgendone le dinamiche usuali di ascolto.

Le lettrici e i lettori di Patria Indipendente mi chiederanno conto di una recensione del genere: dove sta il valore politico e resistenziale di questo film? Basta ricordare (in una scena si vede chiaramente la scritta) che sulla chitarra di Guthrie – indomito socialista, cantore della dignità di poveri ed esclusi, nonché della miseria umana dei padroni – era riportato a grandi caratteri This machine kills fascists (Questa macchina ammazza i fascisti)?

Se serve a una riflessione – che peraltro consegno a voi – su quanto resta della musica ribelle, penso di sì. Il mercato globale, invasivo ormai da tempo con le sue regole di profitto nei mondi di ogni produzione artistica, ha stravinto, asservendo per lo più una provocazione politica che ormai non brucia più (quando ancora c’è)?
I più grandicelli se lo ricordano bene, e lo sanno anche gli altri: certi ideali hanno fatto breccia nelle nostre sensibilità e poi nelle scelte politiche, perché erano veicolate da grandi espressioni artistiche, letterarie, musicali. Ci siamo appassionati nelle dinamiche di cambiamento anche perché c’era chi era capace di trovare le parole dei sentimenti che provavamo. Ci siamo educati all’empatia sociopolitica ed esistenziale grazie a chi la cantava, la dipingeva, la filmava. Grazie all’arte e alla cultura. Ora che appare evidente che certi sentimenti sono messi in discussione, decretati come desueti, fondamentalmente irrisi, la strada (ma quando mai no?) si biforca.

O ci si arrende e si cerca di definire la nostra comfort zone, oppure si riflette sul passato, senza nostalgie eccessive, per capire cosa abbiamo sbagliato, da cosa e come si può ripartire. Per riflettere che sono molti gli ideali da ridefinire, ma intanto annotando che ne abbiamo molti, e di livello: perché la lotta contro la destra politica è anche culturale. Quella che abbiamo alle spalle noi è una cultura ricca e significativa: è fondata su ideali come la solidarietà, la giustizia, il contrasto al pregiudizio, la pace. Se si perdono questi riferimenti e si smette di pensare che dalle vite solidali e egualitarie possono scaturire elementi di vera cultura, da custodire e tramandare, da ripensare e aggiornare, da discutere e testimoniare, smarriremo un tesoro di bellezza che motiva all’azione e con esso smarriremo noi stessi. Del tutto: perché lo siamo già abbastanza. Il filo della storia possiamo ritrovarlo. La via sono anche queste canzoni, questo respiro di utopia.

Si può concludere senza citare lo stesso Bob Dylan? Ce ne sarebbero molti, di testi da annotare. Vedendo il film (che è bello e Chalamet, l’interprete giovane e già strafamoso, è pure bravo: la voce sembra davvero quella di Dylan) mi si è piantata in testa The Times They Are a-Changin’. Che è tutta da leggere: ma scelgo. “Venite intorno a me voi tutti\ Ovunque vagate\ E ammettete che le acque\ Attorno a voi stanno crescendo\ E accettate che presto\ Sarete inzuppati fino all’osso\E se il tempo per voi\ Vale qualcosa\ Fareste meglio a cominciare a nuotare\O affonderete come pietre\ Perché i tempi stanno cambiando\… La linea è tracciata\ La maledizione scagliata\ Il più lento adesso\ Sarà il più veloce più tardi\ E il presente adesso\ Sarà il passato poi\ L’ordine svanisce rapidamente \ E il primo ora\ Sarà l’ultimo poi\ Perché i tempi stanno cambiando”.
Siamo proprio sicuri che i tempi possono cambiare solo in peggio? Direi proprio di no. Quindi, buona lotta a tutte e tutti noi.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana
Pubblicato domenica 25 Maggio 2025
Stampato il 25/05/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/red-carpet/bob-dylan-un-completo-sconosciuto/