“L’America che voglio salvare è l’America che non abbiamo mai avuto!”, dice nel finale fuori campo Michael Moore regista d’assalto e fustigatore dei costumi e della società d’oltre oceano.

Stiamo vedendo il film Farhenheit 11/9, la sua inchiesta graffiante, attuale ed accorata ora in visione nelle sale e apparsa in un’anteprima tv su La7, dopo la presentazione alla recente Festa del cinema di Roma. Lo stile esperto e provocatore e la visione progressista di Moore sono noti. Il riferimento al titolo del romanzo di fantascienza di Ray Bradbury Fahrenheit 451 non è casuale. Il libro uscito a puntate sulla rivista Play Boy nel 1953, considerato una satira del maccartismo negli Usa degli anni 50, ispirò anche il film fantapolitico di François Truffaut del 1966 dall’omonimo titolo, sullo strapotere televisivo. In una società futura il regime totalitario vieta ai cittadini la lettura e il possesso di libri e li dà alle fiamme considerandoli un pericoloso veicolo di libero pensiero. Non mancano nella realtà gli esempi concreti dei roghi nazisti. È pertinente l’accostamento al pericolo odierno che incombe sotto il nuovo governo statunitense, assolutista e capriccioso? Certo non sembra un’ipotesi surreale, ricordando i precedenti delle cacce alle streghe del passato e il revival reazionario in atto.

Anche il riferimento all’11 settembre, data fatidica per l’America in cui tutto sembrò cambiare per il peggio, non è casuale. L’11 novembre segna la vittoria elettorale di Trump e annuncia una nuova pagina distruttiva di molte conquiste sociali raggiunte, durante la precedente Amministrazione, nella sanità, nei diritti degli esclusi, nella salvaguardia delle minoranze e dell’ambiente. Forse le sue decisioni uccideranno come fecero gli aerei contro le Torri gemelle.

Ma quando è cominciato? Un abile montaggio di sequenze ed immagini autentiche ci porta alla vigilia delle elezioni. L’opinione pubblica è rassicurata da slogan ottimisti. Trump non diverrà presidente, si è certi. Le tv trasmettono gli abbracci trionfali di Hillary Clinton prima donna ormai fiera di raggiungere la presidenza, mentre i repubblicani temono di perdere la maggioranza al Congresso. Poi accade qualcosa di strano. Le notizie fioccano fulminee: Trump conquista i voti dell’Ohio, della Florida, della Pennsylvania, del Michigan.

 

Michael Moore

Lo stesso Trump non aveva un discorso pronto ma i trucchi dei media e i preparativi cosmetici fervono sulla sua persona. L’obbiettivo e il materiale di repertorio lo inquadrano. Ecco i capelli color carota sistemati ad uno ad uno dagli esperti stilisti mentre le fake news da lui promosse insinuano: “sono stati i russi”. Si fa aspettare agli appuntamenti tv, sembra un fanfarone. I media diffondono notizie vere e false sulla sua candidatura. Lui se ne serve, comincia a impartire ordini, a giocare sull’ascolto e le aspettative di massa, ammette platealmente i suoi misfatti. Sì, è un sexual predator, è narcisista e mostra di adorare la figlia Ivanka. Potrebbe addirittura desiderarla (ma non si può). È razzista, misogino, sotto gli occhi di tutti, ama i dittatori, ostenta i suoi evidenti demeriti, li trasforma in vanto, crede nell’uomo forte al di sopra delle regole. I suoi slogan funzionano. Scatena gli istinti più bassi, l’aggressività, l’odio contro gli stranieri, i gay, le lesbiche, i giornalisti. Gioca a rimpiattino con Xi Jinping, presidente della Cina, e finisce con l’ammirarlo perché è un despota. Torna indietro sugli impegni internazionali sul clima, cerca di azzerare le conquiste del sistema sanitario, salvezza dei più deboli. Le decisioni protezioniste, i condoni di capitali all’estero, i favori agli amici miliardari, il culto delle armi e il linguaggio guerrafondaio fanno il resto. Non contano gli uragani anomali scatenati dal buco dell’ozono sul suo territorio, non contano gli omicidi nelle scuole da parte di adolescenti super armati.

“Toglieremo le tasse alle classi medie – tuona – cacceremo i migranti, son tutti malavitosi, massacriamoli di botte, costruiamo il muro al confine col Messico. E poi, facendo leva sull’economia: “Faremo grande l’America, vi farò diventare ricchi”. Spiega Moore in un’intervista tv: “Se lo dici tante volte, se continui a ripeterlo, la gente ti crede perché vuole credere”.

Il film è lucido sulle cause. Ci mostra affondando il dito nella piaga, come la strada sia stata spianata dalle debolezze dei democratici, sempre più moderati e cultori di privilegi di classe, sempre meno attenti ai bisogni popolari e alle istanze di sinistra. Colpevoli di vivere nei loro piani alti, non per strada a parlare con la gente e a raccoglierne le istanze. Avrebbero dovuto rimuovere la clausola della Costituzione, che permette a chi non ha ricevuto il maggior numero di voti di diventare comunque presidente. La Clinton e Al Gore avevano ricevuto più voti dei loro avversari repubblicani, eppure vince Trump. Pesano anche i compromessi di Bill Clinton che fece il repubblicano, che giustificò la guerra in Iraq, le menzogne di Hillary, i voti truccati delle primarie in Virginia, i finanziamenti ambigui, tutta questa caduta di credibilità dei democratici. Fu come spianare la strada a Trump alla sua furbizia. Contano i passi falsi dello stesso Obama che smentisce le sue promesse e annacqua il suo profilo rinnovatore e pacifista sia sul piano interno, con le esercitazioni militari coi droni contro la popolazione civile, sia su quello internazionale. Illuminante l’episodio che lo coglie in fallo al cospetto dei cittadini di Flint, località avvelenata dall’acqua inquinata dal piombo, sviata dal lago Huron e pompata dal fiume torbido per ordine del governatore senza scrupoli del Michigan, Richard Snyder. La gente ha atteso il presidente Usa con ansia sperando faccia giustizia e lui si esibisce in un breve show chiedendo un bicchier d’acqua e sorseggiandola. “Ora è risanata”, dice sorridente. Quella comunità dolorante per le conseguenze dei veleni si sente tradita. Non gli darà più il suo voto.

“I media – spiega il cineasta – hanno instupidito la gente, non sono stati attenti e così lo hanno tristemente sostenuto e amato. Per decenni la stampa lo ha amato perché era intrattenimento da tabloid. Io lo avevo previsto. Mi ridevano dietro, mi dicevano che la gente era troppo intelligente per poterlo votare, ma la gente non è assolutamente troppo intelligente. La scuola – continua Moore – è stata praticamente rasa al suolo da tre decenni, con la formazione universitaria supercostosa. Se si chiudono le biblioteche e si permette alle multinazionali di controllare la stampa, se si raccontano cose che fanno appello alla stupidità delle persone, allora si finisce per rincretinire una nazione”.

Solo scelte progressiste possono salvare il Paese, fa capire Moore. I rappresentanti politici devono essere presi tra la gente dei quartieri, un veterano della guerra in Iraq, una donna, un insegnante di scuola pubblica.

Da https://www.ecodelcinema.com/fahrenheit-11-9-2018.htm

Ed ecco il paragone con Hitler. È un’iperbole, ma Moore è serio quando pensa che il grande guitto, se avrà successo, riuscirà a distruggere quel che rimane della democrazia statunitense. L’abbinamento sembra esagerato, ma non lo è. Si può cogliere in quel modello gestuale qualche similitudine. Anche il führer del nazionalsocialismo non si presentava come politico ma come uomo comune e diceva che avrebbe messo la Germania al primo posto. Anche lui inventò grandi bufale, architettando l’incendio del Reichstag e le false accuse contro i comunisti. Anche allora nessuno credeva che l’uragano nazista avrebbe distrutto mezzo mondo. Gli ebrei stessi si illudevano dapprima di essere rispettati e considerati cittadini tedeschi. L’America dava credito all’uomo d’ordine. Non è male ricordarlo.

Dopo le sequenze sconsolanti ci sono sprazzi di luce. Lo sciopero vittorioso del marzo 2018 degli insegnanti in West Virginia e le manifestazioni giovanili del movimento di adolescenti nato in Florida contro le armi, dopo il massacro nella scuola di Parkland, colorano di speranza i pronostici amari del regista. Quanto nuovo fervore! La grande marcia di Washington e in altre 836 città degli Stati Uniti riporta il color rosso dei fazzoletti nelle strade.

Esistono due Americhe, quella della contestazione, delle grandi esplosioni giustizialiste come contro la guerra del Vietnam e quella della chiusura razzista e del business padrone che strumentalizza lo scontento popolare. Bisogna che si affermi la prima. Se si resta seduti ad aspettare non succederà niente di buono. La denuncia filmica così vitaminica spinge alla riflessione anche sull’Europa e sulle svolte destrorse pericolose per la pace e i diritti così faticosamente raggiunti dopo i conflitti del Novecento. La democrazia in America è ancora un sogno da inseguire, un traguardo da raggiungere, ma il problema inquietante è anche profondamente nostro.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice