Ale Avalos per Unsplash

I misteri della distribuzione cinematografica italiana sono numerosi, intricati, ma forse non particolarmente oscuri. I tempi della tenuta iniziale presso il pubblico sono fondamentali per un film, se nei primi tre giorni di programmazione gli spettatori latitano, quel titolo è spacciato. E peraltro, già essere riuscito a guadagnare il grande schermo è tanta roba: una buona parte delle opere prodotte in Italia neanche hanno questa possibilità.

Considerazioni generali, per dire che è lecito pensare che, con questi criteri, un bel po’ di valido cinema se ne vada insieme a quello risibile, che non merita appello. Per la distribuzione dei film stranieri non è diverso: molto dipende da come le case distributrici assistono il film con il marketing delle recensioni, delle segnalazioni, della pubblicità. Poi, l’elemento sovrano: la censura del pubblico. Produzioni su cui si è molto investito sono affossate dalla scarsa affluenza in sala. A volte sono film sbagliati, altre volte bellissimi. Per ri-vederli bisogna cercare in rete o aspettare/sperare in passaggi televisivi sui canali generalisti o sulle piattaforme.

La premessa è lunga e vuol proporre delle riflessioni riguardo al cinema che vedete o non vedete sullo schermo. Ma soprattutto è l’occasione per parlare di un film che ho molto atteso e inseguito, disperso nelle fasi avverse della pandemia e fortunosamente recuperato sul piccolo schermo.

Con il dispiacere del caso, visto che il molto abile regista, lo è particolarmente sui campi lunghissimi e lunghi di ripresa, sacrificati dall’esiguità di spazio della riproduzione televisiva. Sto parlando di uno dei maestri del cinema contemporaneo: l’americano Terrence Malick, già autore, tra gli altri, de La sottile linea rossa e di The tree of life. Il suo ultimo film si intitola La vita nascosta – Hidden life e racconta la vita dell’obbiettore di coscienza al nazismo Franz Jägerstätter, un contadino austriaco che pagò con la morte la scelta di pronunciare un netto no al disumanesimo imperante del totalitarismo.

Franz Jägerstätter

Confinata nel mondo tedesco nell’oblio della rimozione di quanto atroce fu commesso dai nazisti, questa storia è stata poi recuperata dalla sensibilità storica e civile di chi sta conservando la memoria della Resistenza all’hitlerismo, per quanto ridotta nei casi e nei numeri. Dal momento che Franz era cattolico e molte delle convinzioni che nel 1943 lo condussero al martirio erano motivate dal suo cristianesimo, la chiesa cattolica lo ha beatificato nel 2007. Negli Stati Uniti questa vicenda ha avuto una discreta notorietà ed è arrivata a divenire soggetto di interesse e cinematografico per Terrence Malick, che ne ha tratto occasione per raccontarne la storia con il suo usuale, e meraviglioso, stile cinematografico.

Il contadino Franz avrebbe avuto una storia totalmente nascosta se la guerra non lo avesse messo di fronte alla necessaria decisione tra la fedeltà alle proprie convinzioni e quanto il potere umano chiede quando sei al suo servizio. Tra la disapprovazione crudele dei suoi compaesani, il tormento della moglie che lo sostiene perché condivide la motivazione di fede della scelta ma è lacerata per quanto ne scaturirà, e le autorità religiose che lo sconsigliano di radicalizzare così all’estremo l’identità di operatore di pace, Jägerstätter conserva la dignità della sua coscienza che il tempo di guerra metterà duramente a prova. La contrapposizione tra la descrizione del suo paese, immerso nelle montagne austriache, la serenità e la limpidezza dell’amore che lo lega a moglie e figlie, nei tratti di una spiritualità descritta con sobrietà, e gli ambienti militari, la violenza istituzionalizzata delle guardie carcerarie e dei giudici – animalesca la prima, formale negli intenti la seconda, ma ancora più angosciante – emerge dallo stile visuale di Malick con grande efficacia.

Gli ambienti naturali ripresi con obbiettivi che danno profondità di campo e scolpiscono con la luce, e al contempo, i primissimi piani sui volti e i corpi, che suggeriscono l’intensità dei sentimenti, sono alcuni dei tratti con cui il regista statunitense (alle sue spalle studi di filosofia) ci fa entrare nelle sue narrazioni, avvolgendoci di immagini come se fossero parole e voci.

Se La sottile linea rossa tenta una metafisica della guerra, trascendendo con i paesaggi naturali il conflitto umano, che costituisce l’orrore assoluto, The Tree of life ci ricorda che gli esseri umani attingono al grande mistero dell’oltre: della storia e dell’infinito. Le proprie vicende personali non si possono che narrare rendendosi conto che l’esistenza umana si colloca al punto di cesura tra quella natura che porta in sé l’abisso di ciò di cui non si può immaginare la fine, l’universo, e la sofferenza di una storia globale tessuta della finitudine delle esistenze umane.

La vita nascosta riprende tali dinamiche intrecciandole, mettendo questa volta al centro della narrazione una vicenda di ordine storico, fortemente connotata in chiave etica. Ed è quest’ultima che definisce una dimensione di laica trascendenza di fronte alla forza disumanizzante del potere. La forte componente mistica dei film di Malick non è mai confessionale, laicizzabile nei riferimenti alle relazioni umane e al grande significato inerente al rapporto tra genere umano ed ecosistema: del resto è uno dei pochi registi capaci di porsi – e porre allo spettatore – domande altissime, in cui sospendersi grazie alla straordinaria capacità di comporre quadri visuali di impressionante bellezza.

L’altoatesino di Bolzano Josef Mayr Nusser e la moglie Hildegard Straub

Una vicenda analoga a quella di Franz Jägerstätter è accaduta anche in Italia durante l’occupazione nazifascista: riguarda Josef Mayr Nusser, altoatesino di Bolzano che morì sulla strada della deportazione dopo essere stato destinato al campo di sterminio per il rifiuto di giurare fedeltà al führer come SS. Il 18 marzo 2017 pure Mayr Nusser ha conosciuto la beatificazione, purtroppo nella disattenzione generale.

Dietrich Bonhoeffer (Bundesarchiv Bild)

La storia dei due montanari, Franz e Josef, che trovarono forza e coraggio per non macchiarsi l’anima con l’infamia nazista, ci ricorda che ci fu una opposizione forte al nazismo (e al fascismo) anche da parte – sia pur con numeri non eclatanti – di persone credenti, che per fede osarono la pace (citando un altro grande resistente, anche lui martire, il pastore protestante e grande teologo Dietrich Bonhoeffer).

Sono da ricordare insieme, infatti, perché la storia di Mayr Nusser non è da meno: e le analogie con quella di Jägerstätter non si trovano solo nella comune fede cristiana, ma anche nel ruolo straordinario delle loro mogli, Hildegard Straub e Franziska Schwaninger, due bellissime storie di amore. Entrambi dichiararono una volontà precisa di pace quando durante le Opzioni in Alto Adige votarono uno contro l’annessione dell’Austria al Terzo Reich (Jägerstätter fu l’unico nel suo paese) e l’altro per non rinunciare alla cittadinanza italiana.

E sono da commemorare in questa fase della vicenda politica italiana, in cui arrivano sul proscenio politico gli affascinati da quel Mussolini che, sottoscrivendo i patti Lateranensi, si dichiarò “profondamente cattolico ma radicalmente anticristiano”. Questo pensa di sé il fascismo di ieri e di oggi: professa una tradizione scollandola dal Vangelo che la genera. Ma al di fuori della Scrittura essa diviene una tradizione fasulla. Quel che ispirò la Resistenza di pochi, in una istituzione che fece elogio e in buona parte sostenne “l’uomo della Provvidenza”, e non si oppose ai massacri in modo univoco, resta elemento per le coscienze – penso anche di chi non crede – che non si vogliono assoggettare alla teorizzazione della disumanità.

Don Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana