Chi non conosce almeno di nome Vincent Van Gogh? Chi non ha visto girare nelle riproduzioni, nelle retrospettive, sulla stampa, in tv, perfino nella pubblicità le immagini dei suoi girasoli fiammeggianti, le sue distese di grano palpabili e luminose? Eppure la vera storia dei suoi tormenti interiori e della sua vis creativa è sconosciuta ai più.

Il pittore, regista e sceneggiatore statunitense Julian Schnabel, statunitense col film “Sulla soglia dell’eternità”, apparso lo scorso anno alla 75ª edizione del Festival di Venezia e ancora nelle sale, ci offre del grande artista olandese, negli ultimi tormentati anni di vita, un inedito ritratto che va fino al cuore dell’ispirazione artistica. Lo spettatore è posto qui di fronte al contenuto interiore dell’action painting, alla meteorologia e modi dell’atto creativo che rovesceranno la visione superficiale a cui oggi è abituato, dell’arte come oggetto di consumo e di business. Di fronte a questo importante faccia a faccia passa in secondo piano la ricostruzione stilizzata degli elementi biografici che il regista trae da lettere appunti e notizie. Scorrono come cornice le figure familiari, i genitori severi, rigidi e ben pensanti, il padre pastore calvinista, il fratello Theo mercante d’arte a Parigi col quale Vincent fin dall’infanzia ha un legame speciale affettuoso e simbiotico. Da lui è sempre sostenuto psicologicamente ed economicamente come attesta l’appassionata corrispondenza tra i due.

Vediamo l’arrivo di Vincent ad Arles, la natura rigogliosa, le lunghe camminate nei campi, l’incontro promettente con il parigino Paul Gauguin. Vincent lo chiamava “maestro”. L’amico lo ammirava più della sua pittura (qualcosa scintillava dalle sue tele e da quello che diceva –scrisse –. Possedeva una grande gentilezza, o piuttosto l’altruismo del Vangelo) . La collaborazione tra i due ingegni fu preziosa ma l’incompatibilità dei loro caratteri, i dialoghi divenuti burrascosi e i deliri di Vincent bevitore d’assenzio e personalità bipolare, minarono la convivenza e portarono alla separazione.

La reazione psicotica di Vincent a questo distacco (si taglia un orecchio), la sua degenza volontaria nell’ospedale di Saint Remy per ristabilirsi, i colloqui col dottore, un medico lungimirante, tutti questi dati biografici visuali o collegati dalla voce fuori campo narrante e dalle didascalie restano di contorno rispetto al nucleo del messaggio filmico. Che ha di mira il rapporto creativo.

Il regista e l’attore. Julian Schnabel con Villem Dafoe
(da https://variety.com/2018/film/festivals/julian-schnabel-on-doing-some-van-gogh-paintings-himself-for-at-eternitys-gate-1202927306/)

Schnabel attua sullo schermo un incontro ravvicinato tra pittore e pittore, tra se stesso e Van Gogh suggerito dall’affinità con la sua vena pittorica. Egli è un espressionista e il fascino della luce e del colore lo avvicina al grande visionario olandese. Nella sua interpretazione del pittore “maledetto”, fa una scelta personale selezionando nel racconto e nelle riprese dinamiche e inconsuete gli elementi in cui si riconosce. Nelle sequenze mette in risalto la velocità febbrile del comporre di Van Gogh, il valore narrativo del colore, quel giallo solare preferito, che splende nei girasoli e nei campi di spighe (quel giallo cromo che forse lo avvelenerà) e il bruno della terra dei solchi, il verde dei prati, il turchese del cielo. O il grigio desolato della terra invernale. L’essenza naturalistica passa attraverso il filtro psicologico, restituisce il fremito delle cose e delle stesse costruzioni umane. I paesaggi, i mobili della stanza, le cascine dipinte nei suoi capolavori sono imbevuti da inquietudine, follia o serenità. Così gli oggetti – quelle umili scarpe consumate dalle lunghe marce vagabonde per il territorio – racchiudono nella loro oggettività materiale il soggetto stesso le sue ansie esistenziali ed artistiche.

Il protagonista in un fotogramma del film

Il film ci fa afferrare così il motore della ricerca espressiva di Van Gogh ponendoci sui suoi passi di inquieto e sfinito viaggiatore per le campagne alla scoperta dell’incontro fortunato tra sé e la natura. Ci invita a riflettere sull’attività creativa come concezione di vita che quando non è hobby superficiale è pagata con l’impegno e la sofferenza. L’esperienza pittorica di Van Gogh che parte da Millet e approda all’impressionismo, è innovativa, si spinge oltre, ponendo le basi dell’espressionismo. La sua è una rappresentazione originale e fantastica del paesaggio che pure tende alla meta di una congiunzione col respiro dell’universo a cui sente di appartenere. Scaturisce dal profondo dell’io narratore e si tempesta delle sue percezioni del mondo e degli intimi conflitti. Vincent è attratto da uno scandaglio ossessivo della forma come sostanza interiore della materia, dell’uomo, di ogni elemento naturale. “Vedo ciò che gli altri non vedono – dice –. Cerco una nuova luce per quadri che non abbiamo mai visto”. Una realtà trasformata in raptus poetico. È chiaro che una tale novità stilistica turbava le certezze tradizionali dei suoi contemporanei.

Vincent Van Gogh, autoritratto (1889)

La visione etica dell’arte di Van Gogh deriva da un’indole introversa. Già prima di gettarsi sul pennello era pervaso da una religiosità umanitaria e panteistica che lo indirizzò verso l’attività pastorale. Fece il predicatore nelle plaghe più povere come la regione delle miniere del Borinage a contatto con gli umili e gli esclusi. Egli li eternerà in un quadro livido e stupendo “I mangiatori di patate”. Ma il film non inquadra questi precedenti. Si concentra sull’arrivo ad Arles dove la sensibilità dell’artista e la nevrosi aggravata dall’alcolismo si scontrano continuamente con la vita piatta dei suoi simili, con l’ignoranza e ottusità della gente.

L’incomprensione è ben simboleggiata da una sequenza che rivedremo verso la fine. Vincent incontra una pastora col gregge e vuole ritrarla, ma non riesce a farle capire la rapidità e unicità dell’estro creativo racchiusa in brevi istanti. La ragazza è spaventata, ostile alle sue parole, estranea al suo stato d’animo e ne nasce un diverbio degenerato in scenata. L’episodio unito ad altri comportamenti concitati contribuisce a bollarlo come pazzo e ad aumentare il rifiuto dei paesani. E il suo isolamento. Altra metafora di questa solitudine è anche la fine misteriosa del pittore colpito da un’arma da fuoco, ufficialmente suicida ma da Schnabel ipotizzata come un omicidio.

Villem Dafoe (coppa Volpi a Venezia nel 2018 per il migliore attore) con il suo volto scavato e l’immediatezza della recitazione a cui si ispira è un grande, valido interprete. Nella preparazione del film Schnabel gli ha insegnato a dipingere, il che dà naturalezza alla sua rappresentazione di un’esperienza peculiare e di un personaggio complesso.

Il film ci ricorda un’ultima beffarda verità. Van Gogh vende nella sua vita un solo quadro. La sua bara nel finale è attorniata da centinaia di opere. È la via crucis dei grandi talenti che si dibattono incompresi fino alla morte. Subito dopo arrivano i mercanti a lucrare sui loro capolavori con introiti madornali. Citiamo Van Gogh, Modigliani, Gauguin, ma la storia dell’arte e della letteratura ne è piena.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice