“Corri dai, corri, stanno per passare”.
Voglio essere in prima fila, ho il fiato in gola. Che giornata fantastica, mi batte il cuore a mille, come quando corri a nascondino e vuoi arrivare per prima e salvare i tuoi compagni, liberare tutti. Che bello, portata in trionfo per un pomeriggio, come un’eroina!
“Dai, dai ci siamo, fammi passare io son più bassa di te, non li vedo. Guarda ci sono le donne, che belle son le partigiane, hanno il fucile sulle spalle, ci sorridono.”
Sole, luce, quanta gente in strada, tutti ci vogliono essere, quello è il momento, le persone si abbracciano. Dietro l’angolo una coppia si bacia come non ho mai visto, i piccoli sono per la mano ai genitori, si rischia di perderci oggi, anzi no, oggi nessuno rischia nulla.
La via principale della città è piena di colori, bandiere, fazzoletti rossi, verdi, azzurri, è piena di nomi sentiti per sbaglio dietro le porte, ora sussurrati, ora strozzati. I nomi sono nell’aria come le nuvole dei fumetti dei giornalini.
Voci che si rincorrono, che si riconoscono in un volto sognato tante notti e sperato nel cuore.
Bandito, Fulmine, Sandokan, Pantera, Lampo, Laila, Mirka sembrano i ciclisti con il numero sulla maglia ma questa volta hanno un nome sui fazzoletti.
Sono vestiti da militari ma non sono militari. Hanno delle strane divise, le più disparate, un’accozzaglia fantastica, il minestrone che non mangiamo da anni!
Pantaloni lunghi, pantaloncini corti, tute mimetiche, pantaloni alla zuava, giacche che sembrano dei tedeschi o dei repubblichini ma sul petto hanno una stella rossa.
E hanno i fazzoletti, quelli con i nomi di battaglia ricamati! So di una bambina e della sua mamma che li hanno ricamati e la bambina ha ricamato anche le sue iniziali, come una firma.
E le armi? Di tutto, Sten, mitra, pistole, cartucciere, bombe rosse e nere, pistole Beretta, moschetti, granate. È l’esercito più bello del mondo.
Camminano decisi, fieri, ci guardano, siamo le ruote del loro carro, li trasportiamo con il nostro affetto e la nostra ammirazione. Un esercito che non fa paura, un esercito che canta.
Un signore guarda storto le partigiane in pantaloni, le prende in giro e borbotta “Povera Italia”. Non capisco, loro sono belle e coraggiose, son le nostre partigiane! Quando potrò, mi farò raccontare le loro avventure. Da grande voglio essere come loro.
Che festa! Faremo così anche l’anno prossimo? C’è un gruppetto sull’angolo che non guarda la sfilata ma balla e suona con chitarra e violino.
E quella finestra? Che strano, ora è chiusa ma è stata sempre aperta, quando sfilava l’esercito di prima, quello nero e tutto perfetto.
“Dai avvicinati, cerca di leggere i nomi, sono mitici.”
“Non ce la faccio, c’è troppa gente, tutti vogliono salutarli.”
“Ehi ma quello cammina male, dondola, non sarà mica Dindon?”
“Chi il partigiano che ti ha visto nascosta dietro un portone quando è sceso in città? Quello che ti ha fatto un sorriso?”
“Sì è lui, me lo ricordo, l’ho sognato tante notti, l’ho sognato che liberava il mio babbo dal carcere, l’ho sognato a pranzo da noi”
“Guarda c’è Ulisse!”
È una donna, ha un fiore tra i capelli, è bruna, piccola, ha uno sguardo grande, passa, non ti vede, guarda avanti con il sorriso sulla faccia. Ti cattura, è il pifferaio magico, io le vado dietro.
Ma l’inizio della sfilata dov’è? Sento caldo alla pancia come quando Luca mi chiama per giocare in strada. Forse sono innamorata anche dei partigiani e delle partigiane?
Luca corre avanti, vogliamo vedere l’inizio della sfilata. Oggi non sento la stanchezza, potrei correre per ore come un cavallo selvaggio.
“Ehi eccoli là, sono i capi!”
Sette uomini in prima fila, camminano all’unisono, tre hanno una fascia al braccio sinistro, sono eleganti, tutti in giacca e cravatta, come il babbo, quando insegnava all’Università. Uno ha i pantaloni alla zuava, tutti guardano avanti, due si girano verso di me. Sorrido, mi commuovo, quanto vorrei la Fiammetta, quel bauletto che fa le foto!
“Nonna ho trovato questa fotografia nel tuo armadio. È Milano nel 1945? Ma tu c’eri?”
Mi giro di scatto, la stanza s’illumina, guardo la penna che mio marito Luca usava per scrivere, prendo per mano mia nipote ed accendo la vecchia radio.
Gentili radioascoltatori, è Nicolò Carosio che vi parla da Milano.
Oggi 6 maggio 1945 sfilano i partigiani e le partigiane. Celebriamo la nostra Liberazione. Siate i benvenuti a questo avvenimento grandioso. Per le strade sono presenti migliaia di persone, donne, uomini, bambini.
Non è un campo di calcio, non ci sono squadre, è un corteo infinito che attraversa le strade della bella Milano. Qui sfila l’Italia intera.
In testa al corteo il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà.
Abiti civili per l’esercito della libertà, da sinistra Mario Argenton, Giovanni Battista Stucchi, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo, Enrico Mattei, Fermo Solari.
La bandiera del CVL è decorata dagli Alleati con la Medaglia d’oro. Dietro il Comando sfilano i partigiani e le partigiane con le loro bandiere, i loro fazzoletti.
Ai lati del corteo la folla li applaude, li guarda ammirati, si spinge a toccarli e a baciarli.
Dal palco voci emozionate ma ferme, nella folla sguardi lucidi ma determinati ad avviare un nuovo inizio. Il nostro campionato da oggi è l’Italia libera.
Il 6 maggio 1945, come atto conclusivo della Resistenza, in molte città d’Italia si tennero le sfilate della Liberazione, Nicolò Carosio, il più grande giornalista sportivo italiano, fu il radiocronista che dai microfoni della RAI raccontò quella di Milano.
Carosio che filmava con le parole le partite di calcio del campionato italiano, fu scelto per questo grandissimo avvenimento. Parlava ad una nazione che tornava a mostrarsi al mondo fiera, libera e pronta a ricominciare. La voce di quel memorabile giorno doveva essere forte, chiara, evocativa e amata. La scelta cadde su Carosio, Nick per agli amici.
Col suo trench da tenente Colombo, sotto qualsiasi tipo d’intemperie, con la sua postazione da bordo campo e armato di un fedelissimo taccuino, raccontava le partite, inventandosi di sana pianta un nuovo linguaggio calcistico. Mani, rete, traversone, angolo sostituirono gli inglesi hands, goal, cross, corner quando era vietato pronunciare qualsiasi parola inglese.
Carosio gridava alla rete e poi diceva, riprendendosi dall’abbaglio, “Quasi rete!”.
Fu il radiocronista che al provino per essere assunto per svariati minuti raccontò una Juventus-Bologna mai giocata e che ai Mondiali del 1938, prima della partita Italia-Brasile, fermò il campione Giuseppe Meazza a bordo campo, dando vita così alla prima intervista in diretta.
Fu anche quello che per miracolo non morì nel disastro aereo di Superga, che si portò via il grandissimo Torino e il giornalista, Renato Tosatti, salito al posto di Carosio, che rinunciò per andare alla cresima del figlio.
Quel 6 maggio 1945 fu il suo ritorno alle radiocronache, dopo essersi trovato nei territori della Repubblica Sociale Italiana, verso la quale non accettò mai alcuna collaborazione. Qualche giornalista invidioso lo aveva definito pappetta nera. Il suo entusiasmo per la nazionale di calcio italiana era stato preso per adesione al regime fascista.
Tutta la sua carriera fu invece di una dirittura morale impeccabile.[1]
Fulvia Alidori – ricercatrice e scrittrice
[1] Gianni Isola, Cari amici vicini e lontani. Storia dell’ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano (1944-1954), Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 87;
Id., Il microfono conteso : La guerra delle onde nella lotta di liberazione nazionale (1943-1945), In: Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée, Année 1996 Volume 108 Numéro 1, p. 124
Pubblicato lunedì 24 Aprile 2017
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