Crollo subitaneo, rovinoso, senza alcuna difesa da parte di nessun gruppo fascista; come un castello di carte. Se si dovesse trovare un’immagine simbolica, tra le tante, questa è sicuramente quella più calzante sullo sfacelo del regime mussoliniano il 25 luglio ’43; con la più parte dei gerarchi e dei ministri fascisti in fuga, nascosti, scomparsi dalla circolazione. E contestualmente – come per una sorta di legge della fisica – con diffuse sollecitazioni opposte e contrarie che portano sulle piazze grandi folle che inneggiano alla fine del fascismo, che invadono le sedi del fascio buttando tutto all’aria, che bruciano ritratti del Duce, abbattono busti bronzei, prendono a martellate i simboli del regime, cancellano le famose scritte dettate ovunque dal Duce (tipo quella profetica «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi»). Documenti fotografici in materia non mancano e hanno trovato varia pubblicazione; le testimonianze sono molte. Come studente diciassettenne nella Mestre e nella Treviso del 25-26 luglio 1943, i ricordi più netti che personalmente conservo sono proprio di questa natura. Gli stessi ricordi – scegliendo a caso tra tanti testimoni – che a centinaia di chilometri di distanza, riferisce un altro studente, il quindicenne Luigi Pestalozza (oggi noto critico musicale), sfollato ad Albino, che ricorda una Bergamo dove «sembrava che tutta la città fosse in strada, le case vuote. Mi colpi l’atmosfera di spontaneità, di liberazione generale, di sorrisi, di fratellanza. Vidi un testone del Duce, in marmo, che rotolava spinto a braccia e a calci da un gruppo di uomini allegri e molte bandiere tricolori, qualcuna rossa. Erano le prime bandiere rosse che vedevo… Tutto intorno un gran frastuono, di voci sgolate, di canti sconosciuti, finalmente all’aria aperta».
Rammentando l’ambiente più generale, Pestalozza dice ancora di una folla festante «piena d’immaginazione, improvvisata, assolutamente ovvia, fatta di gente che trovava da sé quello da dire, che gridava piena di gioia e scandiva pace, e tante altre belle cose, sotto i cartelli, gli striscioni scritti in fretta, con tante volte la parola libertà, e ancora pace… C’erano in mezzo signori distinti, gente per bene, giovani e ragazzi come me del resto, di buona famiglia; ma mescolati a quel gran dilagare di popolo, sommersi da uomini e donne usciti dal lavoro, ancora in tuta, popolani come forse non ce ne sono più, poveri, donne con i bambini alla mano, uomini semplici … II papà arrivò il giorno dopo. Ci raccontò di Milano in festa, pareva rinato». Un rinascere, tuttavia, di breve durata giacché, riferisce sempre Pestalozza, qualche giorno dopo «i tedeschi avevano cominciato ad entrare in Italia senza che nessuno li avesse invitati. Non avevo dubbi sulla loro prepotenza, sulla loro minaccia. Belotti, il console turco, mio padre, avevano ragione di preoccuparsi. Capii che temevano un’invasione silenziosa, dal Nord, ben peggiore di quella che saliva dal Sud, degli Alleati. Li sentivo parlare di quanto tempo gli Alleati potevano metterci ad arrivare fino a Milano» (“II gioco e la guerra – Note autobiografiche“, Feltrinelli editore, Milano 1976).
La temperie, gli ambienti, gli animi nel luglio ’43 che finisce sono questi; qui descritti bene per succinte immagini. Scanditi altresì dalla perentoria parola d’ordine «La guerra continua» lanciata dal generale Pietro Badoglio posto dal re Vittorio Emanuele III a capo del nuovo governo dopo l’arresto di Mussolini. Scanditi dagli eserciti alleati sbarcati in Sicilia il 10, ad annunciare una risalita della penisola che fin da quell’inizio si preannunzia catastrofica, dai bombardamenti aerei che squassano fabbriche, nodi ferroviari, citta (a Roma, a San Lorenzo devastata, accorre anche il Pontefice). I soldati non tornano dai fronti di guerra, l’assurdo conflitto prosegue, le cartoline che annunciano lutti militari seguitano a colpire le famiglie; viveri e prodotti alimentari sono sempre più scarsi, introvabili. Carcerati e confinati per opposizione al fascismo vengono liberati col contagocce, sovente solo dopo manifestazioni e proteste; i direttori fascisti delle prigioni e dei luoghi di confino sono lasciati al loro posto. Più d’uno continuerà tranquillamente la carriera anche dopo la Liberazione; esempio emblematico il direttore della colonia di pena di Ventotene, commissario Guida, divenuto questore di Milano. E, ironia della sorte, in tale ufficio avrà a che fare con le sue vittime d’un tempo diventate autorevoli parlamentari, ministri, dirigenti di partito, apprezzati sindacalisti. Qualche nome? Per tutti basterà dire di Sandro Pertini, Luigi Longo. Umberto Terracini, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera, Alberto Jacometti.
Disfacendosi come un inerte castello di carte – nemmeno difeso dalla sua Milizia volontaria, prontamente precettata da Badoglio nei ranghi del Regio Esercito – il fascismo conferma il giudizio sprezzante, certo non sospetto, che il figlio del Duce, Vittorio Mussolini, aveva confidato anni prima all’amico di ginnasio Ruggero Zangrandi: «II fascismo e tutto un bluff; papà non è riuscito a far nulla di quello che voleva» (“II lungo viaggio attraverso il fascismo – Contributo alla storia di una generazione”, Feltrinelli editore, Milano 1963).
Espressi dal primogenito del Duce, c’è da presumere ragionevolmente che concetti siffatti girassero diffusamente tra le mura di Villa Torlonia, residenza romana dei Mussolini.
Un’atmosfera, quella del 25 e 26 luglio (come osserverà il prof. Paolo Spriano), resa al meglio dagli scrittori più che dagli storici. Così Cesare Pavese la descrive sulle colline torinesi: «Fin dall’alba strepitarono le radio delle ville vicine. L’Egle chiamò dal cortile; la gente scendeva in città parlando forte. L’Elvira bussò alla mia camera e mi gridò attraverso la porta che la guerra era finita. Allora entrò dentro e senza guardarmi che mi vestivo, mi racconto rossa in faccia che Mussolini era stato rovesciato… La madre disse: La guerra è finita? Comincia adesso, dissi incredulo» (“Prima che il gallo canti”, Einaudi editore, Torino 1949). Più o meno è così in ogni città.
A Milano Pietro Ingrao, clandestino da qualche mese per sfuggire alla polizia di Roma, contribuisce a stampare l’Unita che il 27 reca a tutta pagina la notizia dell’arresto di Mussolini; il giornale è ancora illegale. Il giorno prima, a Porta Vittoria, Ingrao parla ad una nutrita folla festante, piena di giovani e operai, che invoca apertamente la fine del conflitto e con esso la cessazione dei bombardamenti aerei che stanno causando enormi disastri e molte vittime. A Brescia il questore Rossi segnala al Ministero che ci sono cortei, con carattere sovversivo, nei rioni popolari. II questore si riferisce sicuramente al corteo degli operai della OM – promosso da Cino Moscatelli, futuro comandante partigiano in Val d’Ossola – che dirigendosi verso piazza Garibaldi via via si ingrossa, alzando alla testa un drappo rosso. In alcune fabbriche bresciane – Breda, S. Eustacchio, Tempini, OM, FNA, ATB – vengono nominate le prime Commissioni interne; alla OM si procede alla destituzione dei fiduciari sindacali fascisti.
Anche nella capitale, Roma, si svolgono manifestazioni affollate e cortei di fronte ai quali prendono la parola gli esponenti dei partiti antifascisti.
A Torino migliaia di operai si concentrano davanti alle Carceri Nuove, il cui portone viene sfondato con un grosso autocarro; i detenuti politici sono subito liberati. Stessa cosa avviene a furor di popolo a Bologna, Milano, Genova, Venezia. Pressoché in tutte le località grandi e piccole, sia nelle città che nelle zone rurali – anche se in queste con minore partecipazione – ogni distintivo fascista viene abbattuto. Qua e là militi fascisti sorpresi in divisa sono prontamente spogliati, talvolta rudemente e con percosse, e rimandati a casa in mutande. La ricerca documentale di uno storico riferisce che «altrove masse enormi di cittadini davano, in un’atmosfera di gioiosa allegria, l’assalto alle sedi del partito fascista che venivano messe a soqquadro … i busti del duce che con aria truculenta erano piazzati per ogni dove, ruzzolavano sul lastrico… Tutto ciò avvenne senza che si sparasse un colpo, senza che si spargesse una goccia di sangue» (Raimondo Luraghi: “Trent’anni di storia italiana”, Einaudi editore, Torino 1961).
Si tratta di sentimento di largo sentire nelle folle che manifestano nelle piazze e nelle strade. Reso ancora da Luraghi con felice sintesi quando valuta che in quelle giornate «il popolo italiano, generoso, era disposto a dimenticare tutto, le sofferenze, il confino, le prigioni, purché di fascismo non si sentisse più parlare». Un sentimento destinato ad essere disilluso, tragicamente vanificato sei settimane più tardi, dopo l’8 settembre, con la liberazione di Mussolini dalla mite prigione del Gran Sasso ad opera del commando germanico del maggiore Otto Skorzeny e la conseguente rinascita del fascismo armato della repubblica di Salò al servizio dell’occupante tedesco.
Le manifestazioni festose per la caduta del fascismo non durano più di una settimana. L’ordine che la guerra deve continuare, ossessivamente reiterato dal Re e da Badoglio attraverso la stampa, la radio, i comunicati delle autorità militari, raggela ben presto lietezze, soffoca speranze, disillude aspettative di pace dopo tre anni e mezzo di guerra atroce e ormai perduta. È un periodo breve e cruciale che può trovare lucido riassunto nell’analisi dello storico Claudio Pavone quando afferma nella sua recente (ndr: l’articolo è uscito su Patria Indipendente del luglio 1993), documentata, opera (“Una guerra civile”, Bollati Boringhieri editore, Torino 1991) che «la comune volontà di finirla con la guerra non fu sufficiente a creare fra esercito e popolazione quella concordanza d’intenti e di opere che pur fece parte della retorica ufficiale dei quarantacinque giorni badogliani. Questo avvenne non solo per l’atteggiamento degli Alti Comandi… ma perché l’uso delle forze armate in funzione di ordine pubblico compromise sul nascere ogni forma di fraternizzazione, anche se, com’è stato notato, le truppe e gli ufficiali subalterni manifestarono spesso riluttanza a eseguire gli ordini più drastici». E cogliendo uno dei momenti centrali delle convulse giornate che seguirono l’esultanza popolare – certo largamente spontanea, ma altrettanto ingenua – Pavone nota opportunamente che «la circolare del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Roatta, che ordinava di procedere contro i dimostranti in formazione di combattimento e di aprire il fuoco a distanza anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta, e gli eccidi di Bari e di Reggio Emilia, costituiscono, di questa situazione, uno dei dati più evidenti».
Aperto nell’esultanza e nell’auspicio intensamente vissuti per giorni di pace e di libera convivenza il quadro che segue il 25 luglio si sfrangia in una realtà fosca, cupa, foriera di altri anni di lutti e di rovine come mai l’Italia aveva conosciuto.
(da Patria indipendente N° 12/13 del 25 luglio 1993)
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ultime-news/25-luglio-la-grande-festa-e-la-disillusione-la-guerra-continua/