Franciszka Mann

In polacco il suo nome è Franciszka Mann, anche se alcuni testi la citano come Rosenberg-Manheimer- Mann, Mannówna.

Franceska, di famiglia ebrea, vede la luce il 4 febbraio 1917 a Born auf dem Darß, comune del Meclemburgo-Pomerania Anteriore, in Germania. Si distingue per il suo carattere forte e deciso, oltre a una passione per la danza che perfeziona a Varsavia nella scuola di Irena Prusicka, famosa ballerina. Grazie alla sua maestra e alla predisposizione naturale vince vari premi, il più prestigioso nel 1939, quando raggiunge il 4° posto nel Concorso Internazionale di Danza che ogni anno si svolge a Bruxelles. Un ottimo risultato se si pensa che i partecipanti sono in totale 125.

Durante la manifestazione conosce l’attrice-cantante Wiera Gran e la ballerina Stefania Grodzieńska, e d’entrambe diventa un ottima amica. Rientrata in Polonia lavora come ballerina presso il nightclub Melody Palace e qui la raggiunge la notizia dell’entrata nazista a Danzica e subito dopo dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Con l’arrivo delle svastiche giungono anche le leggi razziali che costringono tutti gli ebrei a concentrarsi nel Ghetto più antico e grande d’Europa, ma le condizioni di vita e il modo di operare dei tedeschi la convincono che le parole degli occupanti sono false. A conferma vi sono le prime deportazioni degli ebrei del Ghetto, oltre a una serie di fucilazioni e maltrattamenti che fanno decidere la giovane ballerina a cercare salvezza altrove. Riesce a uscire dal Ghetto e cerca rifugio presso alcuni conoscenti nella parte “ariana” della città, ma non è al sicuro, dal momento che anche lì i nazisti imperversano con le perquisizioni in cerca di partigiani e di oppositori del regime e, soprattutto, di ebrei sfuggiti alle maglie degli arresti.

Intorno alla metà del 1941, Franceska viene a sapere dall’amica Wiera che due organizzazioni ebraiche svizzere, in accordo con alcuni uomini politici polacchi riparati nella Confederazione elvetica, hanno dato vita a un piano finalizzato a permettere l’espatrio del maggior numero di ebrei polacchi mediante l’utilizzo di passaporti di Paesi del Sud America, neutrali e non belligeranti con la Germania, per cui l’espatrio verrà autorizzato.

I visti confluiscono dapprima in Palestina, quindi vengono fatti arrivare in territorio polacco, allo scopo di realizzare uno scambio con prigionieri tedeschi.

La maggioranza dei documenti confluisce a Varsavia, purtroppo troppo tardi, dal momento che quasi tutti i reali destinatari sono stati deportati nel campo di concentramento di Treblinka.

La Gestapo viene a sapere dei passaporti e decide di utilizzare l’informazione per scoprire il maggior numero di ebrei nascosti nella zona ariana di Varsavia. Il compito di spargere la notizia viene affidato, nel maggio 1943, a Lolek Skosowski, Adam Żurawin e Wiera Gran e il centro del traffico diventa, in un primo momento, l’Hotel Rogal, al civico 31 di via Chmielna, e successivamente l’Hotel Polski, collocato al n. 29 di Dluga Street. Ben presto gli ebrei che avevano disponibilità economiche, come Franceska, rassicurati dai collaborazionisti escono dai loro nascondigli e corrono a comprare i visti. In breve 2.500 ebrei si recano all’Hotel e vi cercano rifugio, poiché i loro nascondigli sono ormai bruciati. E così, oltre alla giovane danzatrice, riparano in questo luogo Menachem Kirszenbaum, attivista sionista, lo scrittore Jehoszua Perle, il poeta Icchak Kacenelson, alcuni militanti della Jewish Combat Organization e dell’Jewish Military Union.

Delle 2.500 persone nascoste nell’Hotel Polski, circa partono 600 per i campi di Vittel, mentre le altre 1.900 vengono destinate a Bergen-Belsen, in Germania, tra costoro c’è Franceska.

Ufficialmente il convoglio parte per Bergau, cittadina vicino Dresda, ma quando i portelloni si aprono, il 23 ottobre 1943, i viaggiatori si rendono conto di trovarsi a Bergen-Belsen, da dove sono in seguito trasferiti al campo di Auschwitz-Birkenau, in Polonia. Le guardie iniziano a separare gli uomini dalle donne; per tranquillizzare tutti, le SS hanno escogitato un piano, il Lagerführer (comandante delle SS del settore maschile) Johann Schwarzhuber si rivolge ai deportati e afferma: «Signore e signori, a nome dell’intera amministrazione del campo, vi porgo il benvenuto! Sono stato incaricato di fare tutto il possibile per agevolare la vostra partenza per i Paesi di cui avete il passaporto. Cedo la parola a un rappresentante del ministero degli Esteri affinché vi delucidi su come si svolgerà il vostro viaggio». Sulla piattaforma sale Franz Hössler, obersturmführer (secondo tenente) addetto al campo femminile di Birkenau: «Signore e signori, sono stato incaricato dal ministro degli Esteri di organizzare il vostro trasferimento in Svizzera, da dove potrete, facilmente, raggiungere i porti italiani e dirigervi verso le vostre patrie. Questa è l’ultima fermata prima di arrivare alla vostra meta. Ci dispiace aver dovuto arrestare il vostro viaggio, ma le autorità svizzere hanno chiesto che prima di mettere piede sul suolo elvetico veniate disinfettati per evitare possiate portare malattie sul loro territorio. Abbiamo dunque deciso di condurvi in questo campo munito di docce. Vi prego di collaborare! Ognuno di voi faccia attenzione al numero dell’appendiabiti allo scopo di recuperare, dopo il bagno, il più velocemente possibile i propri vestiti. Quindi munitevi dei documenti per farsi rilasciare il timbro attestante l’avvenuta disinfestazione, senza la quale non potrete entrare in territorio svizzero. Domani mattina giungerà un treno speciale per portarvi in territorio elvetico, la partenza è prevista per le 7 del mattino. Vi suggerisco di seguire le indicazioni del personale del campo e vi auguro una piacevole permanenza in attesa della vostra dipartita!».

Vengono sistemati dei tavoli, ognuno con una lettera dell’alfabeto, «non appena vi sarete rivestiti, tornate – continua Hössler –, sistematevi dinanzi al tavolo corrispondente all’iniziale del vostro cognome e vi verrà consegnato il certificato».

Le donne erano imbarazzate poiché dovevano spogliarsi dinanzi alle SS, che le invitano anche a deporre gli oggetti preziosi. A debita distanza stavano i Sonderkommando, il cui compito era quello di tranquillizzare le vittime e di convogliare tutti i vestiti e gli oggetti personali nei magazzini soprannominati Canadà, nome scelto per la ricchezza di quella nazione.

«Mentre la maggior parte delle persone è intenta a spogliarsi – afferma nelle sue Memorie il comandante del campo Rudolf Hoess –, alcune erano titubanti e cercavano con lo sguardo una possibile via d’uscita. Alcune SS si sono accorte di ciò e hanno usato un tono più perentorio per convincere i recalcitranti a togliersi tutti gli abiti, dinanzi alla resistenza di costoro le SS hanno iniziato a minacciare, alcune hanno estratto le pistole, altre hanno utilizzato dei bastoni e dei frustini per far eseguire gli ordini. La maggior parte delle persone, impaurite da quello che stava accadendo, si sono dirette alla camera a gas, questo ha riportato l’ordine e la calma».

Rudolf Hoess durante il processo per crimini di guerra. Fu impiccato il 16 aprile 1947 davanti all’ingresso del crematorio di Auschwitz

Nel frattempo, l’SS-Oberscharführer (comandante di squadra) Josef Schillinger e l’SS-Unterscharführer (sergente maggiore) Wilhelm Emmerich rivolge l’attenzione a una donna dai capelli neri che si stava spogliando. Costei accortasi degli sguardi inizia a eseguire uno spogliarello con il chiaro intento di conquistare il diritto a vivere. Man mano che le sue mani slacciano i bottoni e mostrano il suo corpo, i due uomini sono rapiti, sedotti dallo spogliarello e desiderosi di possederla. Schillinger decide di assecondare le sue voglie e le si avvicina per ghermirla, ma la giovane Franceska prende una scarpa, lo colpisce in fronte, e mentre l’SS si lamenta per il dolore, rapida si impossessa della sua pistola e spara due colpi mirando allo stomaco del comandante di squadra, uccidendolo. Prontamente il sergente maggiore Emmerich si lancia verso di lei per salvare il collega, ma la Mann lo colpisce a una gamba. Subito dopo Franceska si nasconde tra il gruppo delle donne, che hanno formato un muro umano. E non appena le SS tentano di catturarla, inizia la rivolta. Riescono a ferire varie SS, che però reagiscono duramente – tra costoro v’è anche Emmerich, sanguinante e zoppicante – costringendole a ritirarsi in una baracca.

Purtroppo non hanno alcuna possibilità di evadere: l’unico accesso è sotto il controllo dei nazisti, che tolgono la corrente per rendere più difficili gli spostamenti e incutere paura nel cuore delle ribelli. Le donne sprangano la porta e si barricano all’interno, cercano di decidere il da farsi, provano a fuggire, ma vengono respinte dalle sventagliate di mitragliatrici. Non rimane che attendere l’irruzione, consapevoli di non avere alcuna speranza sono tuttavia decise a vendere cara la pelle. A guidarle c’è Franceska. Non si arrendono ma vengono sopraffatte, catturate e costrette a uscire fuori, non viene loro concesso il diritto alla decenza e nude sono fucilate. Il corpo della ribelle Franceska, che ha osato uccidere una SS, viene condotto nella sala delle dissezione del Dottor Morte, Josef Mengele, uso a condurre esami sui vivi e sui cadaveri in cerca di scoperte mediche innovative.

L’SS Emmerich viene fasciato e trasportato all’ospedale di Katowice; durante il tragitto grida: «O Gott, Mein Gott, era Ich hab getan, das ich muss leiden così? (Oh Dio, mio Dio, che cosa ho fatto per soffrire così?)». Secondo alcuni rapporti muore lungo la strada, secondo altre testimonianze il giorno dopo.

Il tentativo di rivolta fornisce forza e speranza ai detenuti di Auschwitz-Birkenau: «L’incidente è passato di bocca in bocca – ricorderà il sopravvissuto Wieslaw Kielar nel suo Anus Mundi –, impreziosito in vari modi, fino a diventare leggenda. Senza dubbio quel gesto eroico, compiuto da una donna debole davanti a morte certa, ha dato sostegno morale a tutti i prigionieri. Ci siamo resi conto tutti che se avessimo osato alzare una mano contro di loro, quella mano avrebbe potuto ucciderli; anche loro erano mortali».

Franceska Mann è divenuta un simbolo: dinanzi ai soprusi si deve sempre e comunque cercare di resistere, anche quando tutto sembra sommergere il mondo.

Stefano Coletta, insegnante