Lo schiaffo al soldato nazista, poi la corsa disperata di Anna Magnani dietro il camion che porta via il marito e l’urlo di quel nome stroncato da una raffica di mitra, sono il cuore di Roma città aperta, il grande film di Rossellini.

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Anna Magnani, nella celebre sequenza di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini

Ogni volta la scena fa salire agli occhi le lacrime. Perché il richiamo disperato della Magnani è una staffilata in faccia, un appello al combattimento carico di rabbia, di dolore, di odio contro l’invasore, contro l’ingiustizia e la prevaricazione.

roma città aperta-corsaUna chiamata alle armi fatta da una donna. E le donne, durante tutta la Resistenza, risponderanno impugnando il fucile insieme agli uomini, ai mariti, ai fratelli, ai figli. E si batteranno per la libertà in mille modi diversi, trasformandosi in staffette, in partigiane dei Gap, in infermiere, in portatrici di bombe e dinamite, in compagne fedeli nei momenti difficili, in crocerossine improvvisate, in organizzatrici di rifugi e nascondigli nei boschi e nelle grandi città, in “tagliafili” dei telefoni dei comandi tedeschi e fascisti, in organizzatrici infaticabili dei Gruppi di Difesa della Donna, in comandanti di formazione, in portatrici di pane e carte topografiche, in esploratrici pronte a tutto.

Ci sarebbero da scrivere mille racconti sulle donne nella Resistenza e sulle donne in guerra. Perché, nonostante tutto, rimasero anche madri, mogli, fidanzate, sorelle. Si battevano, ma dovevano occuparsi anche dei figli, trovar loro da mangiare e un posto sicuro per dormire; lottavano, ma non riuscivano nemmeno a dimenticare il marito partito per la guerra e mai più tornato. E ogni più piccola e semplice incombenza era una battaglia, minuto dopo minuto. Senza dimenticare i manifestini antifascisti da infilare nella borsa o nel reggiseno, senza dimenticare di avvertire i compagni quando il pericolo si avvicinava o facendo grande attenzione al carico di armi trasportato con la bicicletta. Diciannove di loro hanno ricevuto la Medaglia d’Oro al valor militare perché sono state vilipese, torturate, assassinate. Altre, sono scomparse nel nulla senza lasciare traccia. Altre ancora sono sopravvissute per un soffio e non si sono mai pentite delle loro scelte.

Ne ho parlato tantissime volte con Carla Capponi, Medaglia d’Oro, gappista romana, che, con Rosario Bentivegna, portò a termine l’attentato di via Rasella, a Roma, del 23 marzo 1944. Venne colpito in pieno, come si sa, un battaglione di SS provocando poi la vendetta nazista delle Ardeatine…

Carla mi spiegava che nei tanti attentati che aveva portato a termine, era sempre riuscita a cavarsela per la freddezza del suo carattere e perché andava sempre in giro, per la città occupata, ben truccata, ben vestita e con l’aria sicura di sé. Per i fascisti e i nazisti, invece, le partigiane dovevano appartenere al sottoproletariato ed essere mal vestite e simili a straccione. Lei, anche in occasione di un paio di rastrellamenti, riuscì a cavarsela proprio per quella sua aria signorile, sfacciata e mostrando una falsa tessera fascista. Se avessero messo le mani nella sua borsa avrebbero, invece, trovato la solita pistola carica.

Stessa situazione e stesso stile per Walkiria Terradura, figlia di un’importante famiglia umbra, finita poi a comandare direttamente un gruppo di partigiani maschi sui monti del Burano e partecipante diretta ad un gran numero di scontri a fuoco.

Sono tante, e diverse, le vite di molte partigiane combattenti. Fa impressione scorrere le loro foto e “leggerle” con un po’ di attenzione per capire e spiegare. È come andare alle Fosse Ardeatine e scoprire che nelle cave furono massacrati operai e contadini, generali e carabinieri, bottegai e commercianti, professori e studenti. L’uno accanto all’altro nella lotta e nella morte, per un’Italia migliore. Un incredibile spaccato del Paese.

Per le donne partigiane è la stessa cosa. Tra le combattenti, morte o rimaste vive, c’è di nuovo quest’Italia diversissima ma unita per la libertà. Accanto a Carla Capponi, studentessa sempre elegante e raffinata, ecco Gabriella Degli Esposti, di umilissime origini, madre di due bambini e in attesa del terzo figlio, che divenne tenente di una formazione partigiana. Catturata, fu torturata a lungo, le strapparono i seni e gli occhi e poi la fucilarono. Ed ecco, invece, Cecilia Deganutti, insegnante elementare e crocerossina, torturata e fucilata a Trieste il 4 aprile 1945.

Sono storie bellissime e drammatiche anche quelle di tutte le altre e la “lettura” delle loro foto permette tantissime osservazioni. Dalla pettinatura di alcune di loro, dai vestiti, dal modo di mettersi in posa davanti alla macchina fotografica, si coglie la provenienza sociale, la conoscenza delle cose del mondo, lo stile di vita, la scolarità.

Paola Del Tin e Anna Maria Enriquez erano sicuramente due ragazze coltissime che, forse, la sera, a casa, ascoltavano le canzoni di Rabagliati e andavano in giro con ai piedi quegli zeppoloni di sughero che erano di moda allora.

Anna Maria era coltissima e aveva scritto anche dei libri. La fucilarono a Firenze, sul greto del Mugnone, nel maggio del 1944. Stessa sorte per Tina Lorenzoni che veniva da una colta famiglia fiorentina. Partecipò direttamente alle battaglie partigiane in Toscana e a Milano ed era in costante contatto con i militari di “Radio Cora”. Catturata, venne uccisa mentre tentava di fuggire dalla prigione. Ancilla Marighetto, della provincia di Trento, veniva invece da una famiglia di contadini e di casari. Forse era abituata a portare ai piedi solo gli zoccoli di legno, ma quando cercarono di prenderla, lei si rifugiò sopra ad un albero e scaricò tutti i colpi della sua pistola sui fascisti. Prima era stata sui monti del Trentino con una formazione partigiana. Sputò in faccia ai suoi fucilatori. Aveva appena diciotto anni.

Irma Marchiani, partigiana combattente, era invece ricamatrice, modista e si occupava anche di pittura. Divenne vicecomandante della brigata “Matteotti”. La fucilarono a Pavullo nel Frignano.

Poi ci sono ancora le storie nobilissime e grandi di Irma Bandiera, nata da una famiglia benestante, torturata e fucilata davanti alla porta di casa e di Gina Borellini ferita gravemente in combattimento e costretta per tutta la vita a muoversi senza una gamba. E ancora quelle di Iris Versari, Laura Polizzi, Marisa Musu, Carmen Grenzi. Lidia Brisca Menapace, Lucia Ottobrini e tante, tante altre splendide ragazze della Resistenza.

Una in particolare non riesco a dimenticare. Si chiamava Cleonice Tomasetti. C’è una foto famosa nella quale si vede un gruppo di una quarantina di partigiani laceri e stracciati che vengono fatti sfilare tra Intra e Pallanza. Due di loro sono costretti a portare un cartello con la scritta: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. Intorno è pieno di soldati nazisti con i mitra in pugno. Sotto il cartello, si staglia la figurina di una ragazza con un fazzoletto in testa e in mano un fagotto o una borsa. La ragazza guarda dritta davanti a sé, come se fosse in marcia per andare a fare la spesa. Cammina sugli zeppoloni di sughero e non fa un gesto. Sarà fucilata insieme a quarantuno partigiani e il suo corpo gettato in una fossa comune. Ci vorranno anni per scoprire che era una sartina, attivissima antifascista e partigiana da sempre. Uno dei combattenti scampato alla strage, racconterà che Cleonice, lungo tutta la strada, aveva detto: “Ragazzi, mi raccomando, fate vedere che sappiamo morire bene”.

 Wladimiro Settimelli, giornalista, già direttore di Patria Indipendente

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Le foto a colori sono tratte dal libro del fotografo Giulio MalferPartigiani – Uomini e donne che hanno lottato per la libertà e la democrazia” (edizioni Redframe – 2010)