Clemente Ferrario (da http://cdn.gelestatic.it/ repubblica/blogautore/sites/ 91/2018/02/2294673_136.jpg)

Ci sono uomini che subiscono la storia, e spesso ne sono spettatori pavidi, alternativamente preda di glaciali egoismi o schiavi di “gesti perduti”, come li definì Calvino ne Il sentiero dei nidi di ragno.

E ci sono uomini che scelgono di abitare il proprio tempo, immettendo in esso la determinazione del proprio passo e la passione delle proprie idee.

Ad ogni svolta del cammino, di queste idee, essi alzano il lume.

Davanti agli angoli oscuri e alle stanze cupe della storia, e specialmente quando il presente sembra fagocitato nel gorgo dell’insensatezza o della ferocia – essendo insensatezza e ferocia più spesso di quanto non si creda fittamente intrecciate – questi uomini rivendicano il diritto all’esercizio della critica e della ragione.

Clemente Ferrario era uno di questi uomini.

Abbiamo voluto approfondirne la figura in una giornata di studio, sabato 11 maggio, patrocinata dall’Università degli Studi, dalla Provincia e dall’Anpi di Pavia, l’associazione cui Ferrario è stato iscritto tutta la vita, in lealtà verso la scelta che, diciotto anni appena compiuti, “con un po’ di biancheria e qualcosa da mangiare nella borsa di finta pelle”, a fine settembre 1944, lo vide salire a Varzi, percorrendo a piedi gli ultimi 30 chilometri fino al confine: “di qua i tedeschi di là la repubblica partigiana”, scrisse nel libro “Il buon partito” (1990 ed. Scheiwiller).

“Nel febbraio di un anno fa, rendendo a Clemente l’ultimo saluto, avevamo promesso di ritrovarci”, apre i lavori Ernesto Bettinelli, costituzionalista insigne, professore emerito dell’Università degli Studi di Pavia. E presieduto dal professore, alle ore 9 il convegno inizia con i saluti di Vittorio Poma, presidente della Provincia, l’ente che anni fa ha sostenuto la pubblicazione di “Oltrepò partigiano, documenti della Resistenza armata”, e il ricordo di Virginio Rognoni, già ministro degli Interni, che verso il coetaneo Ferrario ha parole misurate e commosse, aggrappate al tempo comune della scuola e dell’adolescenza: due uomini le cui diverse scelte politiche non scalfirono il rispetto e la reciproca stima.

La sala in cui ricordiamo Ferrario è strapiena. A Pavia, lo conoscevamo tutti, se non altro per averlo visto percorrere con il suo passo deciso, nonostante la leggera zoppia, il tratto tra il tribunale e il suo studio di avvocato.

Lo conosceva Bruno Ziglioli, professore associato di storia contemporanea, che interviene sulla formazione politica del giovane partigiano; lo conosceva Pierangelo Lombardi, direttore dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, affidando la sua indagine a uno scritto approfondito e denso che, con tutte le relazioni, sarà pubblicato negli atti della giornata.

Conosceva Ferrario anche Elisa Signori, docente ordinario di storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi umanistici, che con sapienza e leggerezza si sofferma sulla puntuale ricognizione dei suoi libri, dalle “Origini del partito comunista nel pavese” (Editori Riuniti, 1969) fino al “Il tempo remoto delle certezze” (edizioni Guardamagna, 2013); lo conosceva Marina Tesoro, professore ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali, cui qualche anno fa Ferrario affidò una cartellina rossa contenente il prezioso carteggio con l’”eretico” comunista Alfonso Leonetti.

Ed era legato a Ferrario da un profonda amicizia Luigi De Angelis, già consigliere di Cassazione, che ne testimonia la lunga esperienza di avvocato da una parte sola, e lo vide impegnato per molti anni come legale della Cgil.

In sala tutti sono attenti: perché raccontare Ferrario, uomo del secolo breve, significa raccontare la scelta della politica militante, l’idea del comunismo e della rivoluzione leninista, per come essa appassionò intere generazioni di antifascisti: il giovane Ferrario, certo, ma anche i suoi maestri e i suoi compagni, da Beniamino Zucchella, nome di battaglia Carlo, volontario tra i volontari in terra di Spagna, ferito a Guadalajara dagli italiani fascisti di Roatta, responsabile del partito comunista nell’immediato dopoguerra, a Carlo Lombardi, nome di battaglia Remo, 19 anni di galera sotto la dittatura, l’ultimo partigiano che, novembre ’44, “solo e sotto la pioggia, con un carretto”, deve abbandonare Varzi sotto la pressione del feroce rastrellamento. (Carlo Lombardi, “Vita di un contemporaneo”, ed. La Pietra).

Raccontare Ferrario significa raccontare i comizi nelle campagne della Lomellina, anno 1948, il lavoro militante nella sede comunista di Palazzo Broletto, le grandi figure del 900 italiano, da Togliatti a Longo ad Amendola, ma anche l’operaio della Necchi Angelo Marinoni, diventato dirigente della federazione comunista pavese, al centro del libro “Un comunista degli anni 50”, pubblicato per i tipi delle edizioni Teti.

In sala l’attenzione non cede: perché raccontare Ferrario vuole dire anche misurarsi con la memoria pubblica della Resistenza, con la storia e le contraddizioni del partito comunista: “nato nel 1926, proprio quando la violenza fascista avrebbe dovuto essere affrontata con l’unità di tutte le forze popolari”; “soffocato dal mito della rivoluzione russa dell’ottobre, quando ormai la situazione non è più rivoluzionaria”, scrisse nel 2016 in “Un sogno rattrappito” (ed. Guardamagna). Una storia cui Ferrario resta legato da un debito esistenziale: “senza il partito sarei stato un avvocato di provincia che alla sera andava al cinema o chiacchierava di calcio con gli amici, non avrei avuto una visione del mondo, della vita. Indifferente alle vicende del nostro tempo, avrei pensato solo agli affari miei, senza contatto con la realtà sociale”.

Ferrario partigiano, Ferrario dirigente del partito di massa di Togliatti, Ferrario avvocato da una parte sola, Ferrario che scrive e racconta: perché la storia diventa “storia” solo quando si affida alla parola scritta.

Ferrario, allora, alla macchina da scrivere.

Carla Torselli, la sua Carla, usa il computer. Clemente no.

Ferrario batte sui tasti: scrive di sé e di molti, scrive di sé e dei propri compagni, scrive di sé e degli operai e dei contadini, (“Operai e contadini, un secolo di storia e oltre”, ed. Effigiem 2004), scrive di sé, dei suoi zii socialisti, del suo amore per Tolstoi, cerca le fonti, cerca le fotografie, in una fitta opera di raccolta e sistematizzazione.

Ferrario batte sui tasti, e scrive: perché la scrittura è una tentazione cui un uomo di passione come lui non può resistere, come ben sottolinea Angelo Stella, presidente del Consiglio direttivo del Centro nazionale di Studi Manzoniani che con Anna Modena, docente presso il Dipartimento di Studi Umanistici – sezione di Scienza della letteratura e dell’arte medievale e moderna, concludono la giornata di studio annunciando che a settembre, per l’editore Guardamagna, uscirà “Uomini della Resistenza”, silloge di scritti/ racconti tratti dai testi di Ferrario.

Ferrario batte sui tasti perché scrivere è imprimere un segno nel futuro e sconfiggere la morte.

Ferrario batte sui tasti, e racconta: la sua narrazione ha lo stesso ritmo del suo passo, quando, ragazzo, camminava verso la repubblica garibaldina di Varzi.

Allora era il sentiero.

Dalla Liberazione in poi sarà la pagina dattiloscritta, che si fa libro.

La sala continua a essere attenta; sono le 13 quando lo schermo si illumina per restituirci l’immagine di Ferrario con Luchino Dal Verme in un bel video “Noi partigiani dell’Oltrepo” (realizzato da Ivano Tajetti della sezione Anpi Barona).

Non dimenticheremo nulla: è tempo per noi di riprendere in mano i libri di Ferrario per abitare la nostra stagione senza esserne succubi.

Un libro è una fiaccola in questo nostro tempo buio, dove il nome di Clemente, e quello del partigiano che gli era più caro, del suo fratello dell’anima, Ciro Barbieri, rischia di essere scordato.

Annalisa Alessio, vicepresidente del Comitato provinciale Anpi di Pavia