Il Capo dello Stato, Enrico De Nicola, firma la Costituzione italiana a palazzo Giustiniani, il 27 dicembre 1947. Al suo fianco, da sinistra a destra, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, Francesco Cosentino, funzionario, Giuseppe Grassi, guardasigilli, e Umberto Terracini, presidente della Costituente

Approvata a larghissima maggioranza dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, e promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, il successivo 27 dicembre, la Costituzione della Repubblica italiana entrava in vigore il 1° gennaio del 1948.

Gli anniversari, si sa, sono spesso occasione di stanchi rituali celebrativi, di futile esercizio retorico, ma possono anche rappresentare momenti di riflessione e di bilancio: per l’ANPI, che si è assegnata statutariamente il compito di «concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della Guerra di Liberazione», è persino doveroso chiedersi in quale misura siano stati realizzati i principi cardinali della nostra Carta fondamentale e – più in generale – il modello di democrazia in essa delineato.

 

Tale interrogativo appare tanto più giustificato laddove si consideri che la Costituzione non si limita a stabilire la forma di Stato e di governo, a definire l’ordinamento istituzionale, a garantire ai cittadini il pieno e universale godimento dei diritti individuali, sociali, civili, politici, ma enuncia una tavola di valori (libertà, laicità, uguaglianza, solidarietà, pace) che la Repubblica è impegnata a inverare, come si proclama solennemente nell’art. 3.

La verifica del cammino percorso, dei progressi compiuti e degli arretramenti subiti, consente peraltro di rivisitare da un’angolatura particolare l’intera storia dell’Italia repubblicana, agevolando la comprensione delle dinamiche – anche conflittuali – che la hanno attraversata e che sono, in qualche misura, alla radice delle drammatiche difficoltà del presente.

La Costituzione ha avuto in ogni tempo numerosi e agguerriti nemici, e non soltanto nelle file dei nostalgici del fascismo (e della monarchia). Nella stagione del centrismo, i partiti moderati e conservatori non soltanto differirono l’attivazione di alcuni importanti organismi e istituti previsti nella Carta fondamentale (è appena il caso di ricordare che la Corte Costituzionale entrò in funzione soltanto nel 1956, che il Consiglio Superiore della Magistratura si insediò ufficialmente nel 1959, e che si è dovuto attendere addirittura il 1970 perché le Regioni vedessero la luce), ma coltivarono fin da subito il segreto proposito di modificarla: la riforma elettorale del 1953, più nota come “legge truffa”, che prevedeva l’assegnazione dei due terzi dei seggi parlamentari alla lista o al gruppo di liste collegate che avessero ottenuto più della metà dei voti validi, aveva lo scopo di consentire allo schieramento centrista di cambiare la Costituzione evitando di sottoporsi alla prova del referendum confermativo.

Una svolta si verificò sul finire degli anni Sessanta, quando lo sviluppo di poderosi movimenti di massa innescò e favorì un ampio e incisivo processo riformatore che conobbe i suoi apici nel nuovo diritto di famiglia, nello Statuto dei Lavoratori, e nel decennio successivo con la legislazione sul divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza, la creazione del Servizio Sanitario Nazionale.

Ma proprio l’esteso riconoscimento di diritti sociali e civili costituzionalmente sanciti e, ciò nonostante, a lungo disattesi, scatenò una violenta reazione che si manifestò nel fenomeno denominato “strategia della tensione”, ovvero nell’intreccio perverso fra trame golpiste, stragismo nero e terrorismo brigatista (talvolta millantato come riscatto della “Resistenza tradita”).

(Imagoeconomica)

A partire dagli anni Ottanta l’instabilità del quadro politico, determinata dall’esaurimento dell’esperienza di centro-sinistra prima, e poi dalla velleitaria, infruttuosa introduzione di un sistema bipolare, è stata strumentalmente addebitata all’obsolescenza della Carta fondamentale, e la necessità di garantire la “governabilità” si è tradotta in ripetuti tentativi di revisione costituzionale, inaugurati nel 1983 dalla Commissione bicamerale presieduta dall’on. Bozzi.

Il fallimento di questi tentativi, a eccezione di quello che ha portato alla modifica del Titolo V, non ha però impedito che, accanto e in sovrapposizione a quella “formale”, emergesse e si consolidasse una Costituzione “materiale” caratterizzata dalla crescente riduzione delle prerogative del Parlamento e, per converso, dalla primazia dell’esecutivo, nonché dal sempre più accidentato rapporto fra governo centrale e governi regionali (come ha dimostrato per ultimo la gestione della pandemia), e determinata da una pluralità di fattori (primi fra tutti la dissoluzione delle forze politiche che avevano dato vita al patto costituzionale, la caduta della discriminante antifascista, la nascita di partiti personali, leaderistici e/o personali e le conseguenti distorsioni della rappresentanza, la diffusione dell’antipolitica e le fortune del populismo).

(Imagoeconomica)

Ma anche le conquiste sociali ottenute in fasi precedenti sono state messe in discussione e talvolta drasticamente ridimensionate: la globalizzazione selvaggia, il dominio della grande finanza, l’egemonia neoliberista hanno infatti prodotto la contrazione della spesa sociale, avviato lo smantellamento del welfare, imposto criteri produttivistici e aziendalistici all’erogazione e all’organizzazione di servizi pubblici essenziali, mortificato la dignità del lavoro.

Giorgia Meloni, presidente del Consiglio (Imagoeconomica)

Oggi, nel tempo della destra al governo, contro la Costituzione si annuncia una ennesima offensiva, che si propone addirittura di mutare la forma di governo e la forma di Stato, rispettivamente attraverso il presidenzialismo (o semipresidenzialismo: i contorni del progetto sono ancora fumosi), l’autonomia differenziata, le ipotesi di modifica dell’ordinamento giudiziario. Senza entrare nei dettagli, e senza imbastire processi alle intenzioni (anche se è difficile non avvertire nel mantra presidenzialista il sentore di suggestioni plebiscitarie e di tentazioni autocratiche), si deve almeno osservare che, assumendo le funzioni di capo del governo, la figura del Presidente della Repubblica perderebbe le sue caratteristiche di garanzia e d’imparzialità, mentre verrebbe definitivamente alterato l’equilibrio dei poteri a vantaggio dell’esecutivo, e lesa l’indipendenza di alcuni organi istituzionali (si rammenti che un terzo dei giudici della Corte Costituzionale è di nomina presidenziale).

Quanto all’autonomia differenziata, oltre a segnalare che il suo iter attuativo rappresenta un’ulteriore mortificazione del ruolo del Parlamento (esautorato da ogni potestà decisionale in una materia di assoluta rilevanza ordinamentale), va denunciato che essa contrasta clamorosamente con il principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica affermato nell’art. 5, e introduce una sorta di federalismo à la carte destinato ad aggravare divari e disuguaglianze.

È bene chiarire che l’articolo appena citato esprime la volontà non solo e non tanto di preservare l’integrità territoriale della nazione (all’epoca minacciata dal separatismo siciliano, dal secessionismo sudtirolese e dalle tensioni al confine orientale), quanto soprattutto di rendere compatibili il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali e «il più ampio decentramento amministrativo» con la coesione statale e con il dovere di assicurare indistintamente a tutti i cittadini uniforme trattamento e pari opportunità.

A corollario, o – se si vuole – in premessa, la destra persegue l’obiettivo di rimuovere, se non addirittura di negare, la matrice e l’ispirazione antifascista della nostra Carta fondamentale. Un obiettivo addobbato della veste culturale fornita dalla copiosa letteratura revisionistica che da decenni si accanisce nella denigrazione del significato e della portata della lotta di Liberazione (fra la colpevole indifferenza, occorre aggiungere, delle forze democratiche), e dettato non soltanto da spirito revanscistico, da orgoglio identitario, ma anche e soprattutto dall’intento di svuotare di senso e privare di efficacia alcuni precetti della Costituzione in palese e radicale contrasto con i provvedimenti assunti o predisposti dal governo in carica (per esempio in tema di ordine pubblico, di accoglienza dei migranti, di fisco).

A 75 anni dalla sua entrata in vigore, insomma, la Carta fondamentale continua a essere bersaglio di assalti sempre più insidiosi. Si profila dunque una dura e non breve battaglia, insieme politica e culturale.

La storia, anche recente, insegna che esistono energie sufficienti a reggere con successo la sfida, a condizione che siano organizzate e mobilitate. Per parte sua, l’ANPI non farà mancare il suo contributo alla costruzione di una vasta e unitaria alleanza democratica e di progresso in difesa delle Costituzione, e per la concreta attuazione degli ideali e dei valori in essa custoditi.

Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi