Prima guerra mondiale, soldati in trincea

Pubblichiamo una riflessione sulla missiva del direttore scolastico delle Marche rivolta agli studenti in occasione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate. Un testo dai toni militaristici e nostalgici, con espliciti richiami al ventennio e che terminava con il “Presente!” molto caro ai camerati. In attesa – dopo le proteste di Anpi, Istituti storici, docenti universitari, esponenti parlamentari – dei chiarimenti chiesti dalla ministra Azzolina e si auspica di eventuali provvedimenti.

 

Nelle sue funeste righe, ufficialmente inviate il 4 novembre a tutti gli studenti delle scuole marchigiane, il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per le Marche, professor Marco Ugo Filisetti, condensa la trista brutalità della celebre “libretta rossa” di Luigi Cadorna, la fosca fascinazione della “bella morte” di matrice dannunziana, e la nullità retorica di quel generale che, nell’imminenza annunciata del disastro di Caporetto, intrattenne le truppe in una conferenza titolata “è dolce morire per la patria”.

Non tutti sarebbero riusciti in una simile impresa; tanto rozza, da non meritare ulteriori parole, oltre a quelle, già perfette, sottoscritte, a quanto leggiamo, da numerosi docenti di storia delle università marchigiane, dall’Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nelle Marche di Ancona, di Ascoli Piceno, di Macerata e dall’Istituto di storia contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino.

Quello che spinge a tornare sull’argomento è, piuttosto, un inquieto interrogativo.

Come accade che, ad oltre 100 anni dal 4 novembre 1918, i funerei disvalori espressi dal professor Filisetti possono ancora esser detti? Anche da una persona che si presume essere di cultura?

Forse, occorre tornare al 1919.

A fronte dell’erompere della protesta proletaria di massa “maturata in quattro anni di carneficina, di sfruttamento intensificato, di oppressione continua a tutti i livelli” (G. Rochat, L’Italia nella prima guerra mondiale, problemi di interpretazione), mentre i tribunali militari non hanno ancora finito il loro sporco lavoro, nel cuore delle istituzioni statali, trova egemonia la parola d’ordine del “serrate i ranghi”, allineando borghesia e esercito in un unico blocco antisocialista.

Francesco Saverio Nitti

E il presidente del Consiglio, Saverio Nitti, artefice e interprete del sotterraneo compromesso tra le diverse anime della borghesia – tra giolittiani e cattolici e la destra interventista – scrive: “La verità è che abbiamo vinto, e che la vittoria ha sanato tutto. Varie sono le formule della morale, ma la morale del mondo in fondo è una sola: chi vince ha ragione (G. Rochat, L’Italia nella prima guerra mondiale)”.

Queste parole stroncano ogni riflessione seppur moderatamente critica e aprono la strada ad una immensa operazione di rimozione e di persuasione di massa, posando un inamovibile macigno sul sentire del Paese, torturato dagli anni della trincea.

D’ora in poi si tacerà sulla folle modalità dell’ingresso italiano nel conflitto.

Si tacerà sull’incapacità strategica e sulla protervia antipopolare degli stati maggiori, quando opportuno prestamente parati dietro l’eroismo delle truppe che, tra le peggio armate e le peggio rifornite d’Europa (P. Melograni, Storia politica della grande guerra), combattono con la stessa rassegnata determinazione con cui il mondo rurale guarda il campo sterminato dalla tempesta.

Furono oltre quattromila i soldati italiani condannati a morte e più di un migliaio le esecuzioni per decisione dei massimi gradi dell’esercito. (foto da https://cdn77.pressenza.com/wp-content/uploads/2017/02/paths-of-glory-execution-720×405.jpg)

Si tacerà sulle pratiche della giustizia sommaria, sul ruolo delle forze dell’ordine nelle trincee, sulle decimazioni, sulle punizioni, come pure sul non trascurabile fenomeno dell’autolesionismo dei soldati.

Si tacerà, soprattutto, sui risultati di una guerra che, immaginata breve e facile nelle “radiose giornate del maggio interventista”, aggravò la curva autoritaria dello Stato e ne ingigantì tutti i problemi: “Un apparato produttivo concentrato e squilibrato, una macchina statale cresciuta troppo in fretta, improvvisata, fatta a compartimenti stagni e largamente infeudata dagli interessi dei più forti gruppi economici, un personale dirigente eterogeneo tenuto insieme da una comune inclinazione verso soluzioni autoritarie, una opinione pubblica formatasi sotto il segno della guerra e dell’esasperazione” (G. Procacci, Storia degli italiani).

Il grande compromesso del 1919, fermentato nelle fragili istituzioni liberali, e fortemente connotato in senso antisocialista, detta la linea di una narrazione tossica della grande guerra presentata come eroica epica patriottica e nazionale, oscurando ogni altra voce, e frenando lo stesso lavoro di ricerca.

Venti anni di fascismo andarono consolidando questa narrazione.

Friuli Venezia Giulia, sacrario dei Caduti della Grande guerra

Da essa, anzi, il fascismo attinse simboli e linguaggi e rafforzò questa narrazione nell’educazione autoritaria e nel valore della cieca obbedienza, raggelata nel marmo dei sacrari ai Caduti che, privi di diritti da vivi, acquistano valore perché Caduti, e, della tragedia della nuova guerra che si prepara, sono gli immoti, silenti osservatori.

Ahimè, la narrazione tossica della grande guerra permea le coscienze, diventa intangibile paradigma nazionale, tanto da indurre al sospetto che “attorno alla grande guerra intere generazioni di italiani (indipendentemente dal proprio colore politico) abbiano stabilito una specie di accordo inconscio per salvare il loro mito e nascondere la loro cattiva coscienza (Forcella/Monticone, Plotone di esecuzione)”.

E trapassa attraverso i decenni, tanto da proporsi viva e presente nelle righe del professor Filisetti.

E temiamo anche nel non-detto, oscuro e profondo, di un Paese che predilige la memoria alla storia, la commemorazione genuflessa al duro rigore della riflessione critica; e, sopra ogni cosa, mostra di amare una auto assoluzione generica e indulgente che ancora oggi ostacola un esame di coscienza radicale sul nostro passato.

Annalisa Alessio, vice presidente Comitato provinciale Anpi Pavia