
Il tempo si ferma quando lui parla. Con un lampo negli occhi scorrono via 80 anni e lui ne ha di nuovo 20, si chiama ‘Sorcio’ ed è un partigiano. Si resta quasi increduli di fronte a tanta lucida memoria, alla densità dei particolari, all’emozione intensa con la quale rivive, fa rivivere insieme a lui, i tanti momenti della vita partigiana, le scelte, le difficoltà, le fortune e le tragedie di quei 20 mesi ineguagliabili e unici.
Renato Giara è nato a Vercelli, nel popoloso rione dei Cappuccini che si snoda lungo il fiume Sesia, quasi ‘una piccola città’ nella città, il 21 aprile 1925.

Una data che diventa ancora più simbolica in questo 80° della Liberazione, nel quale la sua famiglia, il suo quartiere, la sua città, la sezione locale di Anpi ‘Anna Marengo’, l’Anpi provinciale, lo Spi/Cgil e l’IstorBiVe, che per l’occasione gli ha donato la tessera ad honorem, l’hanno omaggiato e festeggiato a lungo. Molti gli articoli a lui dedicati dai media nazionali e locali e molte le interviste, alle quali ha risposto con la pacata serenità e la gentilezza di sempre.

Renato è stato a lungo applaudito e abbracciato soprattutto nel corso della cerimonia commemorativa dei 14 Martiri del rione Cappuccini, ragazzi che, come lui e insieme a lui, hanno scelto la strada della lotta partigiana ma non sono tornati alle loro case. La lapide che li ricorda è giustamente stata affissa al muro di una scuola, la De Amicis, perché anche i più piccoli ne leggano i nomi: Giuseppe Bertotti, Rambaldo Bertotti, Pierino Bodo, Giovanni Casalino, Giovanni Corradino, Giovanni Ferraris, Francesco Fornaro, Giulio Lesca, Armando Negro, Danilo Ranghino, Giovanni Rosso e Elivio Sereno.
Renato era con loro ed è ancora qui, è il nostro partigiano più resistente, l’unico che in città ancora ci può ricordare, con parole, sorrisi e qualche magone, quanto sia stata formativa e unica quella stagione della sua vita, la gioventù, vissuta tra le fila della Resistenza. Per raccontarne i momenti più salienti, e quelli dei suoi compagni di lotta e della gente del suo rione, leggiamo ‘Il tempo delle lune e della falce’ di Sandra Ranghino, Leone e Griffa Edizioni, e ascoltiamo l’intervista che ha rilasciato a Laura Gnocchi nel novembre 2019 per il sito noipartigiani.it di Anpi nazionale. Ero con lui, quel giorno d’inverno, seduta sul divano del suo tinello, mentre raccontava a Laura con commozione e precisione le tante scelte e i tanti rischi corsi in una vita così lunga.
Un secolo di vita, un secolo di storia d’Italia

Renato nasce in quel 1925 che inizia con il discorso di Mussolini alla Camera dopo l’omicidio Matteotti, mentre suo padre, come tanti in quegli anni, è migrato in America un po’ per cercare lavoro e un po’ perché è antifascista e stare in Italia non conviene. Quando ritorna a casa, per l’amnistia del 1932, Renato non lo conosce e non lo vuole, ma la sua vita prosegue tranquilla: madre mondina, padre operaio, il fratello Eraldo è un militare (che con l’armistizio sceglierà la Resistenza) e lui a 14 anni è già sellaio, lavora ma è poco più che bambino.
Passano gli anni e arriva, dopo l’8 settembre, la chiamata alle armi per la classe del 1925 e lui e due amici, Franco Sarasso e Giovannino Corradino, come altri ragazzi del tempo, non ci stanno. Sono i mesi in cui la ‘meglio gioventù’ inizia a scappare dalle città per raggiungere, in collina e in montagna, le brigate partigiane appena nate.
Lui e i suoi amici non si presentano in caserma e all’inizio si nascondono in casa, in cortile, sotto la gabbia dei conigli: nell’unica passeggiata verso Prarolo inciampano però nei militi di una Brigata nera che li spedisce ad Aosta, tra gli alpini della Monterosa, quindi vengono portati a Munzingen, in Germania, con i tedeschi. Finiti i sei mesi di addestramento, una brutta avventura: durante il viaggio di ritorno, scambiatolo per complice di disertori, nei pressi di Serravalle Scrivia, viene legato per 12 ore a un palo della luce ma lui riesce a scappare e torna a casa a piedi.

Inizia così la stagione della Resistenza, prima a Rovasenda nei capannoni Fiat a fare l’elettricista, poi a Ronco di Masserano nella 12° divisione della 50° Brigata Garibaldi, dove ritrova il fratello.
Sulla stranezza del suo nome di battaglia Renato racconta un piccolo aneddoto: “al momento di decidere io dico ‘Topolino’, ma c’è già, allora ‘Topo’, ma anche questo è già preso…non resta che ‘Sorcio’, e così è stato!”.

Giovane e coraggioso, partecipa alle tante incursioni volanti sulle provinciali e anche alla battaglia di Villata, nella quale perde un caro amico, e a quella della cascina Garella, che racconta così: “È stata una battaglia enorme. Si è confrontata tutta la 50esima Brigata Garibaldi, più di 200 tedeschi e fascisti ci attaccano in massa, a piedi per la strada. Una sparatoria lunghissima e i tedeschi si ritirano, tornano e si ritirano di nuovo lasciando morti, noi solo un ferito. Stessa cosa accade sul fronte verso Biella. Ma noi siamo scarsi di munizioni e dobbiamo andarcene e scegliamo la strada verso Gattinara che i nazifascisti non avevano, per fortuna, bloccato. Sarebbe stata una strage”.

Dopo la battaglia Renato viene incaricato direttamente dal comandante “Gemisto” (Franco Moranino) di controllare ogni giorno la strada che da Vercelli porta a Masserano per poi tornare, sempre in bicicletta e in abiti borghesi, dai compagni a Brusnengo. Deve riferire quanti e quali nemici vede passare, fascisti e nazisti e di quell’incarico tanto pericoloso ricorda: “mi sono dato una finta identità, quella di Renato Lucchini classe 1926, ma una sera, a Vercelli, tradito dalla delazione di una cameriera, mi hanno catturato in tre e picchiato così forte con il calcio del fucile che mi hanno spostato le vertebre così tanto che poi ho portato il busto per sette anni, ma non ho parlato. Poi mi hanno mandato a Torino, caricato con altri 35 nei carri merci verso la Germania ma, arrivati a Milano, un bombardamento fa scappare i tedeschi, sentiamo che ci hanno aperto il lucchetto e noi ci siamo buttati giù dal treno a Cremona, sul ponte del Po. Siamo salvi”.

Tornato a casa, ancora una volta a piedi, torna subito dai compagni in montagna che gli fanno mille feste. Sembra quasi la trama di un film di avventura in cui l’eroe scampa a mille pericoli: ma è vita vera, vissuta, anche se ha dell’incredibile.

Dopo la Liberazione anche per lui gli anni non sono facili, in un Paese che vuole dimenticare e non imparare dagli errori e che non ha fatto del tutto i conti con il proprio passato: “Eravamo tutti additati come ‘ribelli’ e anche se eravamo partigiani ed avevamo liberato l’Italia da parte di chi comandava tutto ciò non contava. Era difficile trovare lavoro. Sono stati anni difficili ma noi la Resistenza l’abbiamo fatta con sincerità, con passione”.
La sua lunga vita nella nuova Italia repubblicana, che ha contribuito a costruire, l’ha quindi dedicata al lavoro e all’amata famiglia: alla moglie Dina, al figlio Silvio, tragicamente scomparso nel 2019, alla nuora Donata e ai nipoti Alberto e Filippo, costantemente accanto a lui.

Sempre impegnato nell’Anpi Vercelli, in prima fila a ogni commemorazione ufficiale del 25 aprile, sia in piazza Camana che negli amati Cappuccini, si tiene informato, legge e chiacchiera con i tanti amici con i quali condivide le passioni politiche e l’impegno civile e sociale. Conosce quindi la situazione politica e sociale nella quale viviamo e tristemente, ma realisticamente, commenta: “L’Italia sta diventando peggio di prima. La mia paura è veder ritornare quelle facce nere”.
Pubblicato martedì 1 Luglio 2025
Stampato il 01/07/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/i-100-anni-di-renato-giara-il-partigiano-sorcio/