
Fridays for the Future, Extinction Rebellion, Marcia contro le grandi opere imposte ed inutili e per la giustizia climatica. Tre mobilitazioni che si sono susseguite nelle ultime settimane non solo in Italia, non solo a Roma. Dopo lo sciopero globale per il clima del 13 marzo, all’indomani della grande marcia dei movimenti contro le grandi opere a Roma, a Bruxelles Extinction Rebellion è scesa in piazza per chiedere all’Unione Europea di prendere impegni concreti contro il climate change. Prossimi appuntamenti il 15 aprile per il lancio della “ribellione globale” mentre Fridays for the Future scenderà di nuovo in piazza il 24 maggio. Centinaia di migliaia di persone, uomini e donne, giovani e meno giovani, accomunati da un’unica parola d’ordine: cambiamo il sistema, non il clima. Portano la questione climatica al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e dei decisori politici non con un semplice slogan, né con una affermazione di principio, bensì con l’indicazione chiara di quale debba essere oggi la direzione da prendere, e presto, per affrontare efficacemente la questione del climate change, ed assicurare nientedimeno che la sopravvivenza del genere umano.

Cambiare il sistema significa riconoscere che la situazione estrema nella quale si trova l’umanità non è conseguenza di un ciclo naturale, nel quale la mano dell’uomo, come ha contribuito a creare il problema, può risolverlo ricorrendo alla tecnologia senza scalfire il modello di sviluppo. Significa riconoscere che la causa principale risiede nel modello estrattivista, nella dipendenza da combustibili fossili, nella convinzione che le risorse naturali siano infinite, o sostituibili. Che siano mercanzia da immettere sui mercati, o trasformabili financo in prodotti speculativi per i mercati finanziari. Significa aprire lo spazio all’alternativa possibile che dev’essere alternativa al capitalismo, soprattutto in questa fase, appunto definita estrattivista. E connettere la questione climatica ad altre questioni relative al diritto ad una vita degna, sana, al diritto al godimento dei diritti fondamentali, e così trasformare l’emergenza climatica in grande occasione di ridefinizione dei rapporti tra umani e Madre Terra e di conversione radicale dei processi produttivi, e degli spazi pubblici e privati.
I dati parlano chiaro: se non si pratica un cambiamento di marcia radicale sarà impossibile contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi centigradi. Altri dati indicano la direzione. Secondo un rapporto recente di UN Environment, l’agenzia ONU per l’ambiente, l’estrazione di risorse è responsabile di metà delle emissioni di anidride carbonica a livello globale e per l’80 percento della perdita di biodiversità. Si calcola che dal 1970 il volume di estrazione di risorse naturali sia triplicato, ed il mondo consumi oggi oltre 92 miliardi di tonnellate di materiali. Dal 1970 l’estrazione di combustibili fossili è passata da 6 a 15 miliardi di tonnellate. Tutte le attività estrattive rappresentano il 53% delle emissioni di anidride carbonica senza contare quelle che vengono prodotte dalla combustione di fossili. Unica possibilità di contrasto all’estrattivismo appare pertanto essere quella di impedire l’estrazione di giacimenti ancora inesplorati e chiudere progressivamente le infrastrutture esistenti da subito. E di praticare da subito l’economia circolare, capace di autorigenerarsi e di ridurre al massimo uso di risorse e smaltimento di rifiuti. Con la prima opzione esisterebbe, secondo un recente studio della rivista Nature, il 64% di possibilità di contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi. Ciononostante né a Parigi né nelle seguenti conferenze ONU sul Clima, l’ultima delle quali si è tenuta nel cuore della produzione di carbone a Katowice in Polonia, i governi sono riusciti a mettersi d’accordo nel impegnarsi per l’unica soluzione possibile. Vale a dire una terapia shock che preveda la fine delle attività di prospezione ed esplorazione ed un progressivo ma rapido restringimento del volume di combustibili fossili estratti nel mondo. Dovremmo insomma decidere di lasciare sottoterra l’80 percento delle riserve conosciute. Tuttavia a fronte di circa 800 miliardi di dollari spesi ogni anno dalle imprese petrolifere per andare a cercare altro petrolio o gas poco più di 100 miliardi vengono stanziati ogni anno per sostenere i Paesi in via di sviluppo nella loro transizione ecologica.
Si calcola che nel solo 2018 il valore dei fondi di investimento che hanno deciso di uscire dal fossile sia pari a 6 trilioni di dollari, con circa 1000 investitori che si sono impegnati in tal senso. Ultimo in ordine di tempo il fondo sovrano della Norvegia con un valore di circa un trilione di dollari. Si sta aprendo quindi una crepa nel sistema, nella quale inserirsi con proposte quali il Green New Deal, un grande piano di investimenti pubblici per la giusta transizione, la decarbonizzazione e l’economia circolare, e la creazione di posti di lavoro green. Per far ciò è necessario rafforzare alleanze, convergenze, sinergie tra chi resiste sui territori, chi si oppone alle grandi infrastrutture ed all’estrazione di risorse naturali ormai scarse, chi disinveste dal fossile, o si impegna a sganciarsi progressivamente dalla dipendenza da petrolio, carbone e gas, chi pratica innovazione, chi offre soluzioni. In occasione di Parigi, quella che approvò il pacchetto di impegni necessari per affrontare questa grande sfida globale, accanto ai lavori ufficiali, quelli dei governi, si svolse una miriade di attività, iniziative, azioni, per le strade e le piazze della città.
Francesco Martone, ambientalista, già Senatore della Repubblica
Pubblicato giovedì 28 Marzo 2019
Stampato il 28/09/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/greta-e-un-mondo-da-cambiare/