Contano sulla paura alimentata per decenni i militari golpisti in Myanmar, la millenaria Birmania, ma forse stanno sbagliando i calcoli. Il Tatmadaw, l’esercito del generale Min Aung Hlaing che 5 mesi fa ha spodestato il legittimo governo eletto con l’83% dei consensi, arrestato la consigliera di Stato e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e parlamentari ed esponenti del suo partito, continua a seminare atrocità. Per schiacciare nel sangue ogni opposizione. Nei primi giorni dopo il colpo di Stato militare del 1° febbraio in migliaia erano scesi nelle strade, giovani e donne soprattutto, protestando pacificamente. La reazione è stata spietata, alla marea di persone che chiedeva solo di vivere in una democrazia scoperta appena una manciata di anni fa e subito amata, l’esercito ha risposto imprigionando, sparando e uccidendo. Una storia già vista in quel luogo del pianeta? Niente affatto perché sta accadendo qualcosa di inedito. Albertina Soliani, presidente dell’Istituto Cervi, vicepresidente dell’Anpi nazionale, già presidente dell’Associazione parlamentare amici della Birmania, è tra quanti più conoscono il Paese e la sua gente e, pur con le difficoltà prevedibili, riesce ad avere notizie dirette.
Le immagini diffuse dai social all’indomani del colpo di stato militare mostravano le proteste di migliaia di ragazze e ragazzi simili a qualsiasi coetaneo del cosiddetto occidente. È il ritratto del popolo del Myanmar?
Sono giovani cresciuti con la democrazia affermata da Aung San Suu Kyi, appartengono alla Generazione Z. Hanno scoperto quanto è bella la libertà da appena cinque anni e non vogliono più rinunciarvi. In quei giorni le ragazze scendevano in piazza vestite da sposa proprio per testimoniare fiducia nella democrazia e nei diritti umani. La Birmania è un Paese molto povero nonostante sia ricco di miniere, ma giacimenti e proventi sono tutti in mano al Tatmadaw. Di straordinario però ha un popolo che oggi vuole essere connesso col mondo. E ha una donna che con il suo esempio di vita ha tenuto accesa la luce sul Paese e sa parlare ai giovani: Aung San Suu Kyi ha cercato di aprire la via della democrazia senza violenza, dovendo quindi accettare compromessi con i militari, al potere per ben 6 decenni, non dimentichiamo. I giovani del Myanmar sono oggi molto abili con le tecnologie e, nonostante i militari cerchino di oscurare internet, attraverso gli smartphone documentano le atrocità commesse dal regime, ci fanno arrivare le immagini e i suoni degli spari praticamente in tempo reale.
La repressione della giunta non si ferma.
Qualunque oppositore è in pericolo, sa di poter finire in carcere, hub byma le manifestazioni continuano. Il 19 giugno scorso, per esempio, 76° compleanno di Aung San Suu Kyi e Giornata mondiale dedicata dall’Onu all’eliminazione della violenza sessuale nei conflitti, in migliaia, donne e uomini, sono scesi in piazza con un fiore tra i capelli, l’acconciatura prediletta della paladina della democrazia in Myanmar. E le donne hanno indossato un rossetto rosso. Utilizzando i social network si sta organizzando una Resistenza che molto ricorda negli aspetti politici e strategici quella italiana durante l’occupazione nazifascista.
Una lotta di Liberazione?
La situazione in Myanmar sta evolvendo molto rapidamente. Lo scorso aprile si è formato un governo clandestino di unità nazionale: nel giro di pochi giorni, attorno al Nld, il partito di Aung San Suu Kyi, e ai parlamentari eletti si è realizzato un forte accordo politico con i partiti degli Stati etnici, finora divisi e su posizioni distanti, e persino con i gruppi etnici armati, così è nato il National Unity Government. Passo successivo è stato l’organizzazione della People’s Defence Force, un esercito popolare di volontari che potrebbe essere alla base di un futuro, nuovo esercito nazionale democratico. Intanto, per difendere le persone dalla repressione militare, potendo contare su equipaggiamenti molto artigianali, le formazioni della People’s Defence hanno scelto di adottare una strategia di guerriglia. Conducono azioni e missioni contro postazioni del Tatmadaw e provano a impedire ai soldati di fare incursione nelle case e arrestare, malmenare, assassinare gli oppositori. C’è di più. Nelle regioni di confine dove vivono i gruppi etnici, avvalendosi di questo esercito popolare in nuce si sta pensando di creare zone liberate dove il Nug potrebbe esercitare le sue funzioni e applicare l’ordinamento di uno Stato moderno e democratico. La salute pubblica è una priorità. Il covid sta dilagando e tra le urgenze c’è ovviamente il reperimento dei vaccini. Per questo si sta cercando di aprire canali per far arrivare gli aiuti umanitari e i farmaci di protezione attraverso l’India e la Thailandia, sfidando molti pericoli perché lì vige un regime militare amico della giunta birmana.
Del nuovo governo fa parte anche la minoranza Royngia?
Ancora no, ma sono in trattativa. Stanno immaginando una futura convivenza civile. Stanno dialogando. Durante le prime manifestazioni alcuni cartelli chiedevano scusa perché erano stati “vittime anche dell’indifferenza”. In piazza le proteste contro il golpe si sono trovate puntate addosso le armi dallo stesso battaglione del Tatmadaw che nel Rakhine aveva aggredito i Rohingya. C’è nel popolo, dal punto di vista politico, un clima da “Costituente”. Il governo ombra, l’esercito dei cittadini, le zone libere dove praticare la democrazia: tutto ciò ricorda il Cnl e le Repubbliche partigiane della Resistenza italiana. È la ribellione di un intero popolo a ottenere questi risultati. E quel popolo e la sua “Madre”, come è chiamata affettuosamente Aung San Suu Kyi, devono essere sostenuti. Il regime militare è spietato.
L’Istituto Cervi è riuscito a stabilire un rapporto diretto con il governo clandestino in Myanmar?
Attraverso la rete, i parlamentari eletti costretti a nascondersi per evitare l’arresto e i rappresentanti del Nug hanno subito avviato contatti con governi e parlamenti di varie nazioni. Il Cervi da sempre cerca di essere in ogni luogo del mondo dove l’umanità combatte per i diritti e la democrazia. Ha organizzato a maggio una videoconferenza con un gruppo di parlamentari birmani e italiani di vari gruppi politici che hanno avuto esperienze con il Myanmar. Tra loro Laura Boldrini, presidente della Commissione parlamentare dei diritti umani; Pier Ferdinando Casini, nel 2016 capodelegazione durante la prima visita del Parlamento italiano in Myanmar; Piero Fassino, presidente della Commissione Esteri. Per il 12 luglio prossimo ne stiamo organizzando un’altra in collaborazione con il Parlamento Europeo, in particolare, si stanno impegnando Giuliano Pisapia e la Commissione Ue dei diritti umani. Inoltre siamo in contatto con il sottosegretario Benedetto Della Vedova, competente per i diritti umani del governo Draghi e stiamo organizzando un meeting analogo a luglio. Rapporti informali del governo clandestino sono già stati attivati con dirigenti del ministero degli Esteri, singoli parlamentari, e anche con la Segreteria di Stato del Vaticano.
Queste iniziative, intendo quelle di maggio e del 12 luglio con la Ue, hanno l’obiettivo far riconoscere la legittimità del National Unity Government? Mettiamola così: la società civile può riuscire dove gli organismi internazionali si mostrano deboli?
Il capo dei golpisti, Min Aung Hlaing, sempre coperto di medaglie, è andato ad acquistare armi in Russia ma è stato ricevuto con un basso profilo, come numero uno dell’esercito, non come capo di Stato. Anche Mosca resta prudente. L’Assemblea generale Onu lo scorso 18 giugno ha votato l’embargo delle armi alla giunta (119 a favore, 36 astenuti tra cui Cina e Russia e il voto contrario della Bielorussia). Ma dovrebbe intervenire il Consiglio di sicurezza per avere risultati concreti e i cittadini non possono rassegnarsi all’impotenza di fronte a dittature a persone cui viene impedito con la forza di vivere in democrazia. Pensiamo solo a Patrick Zaki in Egitto a cui ogni 45 giorni viene prorogato l’arresto e rinviato il processo. Possibile siano gli amici, i compagni di studi, i cittadini a intervenire? Purtroppo sì, perché diciamo le cose come sono: le organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Onu, sono figlie del 900 e oggi non riescono più a dare risposte adeguate, non sanno affrontare i problemi della contemporaneità, interpretare la spinta di una società che pretende democrazia e l’applicazione del diritto internazionale in un mondo globalizzato.
Aung San Suu Kyi è ora a processo, cosa si sa?
Il processo è cominciato a metà giugno e potrebbe concludersi alla fine di luglio. Le udienze si tengono ogni lunedì e martedì, la prossima dunque sarà il 5 luglio. Abbiamo capito che rischia moltissimo, addirittura una condanna a 25 anni di carcere, che equivarrebbe ad annientarla: Aung San Suu Kyi deve rispondere di imputazioni assurde, dalla detenzione illegale di walkie talkie alla sedizione, dall’infrazione delle procedure anti covid, alla violazione di segreti di Stato. Con l’Associazione amici della Birmania e l’International Bar Association’s Human Rights Institute siamo riusciti a organizzare un team di avvocati, senza alcun compenso, per monitorare sia il procedimento a Aung San Suu Kyi, sia al presidente della repubblica Win Myint e a tutti gli esponenti politici arrestati, per poi informare dell’andamento la comunità internazionale, l’Onu, l’Ue. Non è pensabile che le dittature usino il diritto, i processi, per i loro obiettivi politici. Significherebbe rendere carta straccia le norme internazionali. L’Ibahri non potrà essere presente in aula ma almeno potrà prendere visione delle carte processuali e verificare se è rispettato lo stato di diritto.
Conosce la situazione del Paese?
Aung San Suu Kyi è stata completamente isolata per quattro mesi, non ha potuto vedere nessuno, tantomeno i suoi avvocati, lasciata senza notizie su quanto stava accadendo nel Paese. Solo ultime settimane le è stato concesso di consultarsi con i legali mezz’ora prima delle udienze, temevano potesse lanciare messaggi al suo popolo. E infatti ha colto immediatamente l’occasione per dire agli avvocati che il suo partito, il Ndl, a rischio scioglimento forzato, “è per il popolo e vivrà fino a quando c’è il popolo”. In altre parole, ha invitato la gente a continuare a lottare e gli avvocati hanno riferito ai media. I difensori rischiano grosso però: la Corte li ha ammoniti di non avere rapporti con la stampa. In questo momento, in Myanmar c’è una vera e propria offensiva contro i legali degli oppositori e dei manifestanti arrestati: ricevono minacce, subiscono soprusi e abusi, finiscono anche loro in carcere, subiscono torture. Quanto sta succedendo in Birmania fa capire che possiamo tutti tornare indietro nella conquista della libertà e della democrazia.
Altri elementi in Myanmar ricordano la Resistenza combattuta in Italia?
Assolutamente sì. Come i Cervi salirono sull’appennino reggiano per mettere in piedi i primi gruppi armati, in Myanmar gli oppositori alla giunta militare scappano e si addestrano nella foresta. È un quadro molto complicato. La fame è grande in quei territori e il Tatmadaw distrugge qualsiasi aiuto alimentare, mentre crescono sempre di più i rifugiati e gli sfollati, premendo sui confini. Ma c’è tanta solidarietà nel popolo birmano. Sappiamo di giovani donne medico che preparano pacchi di riso e li trasportano in autobus nelle regioni dove le popolazioni etniche affrontano in combattimento l’esercito. Correndo lo stesso rischio delle nostre staffette. Ora il nuovo governo con il suo esercito ha la possibilità di scuotere le coscienze, riappropriarsi del Paese, e quando accade, così è sempre stato dappertutto e in ogni tempo, i militari se la danno a gambe. La chiave di ogni cambiamento è il popolo unito. In Myanmar difende la democrazia paralizzando il Paese, una reazione totale davanti agli occhi del mondo. È la grandissima lezione offerta da quelle ragazze e da quei ragazzi dal dolcissimo sorriso e dal coraggio eccezionale. Dovremmo farne tesoro e soprattutto sostenerli nella loro battaglia per la democrazia, premere sulla comunità internazionale. E se gli organismi mondiali deputati si distraggono o sono paralizzati, la società civile deve rendersi protagonista, far sentire alta la sua voce. La società civile può fare molto, è la grande novità di questa stagione della storia umana, nella consapevolezza che in un pianeta globale nessuno può illudersi di salvarsi da solo. Per questo, inevitabilmente, la sconfitta o la vittoria del popolo del Myanmar e di Aung San Suu Kyi sarà anche la nostra.
Pubblicato venerdì 2 Luglio 2021
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/myanmar-nascita-di-una-resistenza/