Stiamo assistendo a un’escalation stupefacente. Il Presidente della Camera dei Deputati, impugnando il vessillo della lotta ai privilegi e ai costi della politica, taglia drasticamente i vitalizi parlamentari con un atto che, al di là del suo discutibile profilo di costituzionalità, tradisce un intento punitivo ma soprattutto ‒ ciò che più conta ‒ colpisce la dignità e l’autonomia della funzione parlamentare (in questa direzione va peraltro la richiesta di introdurre il vincolo di mandato). Beppe Grillo avanza l’idea di istituire un «Senato dei cittadini» composto da persone scelte a caso, come prima tappa della definitiva sostituzione delle elezioni con il sorteggio; con questo sistema, a suo parere, si otterrebbe un Parlamento realmente rappresentativo della società e si metterebbe fine alla politica «come l’abbiamo sempre pensata». Davide Casaleggio prevede (auspica) l’avvento, nel giro di qualche lustro, della democrazia diretta, resa possibile dall’inarrestabile progresso della tecnologia della Rete: fornendo una versione aggiornata ed estrema della «democrazia digitale» preconizzata dal padre Gianroberto. Gli fa eco il garante del Movimento Cinque Stelle, sentenziando che «la democrazia è superata».
A fronte di questo attacco concentrico al Parlamento, gli opinionisti hanno reagito in modi diversi. L’iniziativa dell’on. Fico, tranne rare eccezioni, è stata accolta con benevola neutralità oppure con scoperto favore. La proposta di affidare alla sorte la scelta dei parlamentari è stata considerata poco più di una boutade, l’ennesima delle tante stravaganti provocazioni cui da tempo ci ha abituato il comico genovese. Lo scenario tracciato da Casaleggio ha invece suscitato un vivace dibattito. Qualcuno vi ha scorto la filigrana di un progetto eversivo; qualcun altro ha evocato lo spettro del Grande Fratello di orwelliana memoria; ma vi è stato anche chi ha recepito (almeno in parte) e addirittura rilanciato le tesi del presidente della piattaforma Rousseau.
Sul «manifesto», Guido Liguori ha osservato che il sistema istituzionale disegnato nella nostra Costituzione presuppone la centralità dei partiti di massa, al momento attuale precipitati in uno stato agonico che molti segni lasciano presagire come irreversibile; che la democrazia parlamentare non è eterna, al pari di ogni altro regime politico, e che non va ritenuta incompatibile con la creazione e la diffusione di istituti di democrazia consiliare (sulla scorta di quelli immaginati da Gramsci e, decenni più tardi, da Pietro Ingrao), i quali al contrario le trasmetterebbero nuova linfa, consentendole di guadagnare in efficienza, autorevolezza, rappresentatività.
Le argomentazioni di Liguori sono molto intriganti, ma si prestano a più di una obiezione. In primo luogo, la gramsciana “democrazia dei consigli” si giustificava all’interno di una prospettiva soviettista, che non soltanto è stata sconfitta dalla storia, ma ha avuto vita breve nella stessa patria del socialismo reale. In secondo luogo, riesce arduo identificare gruppi omogenei di elettori all’interno dell’attuale “società liquida”. In terzo luogo, la storia d’Italia autorizza a temere che, quand’anche fosse possibile riconoscere (e organizzare) gruppi sociali omogenei, essi esprimerebbero una volontà pesantemente ipotecata da logiche corporative. E si potrebbe continuare: ma il nodo è un altro. Ho l’impressione che la diversità di posizioni emersa nel confronto a distanza sulle teorizzazioni di Casaleggio sottintenda opposte valutazioni sulla natura e sui reali obiettivi dei Cinque Stelle: giudicati da alcuni un movimento populista, intrinsecamente illiberale e antidemocratico (in effetti, alcuni tratti di affinità con il sansepolcrismo sembrano innegabili), dunque da combattere con intransigenza, da altri invece, se non proprio una “costola” (termine infausto), quanto meno un interlocutore imprescindibile della sinistra, con cui condividerebbe numerose istanze. Il tema è talmente complesso da non poter essere affrontato in questa sede; mi siano però consentite poche annotazioni.
Penso che l’antiparlamentarismo e il livore antipolitico dei Cinque Stelle trovino il comune denominatore in un odio viscerale verso le élites: una vasta categoria che comprende imprenditori, manager, politici, intellettuali in genere (ne restano fuori, chissà perché, i divi dello spettacolo e dello sport, che pure godono di grande visibilità e di cospicui redditi), accusati ‒ di volta in volta ‒ di essere approfittatori, parassiti, privilegiati, servi, bugiardi (ne fanno fede i quotidiani attacchi contro i giornalisti). Grillo e i suoi raccontano che il sapere e la scienza mistificano la realtà; bollano le competenze come un espediente truffaldino, un alibi cui le caste ricorrono per preservare il proprio dominio; alla retorica (fastidiosa e spesso ipocrita) della meritocrazia sostituiscono l’esaltazione della mediocritocrazia (mi si perdoni l’orribile neologismo), grottesca riesumazione della mitologia dei levellers. Mi pare superfluo rimarcare che il negazionismo gnoseologico dei pentastellati (che omologa le conoscenze alle credenze) santifica il pregiudizio, che il loro indifferentismo (l’assunto per cui tutte le opinioni si equivalgono, hanno pari dignità culturale) fa a pugni con il buon senso; è impensabile che qualcuno (a cominciare dai dirigenti e dagli elettori dei Cinque Stelle) affidi la sua salute alle cure di un professore di italiano, o che si faccia difendere da un ingegnere nelle aule di un tribunale (anche se vi è chi presume di saperne più degli scienziati a proposito di vaccini, o di Xylella). L’opposizione di élite e popolo non presenta alcun connotato classista; istiga all’invidia sociale, alimenta la rabbia e non l’indignazione, si appella a un particolarismo paranoico; può soltanto mortificare risorse ed energie immateriali, innescare un conflitto sterile e persino distruttivo; nella migliore delle ipotesi, si traduce in una politica redistributiva e assistenzialistica, all’insegna di una “decrescita infelice”.
Altrettanto gravi sono i guasti che la filosofia pentastellata può causare nel sistema politico e istituzionale. A ragione si rimprovera alla democrazia diretta vagheggiata da Casaleggio di propalare la funesta illusione secondo cui tutti sono in grado di deliberare su tutto con cognizione di causa, le si contesta di inibire il dialogo, di confinare il cittadino nella sua solitudine, di esaurire la partecipazione alla vita pubblica entro la camicia di forza di procedure di stampo referendario (o, se si preferisce, plebiscitario), legittimando di fatto una nuova oligarchia, quella dei controllori delle piattaforme digitali. Se diamo credito alla celebre formula di Gramsci, secondo cui il dirigente è la sintesi dello specialista e del politico, dobbiamo dedurne che il “paradigma Rousseau” non colma e anzi approfondisce la distanza fra governanti e governati. Casaleggio, Grillo e soci offrono una versione caricaturale e rovesciata dell’utopia leniniana del “socialismo della cuoca”; essa prefigurava la ‒ era metafora della ‒ estinzione dello Stato, laddove i Cinque Stelle incarnano il più bieco dirigismo statalistico, come dimostra esemplarmente lo svuotamento delle prerogative delle assemblee legislative a tutto vantaggio dell’esecutivo. Infatti il Parlamento è inoperoso (l’unico provvedimento di una qualche rilevanza finora preso in esame è il “decreto dignità”), mentre il governo lavora alacremente: non però per risolvere questioni di interesse nazionale (rapporti con la UE, TAV, TAP, Ilva, per citare soltanto alcuni casi), ma per spartirsi il potere collocando alla guida delle aziende pubbliche persone selezionate secondo il criterio della fedeltà.
La lottizzazione è un film già visto, si dirà. Può darsi allora che ogni preoccupazione sia eccessiva, che i Cinque Stelle siano esattamente come gli altri, che l’ideale di democrazia diretta da loro professato rappresenti niente più che un capitolo della interminabile campagna elettorale da essi (al pari della Lega) condotta, e che ha ormai surclassato il modello berlusconiano. Ma se facessero sul serio, il combinato disposto del sovranismo e della xenofobia di Salvini con la postdemocrazia di Grillo e Casaleggio giustificherebbe ampiamente l’allarme dei democratici e degli antifascisti.
Ferdinando Pappalardo, già docente presso l’Università degli Studi di Bari, già parlamentare, presidente dell’Anpi provinciale di Bari, membro del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato mercoledì 1 Agosto 2018
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