
La posizione di Lega e Movimento Cinque Stelle sulla scuola ha subito notevoli oscillazioni. Durante la campagna elettorale, Salvini e Di Maio hanno tuonato all’unisono contro la legge 107/15 (quella, per intendersi, della “Buona Scuola”), promettendone l’abrogazione. Ma il capo politico pentastellato si è spinto oltre: dopo aver aggiunto la sua voce alla ipocrita salmodia ‒ recitata da tutti i partiti indistintamente nell’ultimo ventennio ‒ sul ruolo decisivo dell’istruzione per i destini del Paese, ha assicurato che, qualora fosse andato al governo, avrebbe aumentato le retribuzioni dei docenti fino ad allinearle alla media dei paesi UE. Di questi impegni non è rimasta traccia nelle dichiarazioni programmatiche rese alle Camere dal professor Conte, che anzi ha celebrato i meriti dell’attuale sistema formativo («Le nostre scuole e università sono in grado di formare eccellenze assolute in tutti i settori»), lasciando quasi intendere che non vi è nulla da cambiare. Forse la retromarcia è apparente, e si deve attribuire alla “fumosità” (secondo molti opinionisti) del discorso del Presidente del Consiglio; ma poiché egli ama rappresentarsi come il ligio esecutore dell’accordo stipulato fra le due forze di maggioranza, per chiarirsi le idee converrà fare riferimento alle linee di politica scolastica enunciate nel “contratto”. (Per inciso: l’università è ignorata, se si eccettua un accenno di Conte alla necessità di arrestare la “fuga dei cervelli”.)
Il paragrafo a essa dedicato si apre con una dichiarazione tanto solenne quanto impegnativa: «La scuola italiana ha vissuto in questi anni momenti di grave difficoltà. Dopo le politiche dei tagli lineari e del risparmio, l’istruzione deve tornare al centro del nostro sistema Paese». Per la verità, da noi la crisi delle istituzioni formative dura da un tempo molto più lungo; ma il riferimento temporale contenuto nel “contratto” serve a far capire che il termine di confronto polemico è costituito dalla “Buona Scuola”, le cui misure sono giudicate «insufficienti e spesso inadeguate», e che occorre perciò superare «con urgenza». Le priorità del «necessario cambio di rotta» sono individuate nella eliminazione delle “classi pollaio” (cioè con un numero eccessivo di studenti), nel potenziamento dell’edilizia scolastica, nella revisione dei criteri di composizione delle graduatorie, nella rideterminazione dei titoli richiesti per l’insegnamento, nella soluzione del «problema del precariato nella scuola dell’infanzia e nella primaria», nella modifica del sistema di reclutamento dei docenti, in una diversa disciplina dei trasferimenti (finalizzata a favorire la continuità didattica).
C’è da essere soddisfatti, dunque? Non proprio; il pacchetto di interventi per la scuola annunciato nel “contratto” appare parziale, addirittura minimalista, figlio di una cultura piattamente pragmatica, e per giunta influenzato dagli slogan propagandistici della campagna elettorale (davvero si crede che sia sufficiente la cancellazione, o una radicale riscrittura, della “Buona Scuola” per guarire il sistema formativo dai suoi numerosi, antichi mali?): tanto da confermare le malevole previsioni di coloro che assegnano una vita breve all’esecutivo giallo-verde. I provvedimenti di politica scolastica che il nuovo governo si propone di attuare sono visibilmente tarati sulla ‒ se non proprio circoscritti alla ‒ scuola dell’obbligo; ma chiunque abbia un minimo d’esperienza del settore, sa bene che i problemi più spinosi riguardano l’istruzione secondaria di secondo grado. Per affrontarli efficacemente, e per marcare una reale discontinuità con il passato, occorre rispondere preliminarmente a un interrogativo: il modello aziendalistico di organizzazione del sistema formativo e la concezione utilitaristica del sapere (quella, per intendersi, riassunta nel celebre motto tremontiano “con la cultura non si mangia”), cui si è ispirata ‒ seppure con accentuazioni differenti ‒ la legislazione scolastica dell’ultimo quindicennio, e che derivano entrambi dall’imperante mantra economicistico, sono realmente in grado di assecondare la crescita di una fra le prime potenze industriali del pianeta, e contribuiscono a creare le condizioni per un pieno esercizio della cittadinanza?
Il programma dell’esecutivo giallo-verde elude queste (e altre, che qui si omettono per esigenze di brevità) domande, e preferisce attenersi a un profilo basso, empirico: che tradisce forse prudenza, forse difficoltà di sintesi, forse limitatezza di idee (sospetto, quest’ultimo, suffragato dalla riduzione della cultura ‒ nel paragrafo del “contratto” a essa riservato ‒ ai beni culturali e allo «spettacolo dal vivo» [?]). Non siamo fra quelli che invocano riforme a ogni pie’ sospinto; al contrario, siamo convinti che la scuola sia un organismo delicato, e che abbia dunque bisogno di tempo per metabolizzare innovazioni e sperimentazioni. Ma una visione d’insieme è indispensabile. Da questo punto di vista, il “governo del cambiamento”, della cesura “rivoluzionaria”, non si presenta con le migliori credenziali.
Ferdinando Pappalardo, già docente presso l’Università degli Studi di Bari, già parlamentare, presidente dell’Anpi provinciale di Bari, membro del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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