Variamente connotata nelle sue molteplici declinazioni, l’estrema destra è divenuta – tra la fine del Ventesimo e l’inizio del Ventunesimo secolo – un elemento permanente del panorama politico e sociale europeo, come prova del resto la recente affermazione elettorale di Jimmie Akesson, leader dell’ultradestra svedese. Assemblando le correnti e le fonti di ispirazione che l’hanno animata sino agli anni Ottanta del Novecento (il tradizionalismo, il neofascismo, il nazionalismo plebiscitario e cesarista, ora riformulato come «sovranismo»), è riuscita ad ottenere, nel complesso, sempre più voti. Di questa progressiva crescita, che ha conosciuto pure delle battute d’arresto, hanno beneficiato anche quelle formazioni che, fino agli inizi del Duemila, conseguivano risultati elettorali men che modesti, ma che da allora si sono espanse in modo allarmante.

Dimostrazione contro Christoph Blocher a Losanna nel dicembre 2008 (wikipedia)

In Austria, dove il nazismo aveva messo salde radici alla vigilia della seconda guerra mondiale, alle elezioni politiche del 3 ottobre 1999 i socialisti, ininterrottamente al governo dal 1970, perdevano consensi, mentre ne guadagnavano i liberalnazionali del filonazista Jörg Haider, il raggruppamento xenofobo che con il 27,2% dei suffragi diventava il secondo partito. Era il preludio al varo di una coalizione governativa tra popolari (cattolici) e liberalnazionali. Qualche giorno più tardi, il 24 ottobre, nella vicina Svizzera alle consultazioni legislative si registrava il successo dell’Unione democratica di centro di Christoph Blocher, anch’essa di orientamento xenofobo.

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Evocando inquietanti scenari, diffondendo ansie e paure, la nuova destra populista – a cavallo dei due millenni – ha proposto un modello di gestione del territorio e delle relazioni sociali in grado di attrarre consistenti settori dell’elettorato. Grazie alle iniziative degli «imprenditori dell’intolleranza», che hanno saputo capitalizzare il declino dei partiti di massa novecenteschi, la questione della sicurezza si è imposta pressoché ovunque come una priorità. Di qui la fortuna di slogan fondati sulla parola d’ordine del primato nazionale, sul riconoscimento, in via esclusiva, di diritti e risorse alle popolazioni autoctone.

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Facendo leva sulla lotta tra ultimi e penultimi, sulla contrapposizione tra gli immigrati e le fasce sociali più deboli – dalla Francia al Belgio, all’Olanda, all’Italia, dalla Danimarca alla Svezia, dalla Polonia all’Ungheria – ‘nuovi’, aggressivi populismi d’impronta reazionaria sono stati capaci di imporre temi e tempi dell’agenda politica, spostandola sensibilmente a destra, condizionando l’azione di governo soprattutto in materia di politiche sui migranti, sui flussi migratori, sulla cosiddetta sicurezza. In più occasioni è parso evidente l’accoglimento di istanze della destra radicale da parte di quella moderata e conservatrice.

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In Italia, tra il 2008 e il 2009, il perseguimento dell’obiettivo di mettere sotto controllo l’immigrazione, irregolare e regolare, ha finito con il partorire una legalità securitaria, persecutoria, slittando sovente nell’incostituzionalità, come ha dimostrato l’inclusione nel «pacchetto sulla sicurezza», da parte della coalizione di centro-destra, del reato d’immigrazione clandestina, per cui si è puniti – un obbrobrio giuridico – non sulla base di un comportamento delittuoso, ma a causa della condizione in cui ci si trova.

Matteo Salvini e Marine Le Pen nel 2019 (Imagoeconomica)

C’è un aspetto su cui adesso va richiamata l’attenzione. Le performances elettorali in Ungheria di Fidesz e Jobbik, in Italia della Lega Nord (poi Lega per Salvini), in Francia del Front National (poi Rassemblement National) hanno avuto luogo nel contesto di una travagliata congiuntura economica, con il passaggio dal modello di capitalismo legato allo Stato sociale, anche nelle aree dove esso si era più saldamente impiantato, al capitalismo incentrato sui grandi gestori finanziari, cervello e cuore di un sistema dominato da prospettive a breve termine e perciò inevitabilmente instabile. Un capitalismo alla cui sommità si sono insediate élites finanziarie e tecnocratiche, responsabili, in larga misura, della vanificazione del ruolo dei Parlamenti, dello svuotamento della democrazia rappresentativa, il cui appannamento è segnalato dalla disaffezione verso la politica, dal generalizzarsi dell’astensionismo elettorale, dalle ricorrenti tentazioni plebiscitarie e dall’avanzata delle destre populistiche.

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Diffusasi sul finire del Ventesimo secolo, la tendenza a ridimensionare, se non a smantellare il Welfare State si è irrobustita agli albori del Ventunesimo. Ne è risultato l’approfondirsi, in maniera stridente, delle sperequazioni, processo che è stato individuato da più di un osservatore e studioso come uno dei principali motivi della crisi provocata dalle turbolenze innescate, tra il 2007 e il 2008, dal capitalismo finanziario globalizzato. Si è parlato a ragione di «esproprio proprietario», di offensiva dei ceti capitalistici, di «lotta di classe dopo la lotta di classe», ma questa volta sferrata dall’alto (Luciano Gallino).

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Implementando le delocalizzazioni, mettendo in competizione le condizioni di lavoro dei Paesi sviluppati e quelle dei Paesi emergenti, il capitalismo finanziario globalizzato ha saputo dividere e contrapporre i lavoratori sul terreno sia dei salari che dei prezzi delle merci più comuni. A seminare ulteriore disagio e malessere sociale ha contribuito la proliferazione degli impieghi atipici e flessibili: sono attualmente all’incirca 4 milioni i «precari» in Italia. Inoltre – ed è dato rilevante – la polarizzazione tra ricchezza e povertà si è accentuata dopo l’imperversare della pandemia da covid-19 e per le pesanti ripercussioni della guerra tra Russia e Ucraina, con il vertiginoso rincaro delle bollette del gas e dell’elettricità, nonché con l’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità.

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Nelle analisi e riflessioni elaborate sull’avanzata della galassia dell’estrema destra, populista e razzista, a lungo si è sottovalutata non tanto l’estensione continentale del fenomeno, quanto la sua durata. Tuttavia, è indubbio che la sua espansione risalga al crollo del «socialismo reale» nell’Europa orientale, tra il 1989 e il 1991, e alla metà degli anni Ottanta in quella occidentale, allorché si è assistito alla rottura del compromesso democratico del capitalismo industriale con il movimento operaio e socialista, che ha dischiuso le porte all’attacco contro i diritti sociali, in particolare quelli in materia di lavoro, istruzione e sanità, ottenuti – in seguito a intense lotte – soprattutto nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, la stagione aurea del Welfare State.

Jean-Marie Le Pen nel 2012 (wikipedia)

Proprio intorno alla metà di quel decennio la storia della destra radicale ha conosciuto una svolta con il brusco emergere, in Francia, del Front National, affermatosi alle elezioni europee del 1984 con l’11% dei suffragi (2.210.334 voti). Era il primo, clamoroso sfondamento elettorale del partito dell’estrema destra transalpina, fondato nel 1972 da Jean Marie Le Pen, il padre dell’attuale leader del Rassemblement National, Marine Le Pen. Grazie allo slogan «les français d’abord» («in primo luogo i francesi»), esso penetrava prepotentemente nelle banlieue, nelle periferie rosse sino a divenire, nelle consultazioni per il Parlamento europeo del 2014, il maggior destinatario del voto operaio, radicandosi in uno spazio sociale originariamente non suo, che anzi in passato era stato ampiamente precluso all’estrema destra.

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Un fenomeno, per certi versi, analogo si è avuto in Italia, quando nel 2008 gli operai al Nord, molti dei quali con in tasca la tessera della Cgil, hanno votato massicciamente per la Lega. E, stando ai sondaggi, che sono sempre da prendere con le pinze, pare che il maggior numero di consensi tra i lavoratori andrà nell’imminente appuntamento elettorale del 25 settembre 2022 al partito Fratelli d’Italia capeggiato da Giorgia Meloni. Con la strategia della dediabolisation, tesa a mettere la sordina agli aspetti più marcatamente neofascisti, con la rinuncia alle parole d’ordine sociali e antieuropeiste, Rassemblement National di Marine Le Pen, che nel 2022 è giunta per la seconda volta al ballottaggio per le elezioni presidenziali, si è potuta fregiare di aver aggiornato l’estremismo nazionalista; di aver riverniciato l’armamentario ideologico della destra radicale, riabilitando, in forma soft, subdola, razzismo, darwinismo sociale e spirito gerarchico; infine di essere in grado di sostituire l’egemonia culturale della «sinistra ultraliberale» con quella di un pensiero di destra apparentemente rinnovato, ma nella sostanza inconfondibilmente radicale.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale (Imagoeconomica)

Di fatto non molto dissimile da quello della sua omologa francese è il percorso che sta compiendo Giorgia Meloni nella sua marcia di avvicinamento alle stanze del potere. Così si spiegano la sua professione di fedeltà atlantica, gli sforzi di fornire un’immagine rassicurante all’opinione pubblica occidentale e ai mercati internazionali, la bocciatura dello scostamento di bilancio sul terreno finanziario, la sintonia con gli ambienti confindustriali sul nodo spinoso del reddito di cittadinanza, le divergenze con le fughe in avanti dello scalpitante leader del Carroccio, Matteo Salvini. Certo, permangono la distanza siderale dal riconoscimento dei diritti civili, nonché la minimizzazione dei rigurgiti, dei sussulti d’orgoglio neofascista periodicamente affioranti tra militanti e quadri del suo partito. Certo, si prepara probabilmente a capitalizzare l’accorta gestione di due anni d’opposizione al governo d’unità nazionale guidato da Mario Draghi e voluto dal presidente Sergio Mattarella.

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A ben guardare, però, Giorgia Meloni per la sua campagna elettorale (agosto-settembre 2022) ha attinto con efficacia dal consunto, ma collaudato repertorio dell’estrema destra: la critica della «casta», dell’establishment politico, additato come capro espiatorio; la difesa dell’identità nazionale e dei valori tradizionali («Dio, patria, famiglia»), urlata con veemenza in Spagna, nel giugno 2022, al comizio di Vox, il partito neofranchista; l’euroscetticismo, se non la contrapposizione all’Ue, riemersa quando si è trattato di sostenere Orbàn, il suo partner ungherese, amico di Putin, dai colpi della Commissione europea; il disprezzo per le élite cosmopolite, con gli strali acuminati lanciati contro il magnate George Soros; la xenofobia declinata come precedenza dei ‘nazionali’ sugli stranieri. Per comprendere le ragioni dell’ascesa di un partito come FdI, che nel 2018 aveva rastrellato soltanto il 4% dei suffragi, e della probabile vittoria della destra, non basta invocare la farraginosa legge elettorale con cui si va a votare, e neppure il devastante impatto sul tessuto sociale della crisi energetica ed economica suscitata dal perdurare dello stato di guerra tra Russia e Ucraina.

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Occorre, invece, tener presente che negli ultimi decenni ha attecchito, presso larghi strati dell’opinione pubblica, un senso comune fondato sull’anti-antifascismo, sulla rilettura distorta e fuorviante della storia dell’Italia contemporanea, approntata dal cosiddetto revisionismo storiografico e veicolata da gran parte dei mass-media. Una rilettura basata sulla banalizzazione e rivalutazione del Ventennio, sulla denuncia dei ‘misfatti’ e delle ‘contraddizioni’ della Resistenza, per screditarla come cornice ideale e principio di legittimazione della Carta costituzionale del ’48, principale bersaglio dell’offensiva politico-culturale condotta dalla destra nelle sue diverse espressioni. È palese, ormai, nel contesto di uno scenario geopolitico globale in fibrillazione, il sovrapporsi e l’intrecciarsi di tre fenomeni: la recessione economica, lo sfilacciamento della coesione sociale e la curvatura autoritaria degli istituti democratici. Una triplice crisi, dell’economia, della politica e della democrazia, a cui va aggiunta quella della sinistra, incapace momentaneamente di ricucire solidamente i rapporti con i suoi referenti sociali e di contrastare con forza gli avversari sul terreno decisivo dell’egemonia politico-culturale.

Francesco Soverina, Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea