«Possa questo tribunale evitare che si verifichi il crimine del silenzio». È del 13 novembre 1966 la prima riunione dei membri dell’International War Crimes Tribunal (noto come Tribunale Russell) ideato e fondato da Bertrand Russell, che vuole «mettere agli atti la verità sul Vietnam, giudicare ciò che risulterà essere vero, segnalarne le conseguenze inevitabili».
Il premio Nobel per la letteratura (1950) è da sempre impegnato in prima fila nella radicale difesa delle minoranze oppresse (boeri, neri, ebrei, ecc.), sostiene i movimenti per l’emancipazione delle donne e una nuova morale familiare, ed è tanto a favore dell’obiezione di coscienza e contro la coscrizione obbligatoria da essere stato per il suo attivismo anche recluso alcuni mesi nel 1918. Particolarmente intense saranno le sue iniziative di carattere pacifista e quelle per il disarmo nucleare culminate nella dichiarazione “Notice to the World”, nota come “Manifesto Russell‐Einstein”, il più importante documento di denuncia mai scritto sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari per il genere umano, presentato nella conferenza stampa del 9 luglio del 1955 a Westminster, Londra. Nel corso dell’incontro Russell, sottolineando che i governi non ne sono pienamente consapevoli, espone i pericoli di una guerra nucleare che avrebbe condotto alla «distruzione totale della razza umana ad opera del pulviscolo e della pioggia che ricadono sulla terra da nuvole radioattive».
Tutto nasce all’indomani del discorso sui rischi della guerra nucleare letto il 23 dicembre 1954 da Russell nella trasmissione radiofonica della BBC intitolata Man’s Peril (L’uomo è in pericolo). L’intervento termina con queste parole: «Si apre di fronte a noi, se sapremo scegliere, una lunga via di progresso continuo verso la felicità, il sapere, la saggezza. Sceglieremo invece la morte perché non siamo capaci di dimenticare i nostri rancori? Io lancio il mio appello, essere umano ad altri essere umani: ricordate la vostra comune umanità e dimenticate ogni altra cosa».
Sorprendentemente il filosofo inglese riceve, tra le decine di manifestazioni di condivisione del suo appello, una lettera di sostegno dal premio Nobel francese Frédéric Joliot-Curie e si persuade della necessità di concentrare gli sforzi nel raccogliere l’adesione di altri scienziati dalla chiara fama mondiale, indipendentemente dalle eventuali diverse o opposte posizioni ideologiche o politiche.
L’11 febbraio 1955 si convince quindi a scrivere a Albert Einstein per esporgli il suo pensiero e la necessità di dare vita ad azioni clamorose per richiamare l’attenzione pubblica mondiale sulla minaccia insita nella guerra nucleare. Einstein condivide e sottoscrive, poco prima di morire, la dichiarazione preparata da Russell. Si tratta dell’ultimo atto pubblico del Nobel tedesco che viene considerato il suo testamento morale all’umanità.
Il “Manifesto Russell‐Einstein” fotografa inesorabilmente il pericolo che in quegli anni rischia l’umanità intera perseguendo la corsa agli armamenti atomici: «Nella tragica situazione che affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento». E ancora: «Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?».
La Dichiarazione, grazie all’attivismo di Russell, viene firmata da nove eminenti scienziati: Max Born (Nobel per la fisica), Percy W. Bridgman (Nobel per la fisica), Leopold Infeld (professore di fisica teorica), Frédéric Joliot-Curie (Nobel per la chimica), Herman J. Muller (Nobel per la fisiologia e medicina), Linus Pauling (Nobel per la chimica), Cecil F. Powell (Nobel per la fisica), Józef Rotblat (professore di fisica), Hideki Yukawa (Nobel per la fisica).
Nella Risoluzione si chiede ai governi di tutto il mondo di rinunciare esplicitamente all’uso della guerra come metodo per risolvere le loro controversie: «In considerazione del fatto che in qualsiasi futura guerra mondiale saranno certamente impiegate armi nucleari e che tali armi minacciano la continua esistenza dell’umanità, esortiamo i governi del mondo a realizzare, e a riconoscere pubblicamente, che il loro scopo non può essere favorito da una guerra mondiale, e li esortiamo, di conseguenza, a trovare mezzi pacifici per la risoluzione di tutte le questioni di controversia tra di loro».
La reazione a questa determinazione tanto coraggiosa quanto intransigente è sorprendentemente positiva. La stampa mondiale, inizialmente scettica, riserva una buona accoglienza al documento. Non c’è dubbio che i firmatari del Manifesto Russell-Einstein hanno giocato un ruolo importante nella nascente campagna mondiale anti-nucleare. Pochi mesi dopo, infatti, un gruppo di cinquantadue premi Nobel per la scienza, mobilitati dal fisico Max Born, firmerà la Dichiarazione di Mainau (15 luglio 1955), che ammonisce: «ci sembra un’illusione credere che piccoli conflitti possano in futuro essere sempre decisi con armi tradizionali. In estremo pericolo nessuna nazione si negherà l’uso di qualsiasi arma che la tecnologia scientifica può produrre. Tutte le nazioni devono prendere la decisione di rinunciare alla forza come ultima risorsa. Se non sono preparati a farlo, cesseranno di esistere».
Gli scienziati hanno compreso che la principale ripercussione della guerra in Corea è stata il riarmo dell’alleanza occidentale, e dunque l’avvio della massiccia corsa agli armamenti che avrebbe contraddistinto la guerra fredda nei decenni successivi. Peraltro, fa notare lo storico Federico Romero, che nella «trasformazione delle alleanze in blocchi armati pronti alla guerra fu particolarmente controversa, e cruciale, l’integrazione della Germania occidentale nella NATO con un proprio esercito, portata a termine nel 1955». Appena una settimana dopo nasceva il Patto di Varsavia, l’alleanza militare degli Stati socialisti attraverso cui Mosca coordinerà la difesa del blocco orientale e darà legittimità formale alla presenza dell’Armata Rossa nei loro territori.
Sull’onda del “Manifesto Russell-Einstein”, Józef Rotblat nel 1957 fonda il movimento chiamato Pugwash (dalla città canadese nella Nuova Scozia che ospita la conferenza) che riunisce fisici, biologi e sociologi. Ventidue partecipanti provenienti dagli Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina, Polonia, Gran Bretagna, Australia, Austria, Canada, Francia e Giappone – da entrambi i lati della “cortina di ferro” – per discutere sulla fattibilità di un eventuale disarmo e controllo delle armi nucleari.
L’anno successivo, in Gran Bretagna, intellettuali, scienziati e leader religiosi danno vita alla Campaign for Nuclear Disarmament (Cnd). È il primo movimento collettivo per il disarmo nucleare, al quale si sarebbero ispirate diverse generazioni di attivisti antinucleari e pacifisti nei decenni successivi. Mentre il risultato più concreto che ottiene la campagna di sensibilizzazione avviata dal Pugwash sarà la ratifica del Trattato per la messa al bando parziale degli esperimenti atomici (Pugwash , Ptbt), firmato il 5 agosto 1963 da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica e che da allora stabilisce l’inammissibilità in superficie dei test nucleari in tempo di pace.
Pugwash per Bertrand Russell è un ulteriore tassello verso il complicato mosaico della pace mondiale: «Mi faceva molto piacere soprattutto il fatto che eravamo riusciti a dare la prova che una vera collaborazione, quale ce la eravamo sempre augurata, poteva davvero stabilirsi fra scienziati di “ideologie” diametralmente opposte e di principi contrastanti anche in campo scientifico».
La angosciata mobilitazione degli scienziati in quegli anni è incessante. Sempre nei primi anni Cinquanta, Einstein, insieme a Robert Oppenheimer – considerato il padre della bomba atomica e dal cui progetto si allontanerà – profondamente preoccupati per come essa e altri progressi scientifici possano essere utilizzati o usati in modo improprio, iniziano a pensare alla costituzione di un’associazione internazionale per esplorare le principali preoccupazioni dell’umanità in un contesto non governativo. Nasce così nel 1960 la World Academy of Art and Science (Waas), cui aderiscono Bertrand
Russell, Joseph Needham (co-fondatore dell’Unesco), Lord Boyd Orr (primo direttore generale della Fao), Brock Chisholm (primo direttore generale dell’Oms), il fisico ebreo polacco Rotblat, l’unico scienziato ad abbandonare il Progetto Manhattan prima della devastante conclusione, e molti altri. Sarà proprio Rotblat a continuare a dirigere le Pugwash Conferences on Science and World Affairs e nel 1995 – a cinquanta anni dalle tragedie di Hiroshima e Nagasaki – riceverà il Premio Nobel per la Pace per gli «sforzi per diminuire il ruolo delle armi nucleari nella politica internazionale e, nel lungo periodo, per eliminare tali armi».
Agire è un dovere
È Russell tra le voci più critiche nei confronti della politica estera americana, soprattutto a causa delle azioni nei confronti di Cuba e del Vietnam, ad affermare in una lettera aperta indirizzata ad “Harper’s Magazine” nel 1963, che il governo statunitense ha imposto «regimi intollerabili ai Paesi asiatici, latinoamericani e mediorientali» e che «persegue una politica di genocidio». In un’altra lettera al “New York Times”, stigmatizza la condotta di Washington in Vietnam che a suo giudizio «ricordava la guerra praticata dai tedeschi nell’Europa orientale e dai giapponesi nel sud-est asiatico» e nell’aprile del 1966 propone a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir la creazione di un tribunale d’opinione per indagare e denunciare i crimini di guerra americani in Vietnam.
Il Tribunale Russell viene costituito a Londra il 13 novembre 1966 ed è presieduto, oltre che dallo stesso Russell, da Jean-Paul Sartre e Vladimir Dedijer; tra i membri della giuria compaiono Wolfgang Abendroth, Günter Anders, Lelio Basso, Simone de Beauvoir, Laurent Schwartz, Isaac Deutscher, in tutto una trentina.
In questa occasione Russell chiarisce subito i caratteri originali della sua ultima iniziativa: «Il Tribunale non ha un chiaro precedente storico. Il Tribunale di Norimberga, sebbene interessato a crimini di guerra designati, è stato possibile perché le potenze alleate vittoriose hanno costretto i vinti a presentare i loro leader per il processo. Inevitabilmente i processi di Norimberga, sostenuti com’erano dal potere statale, contenevano un forte elemento di realpolitik […], il nostro stesso compito è più difficile […], non rappresentiamo alcun potere statale, né possiamo costringere i responsabili politici dei crimini contro il popolo del Vietnam di essere accusati davanti a noi. Ci manca la forza maggiore. Le procedure di un processo sono impossibili da attuare. Credo che questi apparenti limiti siano, in effetti, virtù. Siamo liberi di condurre un’indagine solenne e storica, non obbligati da ragioni di Stato o altri obblighi simili».
D’altronde, quando nel corso della Seconda guerra mondiale, i governi inglese, francese e polacco il 17 aprile 1940 hanno denunciato per la prima volta i crimini nazisti e l’atroce trattamento riservato agli ebrei in Polonia, questa denuncia aveva preso la forma, non usuale ai governi, di un “appello alla coscienza mondiale” che sembrava richiamarsi alla decisione del comitato norvegese che nel 1936 – dietro la pressione di Bertrand Russell, Albert Einstein, John Dewey, Ernst Toller, Virginia Woolf il giovane Willy Brandt e altri – aveva attribuito il premio Nobel per la pace al giornalista pacifista tedesco Carl von Ossietzky, che un decennio prima dalle colonne del giornale che dirigeva, “Die Weltbühne”, aveva iniziato la battaglia per rendere noti i piani di riarmo della Germania. La decisione norvegese aveva fatto dire a Heinrich Mann che la «coscienza del mondo» finalmente si è risvegliata.
Proprio l’appello del ’40 costituisce il germe della successiva dichiarazione di St. James del 13 gennaio 1942, e della dichiarazione di Mosca dell’1 novembre 1943, da cui deriverà poi l’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945 per l’istituzione del Tribunale di Norimberga. Questo iter dall’“appello alla coscienza mondiale” al Tribunale di Norimberga è abbastanza significativo per giudicare della legittimità di quest’ultimo in quanto – come sottolineerà Lelio Basso nel 1967 – «se non si vuole trovarne il fondamento nel mero diritto del vincitore che detta la sua legge al vinto, è appunto nella “coscienza mondiale” che bisogna trovarla, visto che i criminali nazisti furono condannati per dei crimini che nessuna legge scritta considerava tali nel momento in cui furono commessi».
È chiaro ai giurati del Tribunale Russell che i crimini internazionali non cessano di essere tali nonostante manchi un tribunale regolarmente costituito che abbia la forza di rendere esecutive le sentenze, così come i crimini nazisti erano tali anche prima dell’istituzione del Tribunale di Norimberga, o addirittura che se ne parlasse. L’illiceità di un atto e anche la sua natura criminosa sono indipendenti dall’esistenza di un organo abilitato a giudicarne. Ricordiamo che nel 1944 Winston Churchill, riferendosi agli orrori del nazismo, aveva parlato di «un crimine senza nome», e Raphael Lemkin, un ebreo americano di origine polacca, professore di diritto internazionale all’Università di Yale, gli aveva risposto coniando la parola «genocidio».
Soffermandosi sugli impari armamenti utilizzati dagli Stati Uniti nei confronti del popolo vietnamita e mettendo l’accento sulla contrarietà della stampa occidentale a processare i piloti statunitensi catturati, il 30 ottobre 1966 Russell introducendo il libro “Vietnam north” di Wilfred Burchett scrive: «[…] poco importa che questo colosso industriale conduca una guerra sterminatrice, poco importa che i vietnamiti subiscano il lavoro forzato e la politica delle terre bruciate nel sud, subiscano la tortura, le mutilazioni e l’avvelenamento, poco importa che nuove armi vengano sperimentate contro un popolo il cui unico crimine è quello di lottare disperatamente per la propria indipendenza nazionale e per il diritto di governarsi da sé. L’opinione occidentale, e in primo luogo quella che proclama la propria simpatia per i vietnamiti, non sa fare una distinzione morale fra l’aggressore e la vittima».
«Noi siamo impotenti: è la garanzia della nostra imparzialità» (J.P. Sartre)
È il 2 maggio 1967. La prima sessione dell’International War Crimes Tribunal si tiene a Stoccolma invece che a Parigi a causa degli ostacoli frapposti dal governo francese guidato da Charles De Gaulle. Jean-Paul Sartre chiarisce che il Tribunale non è un’istituzione, non si sostituisce a nessun potere costituito, anzi «esso è nato piuttosto da un vuoto e da un appello», e che la sua legittimità promana «sia dalla sua assoluta impotenza che dalla sua universalità».
Il Tribunale si sviluppa in due sessioni, la prima si tiene a Stoccolma dal 2 al 10 maggio 1967 e la seconda a Copenaghen dal 21 al 30 novembre 1967, nel corso delle quali viene ampiamente dimostrato come la distruzione, condotta dalle forze armate statunitensi sia nel Sud sia nel Nord Vietnam, sia contraria al diritto internazionale e ai fondamentali principi dei popoli e della dignità dell’uomo. Inoltre, a chiusura del proprio lavoro nel novembre 1967, i suoi membri confutano la premeditazione e la volontarietà della politica e della condotta del conflitto degli Stati Uniti in Vietnam, riconoscendo nei loro atti ciò che, in base alla Convenzione del 1948, era definito genocidio per il fatto di aver scelto una politica di aggressione nei confronti di una popolazione che si ribellava all’oppressione, senza aver tentato la via della pace.
Nelle sue conclusioni alla sessione di Copenaghen, Sartre definisce “genocidio totale” la strategia americana di counter-insurgency, e il giurato Günther Anders, filosofo ebreo autore di “L’ultima vittima di Hiroshima”. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica (Amburgo 1961), suggerisce di trasferire il tribunale a Cracovia, vicino ad Auschwitz, per il suo valore simbolico.
I membri del Tribunale sono animati dal convincimento che la loro azione potrà contribuire a «ridestare la coscienza di tutti». In questo alveo si muove anche Lelio Basso, considerato uno dei più importanti interlocutori politici dei movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam e che Russell aveva voluto alla presidenza della prima Commissione d’inchiesta del Tribunale, e in questa veste di giudice relatore si era recato in Vietnam nel novembre 1966 per incontrare il primo ministro Pham Van Dong e Ho Chi Min. Al termine della sessione danese il giurista italiano presenta il rapporto conclusivo denunciando la «dottrina del “globalismo” […] che giustifica l’intervento americano in ogni parte del globo», che ha causato «il volontario sterminio di vittime accidentali (cioè non scelte per delle ragioni che le riguardano personalmente) appartenenti a un gruppo di carattere nazionale, razziale, etnico o religioso».
Guardando al presente, rimane (purtroppo) attuale la riflessione dello storico Enzo Traverso, quando fa notare il paradosso che attraversa tutto il Novecento: alcuni eventi o catastrofi che oggi ci appaiono come carichi di violenza sono stati spesso accolti con indifferenza, ignorati, trascurati o banalizzati dai loro contemporanei.
Non è stato così per Bertrand Russell, che, ancora con una punta di ottimismo, nel postscriptum nel 1969 scrive: «Sono convinto che l’intelligenza, la pazienza e l’eloquenza possano presto o tardi liberare la razza umana dalle torture che si è imposta da sé, purché non si autodistrugga nel frattempo».
Andrea Mulas, storico fondazione Basso
Pubblicato mercoledì 7 Dicembre 2022
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