https://www.scienze-naturali.com/wp-content/uploads/2017/03/fiori-da-balcone-primaverili-703×527.jpg

C’è la necessità di essere affermativi (dire “positivi”, in un momento come questo, appare decisamente fuori luogo, se non addirittura provocatorio). Si tratta di dotarsi dell’ottimismo della volontà, al quale fa da corollario il calcolato pessimismo della ragione. Nessun catastrofismo, per cortesia. Non siamo agli ultimi giorni dell’umanità ma ad un cambiamento nei giorni dell’umanità. Quindi, del suo passo. In cosa ciò consisterà, lo potremo capire solo nel corso del tempo a venire. Trattandosi di una pandemia, che coinvolge il mondo intero o buona parte d’esso, quanto meno quello che si intende a “sviluppo avanzato”. C’è adesso soprattutto la necessità di affrontare una nuova forma di socialità, paradossale, poiché fondata su quella condizione che oramai tutti iniziamo a conoscere come «distanziamento sociale». Tradotto in altre parole, siamo accomunati dall’essere divisi. Ognuno nella propria privata condizione, che sia condivisa con altri famigliari o sia a sé stante.
È la prima volta, in vita nostra, che facciamo questa esperienza. Che con il passare dei giorni, rivela la sua persistenza: un obbligo tanto necessario quanto vincolante. La nostra esperienza di spazio comune sta cambiando radicalmente. Non è più l’insieme dei luoghi di socialità pubblica, dal lavoro ai divertimenti, dalle amicizie agli scambi professionali, dall’anonimato di un mezzo di trasporto alla reciprocità di un pranzo tra conoscenti in un locale pubblico, ma è il perimetro di una quotidianità coatta, ossia obbligata. La quarantena, d’altro canto, ha moltissime similitudini con gli arresti domiciliari, basandosi sulla rigidissima limitazione non solo degli ambienti calpestabili ma soprattutto nel suo secco contingentamento dei rapporti sociali. Non si pone un individuo agli arresti per la sola necessità di punirlo ma innanzitutto per limitarne i contatti. Nella convinzione che essi, poiché parte costitutiva del suo «essere umano», si siano trasformati da potenzialità in pericolo. In quanto trasmettono qualcosa (si tratti di un gesto criminale così come di micro-organismi) che inquinano il mondo circostante. Con una differenza tra l’isolamento individuale (arresti) e quello collettivo (lockdown), che non è solo di ordine numerico bensì qualitativo. In quanto nel primo caso la pericolosità è identificata con un soggetto preciso, un individuo che in genere è comunemente considerato come indesiderato per le più svariate ragioni; mentre nel secondo caso, è un’intera comunità che deve dirsi di costituire, per se medesima, un problema, se non un pericolo. Quanto meno, nella misura in cui continua a intrattenere quegli stessi rapporti sociali che ne sono fondamento. Poiché non esiste comunità senza relazioni. La stessa radice etimologica della parola comunità, come ha ricordato a suo tempo il filosofo Roberto Esposito, deriva dal termine latino «communitas», «cum-munus»: il «munus» che può avere un triplice significato e che rimanda a un dovere, un debito, un dono da dare. I soggetti della comunità sono dunque uniti da un obbligo che li rende non completamente padroni di se stessi ma vincolati tra di loro da una reciprocità.

Renè Magritte, L’uomo con la bombetta, 1964 (da https://www.cinquecosebelle.it/wp-content/uploads/2018/11/opere-magritte-uomo-bombetta.jpg)

Il paradosso della quarantena è anche questo: interrompe la trasmissione di qualcosa di maligno ma trasforma, in parte ottundendole, anche le relazioni benigne, senza le quali non possiamo vivere. Quando si è sottoposti a misure di rigore, proprio malgrado, così come quando si sceglie volontariamente di distanziarsi dagli altri, bisogna rivedere daccapo la propria agenda. Non solo quella degli impegni concreti, materiali – che si tratti di lavoro piuttosto che di studio, di divertimenti piuttosto che di ozio – ma anche quella mentale. L’isolamento ha effetti di lungo periodo sulla cognizione di sé da parte degli individui, ovvero sul modo di concepirsi. Proprio perché decade quella socialità che ci rende umani. Lo sanno benissimo i carcerieri, che confidano in questo aspetto per ottenere i risultati che si sono ripromessi di raggiungere. Non per questo diventiamo disumani ma dobbiamo ridisegnarci nel nostro modo di essere quotidiano, il tempo per noi più prezioso. La quarantena incide – infatti – non solo sui luoghi accessibili ma anche sull’uso (e sulla concezione) del tempo. È quotidiano ciò che appartiene alla prevedibilità, alla calcolabilità, alla dimensione dell’immaginabile. Una risorsa preziosissima, senza la quale ci sentiamo letteralmente abbandonati a noi stessi. Anche per questa ragione, in queste settimane di isolamento, stiamo conoscendo una trasformazione i cui effetti dureranno a lungo. Quale sarà il risultato finale, a parte molte preoccupazioni, in sé concrete nonché immediate, in quanto legate alla sfera del lavoro, del reddito come anche delle relazioni interpersonali, è impossibile dirlo. Procederemo per piccoli passi, ma comuni. In quanto ciò che stiamo vivendo ci sta incamminando verso la consapevolezza che quanto è stato non lo è già più, da adesso, benché nessuno di noi possa sapere cosa sarà per i tempi a venire, anche di noi stessi medesimi, come persone.
In questa cornice, non sta tornando la voglia di sentirsi «italiani» né si scopre un nuovo patriottismo (ancorché non bellicoso). Semmai è il ritorno di qualcosa che abbiamo sempre portato con noi stessi e che adesso si rivela nel momento dello sconvolgimento della nostra quotidianità. Se nel Settecento lo studioso e polemista Samuel Johnson affermò che «il patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie», allora quello che da noi – sia pure con fatica – cerca di emergere, è uno spirito solidale. Di contro ad una auto-narrazione, molto radicata in una destra illiberale e antidemocratica, che ha sempre alimentato la mitologia negativa di una italianità basata sul qualunquismo, sull’indifferenza, sull’estraneità, sulla sospettosità. Un presunto “carattere italiano” che per essere governato richiederebbe, invece, l’intervento autoritario, l’unico in grado di ovviare alla mediocrità di un italiano comune (che non esiste comunque) cronicamente incapace di emanciparsi dal suo essere un suddito. Si tratta del discorso degli eredi di coloro che, per intendersi, negli anni bui dell’occupazione nazista manifestarono il loro “patriottismo” mettendosi proni e chini al servizio dell’occupante. Anche da ciò, quindi, il farsi beffe delle forme di partecipazione, l’attacco contro le manifestazioni di socialità che implichino continuità di impegno (a meno che non siano funzionali all’adorazione incondizionata di un capo, chiunque egli sia), gli insulti contro chi viene tacciato di «buonismo». Gli ingenui, che scambiano i loro sentimenti caramellosi per realtà incontrovertibile, sono sempre esistiti. Non sono tuttavia la maggioranza. Quel che invece conta è che continui ad esistere e, soprattutto, a resistere una comunità di responsabili. Fatto che si misura proprio nei momenti di emergenza.

Renè Magritte. Gli amanti, 1928 (da https://www.cinquecosebelle.it/wp-content/uploads/2018/11/opere-magritte-amanti.jpg)

Non manifestiamo più, collettivamente seguendo i cliché politici del Novecento, cosa che peraltro, in questi anni, abbiamo fatto in maniera sempre più declinante. Cerchiamo invece di ridisegnare uno spazio di condivisione, sotto il segno di una nuova democrazia, ancora di là dal realizzarsi. Si può discutere, e anche molto, sull’opportunità di esporre dai balconi disegni e striscioni beneauguranti. Così come si può anche dissentire dalla necessità, in questi ultimi due decenni sempre più diffusasi, di cantare l’inno di Mameli e di mettere sulle ringhiere la bandiera italiana. Ma non si può in alcun modo eccepire sul fatto che dietro a questi gesti, condivisi e ripetuti, ci sia un bisogno fondamentale, quello di essere cittadini. E di chiederlo agli altri, rispecchiandoci in essi. Di contro all’individualismo cinico, che sia quello dei perdenti (che si chiudono nella propria tana, prima della loro estinzione) come degli emergenti (che celebrano se stessi disprezzando il «popolo», ai loro occhi meschino e mediocre a prescindere). Oggi, dinanzi all’emergenza, ci misuriamo con il tentativo del costituirsi di una comunità virtuale, tale perché si confronta con la sua condizione di costrizione, dettata dalla quarantena, di contro alla gabbia del virale (la pandemia). Una comunità che si identifica e che partecipa come può con quanti, e sono moltissimi, rimangono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza: l’intero apparato sanitario italiano, le forze dell’ordine (quanti tra gli appartenenti ai medesimi corpi, molti decenni fa, costituirono la prima ossatura del partigianato?) ma anche una leva di giovani – e meno giovani – amministratori locali, che si stanno spendendo per tenere compatte le loro realtà civili, di personale che lavora in condizioni di oggettivo rischio per mantenere i servizi essenziali. La totalità dei quali non lo fanno per retribuzioni molto spesso risibili ma per un senso di responsabilità nel quale ci rispecchiamo. Anche a volere ripetere una grande verità che troppo spesso omettiamo: non stiamo vivendo solo una gigantesca crisi sanitaria ma anche una drammatica domanda di equità sociale, che sta solo un passo indietro all’emergenza in quanto tale.
Ricordiamocelo, quando l’angoscia per la minaccia virale si sarà attenuata. Qualsiasi comunità, a partire da quella dei resistenti di un tempo, per arrivare a quella di oggi (il parallelismo, se è storicamente indebito, non lo è altrettanto sul piano civile e morale), d’altro canto si è identificata e riconosciuta, nei suoi componenti, attraverso pochi gesti, in alcuni simboli, in parole d’ordine semplici ma dirette. E dirsi, in forma di auspicio, che «andrà tutto bene» equivale all’imperativo di resistere. Ogni epoca, ogni generazione, qualsiasi società lo fa con gli strumenti che gli sono suoi propri e nelle situazioni con le quale deve confrontarsi. Che mutano nel tempo, in quanto il racconto della storia è ricostruzione di come, nel trascorrere delle cose e delle persone, avvenga anche la trasformazione delle comunità. Qualsiasi ragionamento al riguardo deve poi confrontarsi con un tema cornice, quello che ci accompagna da almeno tre decenni, ossia della crisi della democrazia, laddove la dimensione sociale, partecipativa è messa in discussione. Al riguardo, la situazione di eccezionalità che stiamo vivendo mette ancora più in luce di quanto già non fosse necessario, la necessità di non farsi ingannare dalla cecità di certe illusioni. Ci viene da dire che il pensare che una pandemia possa essere risolta dalla sola «comunità scientifica» (un insieme di individui ma – anche e soprattutto – di risorse, di competenze e di relazioni continuative, spesso con idee e posizioni tra di loro molto differenti; si sta insieme e si “produce” non malgrado ma grazie al pluralismo conflittuale delle opinioni), nel mentre la medesima chiede ai decisori (evidentemente non solo i politici, che sono comunque adesso in prima linea) delle chiare linee guida amministrative e di indirizzo, è come pensare di fare politica delegando ai soli «tecnici» la soluzione di un’infinità di problemi che richiedono senz’altro competenze ma anche e soprattutto responsabilità. Le ultime non si delegano, semmai si assumono. È al medesimo tempo una manifestazione di falsa razionalità e di incoscienza civile il ragionare diversamente. Comunque la si voglia vedere, si traduce in un atto di defezione dalla decisione e dal suo riscontro collettivo.

Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia, 1950-1951 circa (da https://i0.wp.com/dueminutidiarte.com/wp-content/uploads/2015/11/giorgio_de-chirico_piazza-italia_vita_opere_due-minuti-di-arte.jpg?resize=760%2C532&ssl=1)

Ciò che oggi emerge, con dirompenza, come bisogno reale, è quanto negli anni trascorsi è invece stato fatto oggetto di ripetuto sbeffeggiamento: non solo la competenza ben temperata ma anche la mediazione istituzionale e politica. Le «democrazie dirette» (quelle condominiali) sono la falsificazione della realtà. La ricerca, oggi richiamata da tutti quasi come una sorta di divinità dalle cui labbra si penderebbe, non è mai un processo orizzontale bensì verticale. Sarebbe altrimenti stregoneria e superstizione, non altro. Soprattutto, richiede energie, tempo e forze, di ogni genere e tipo. Provare, sbagliare, riprovare, cercare, verificare, confrontarsi. Tra errori e rettifiche. Una vita intera, in buona sostanza: quella di chi ci lavora. Non si testa e non si verifica con i plebisciti “popolari” bensì con i lunghi effetti di ritorno dei percorsi applicativi. Di contro all’insopportabile retorica che contrappone il «popolo» ai «professoroni», fingendo che il primo sia lo spontaneo titolare di un’antica sapienza di cui i secondi, nel chiuso delle loro segrete stanze, poco o nulla conoscerebbero. Ma servono anche élite dirigenti che sappiano tradurre quelle competenze e quelle azioni in scelte collettive. Gruppi dirigenti che siano autorevoli. Una volta i partiti di massa producevano tali figure, pari agli anticorpi dei sistemi immunitari. Oggi le cose sono diverse. Non a caso lo scellerato elogio del livellamento di tutto – non solo dei processi politici ma anche delle stesse società, nel nome di deità astratte (ad esempio, i «mercati», citati a sproposito come insindacabili Sibille cumane) che da sé avrebbero concorso autonomamente ad aggiustare, con incantevoli magie, ogni cosa – ha invece contribuito a renderci più fragili, maggiormente deboli dinanzi alla difficile prova che stiamo affrontando. Si tratta di una lunga storia di falsificazioni.
Quel che ora più che mai dobbiamo sapere è che o se ne esce insieme oppure si rischia di non poterne uscire, piaccia o meno. Poiché gli scenari che potrebbero configurarsi sono quelli a spirale. Conterà anche il modo e il come ne riusciremo ad uscire. In Italia, con tutti i limiti del caso, ne stiamo prendendo faticosamente coscienza. Con grandi difficoltà, beninteso. Le immagini delle altre capitali europee, sono invece preoccupanti. Sapendo di come le loro epidemie a scarto ritardato potrebbero tornarci indietro, il giorno in cui noi avessimo finalmente fatto un primo passo per andare oltre l’emergenza immediata. Classi dirigenti impaurite e, soprattutto, disorientate, tali poiché in deficit di capacità decisionali, animate quindi da una visione tanto miope quanto cinica, contribuiscono in tale modo a mettere un altro chiodo sulla bara non solo della periclitante Unione europea ma anche di un futuro per tutti noi (ancora) accettabile. Sarà bene non avere memoria corta, al riguardo, quando si dovrà pur scegliere qualcosa o qualcuno. Nei giorni scorsi Silvio Garattini, classe 1928, conosciuto come decano della ricerca farmacologica, animato da una lucidità invidiabile, sempre pacato ma realista, alla domanda postagli da un intervistatore sulla necessità di fare ricerca per trovare una risposta al collo di bottiglia nel quale le società europee si stanno cacciando per via del coronavirus, ha sottolineato che in un paese come l’Italia è oramai impossibile parlare di «ricerca» in quanto sistema integrato, poiché in tutti i campi (non solo quello medico e farmacologico) è quest’ultima ad avere subito i tagli più radicali, quanto meno in termini proporzionali, nel nome di equilibri di bilancio, in omaggio a vincoli finanziari e a cos’altro (a partire dal transfert di eventuali risorse nel magico «privato», inteso come circuito di interessi corporati, di cui alcune leadership hanno dato proprio in questi giorni un chiaro esempio). Tra le altre cose, ci si è sentiti ripetutamente dire che “non c’è bisogno di fare ricerca”. Con il corredo di beffe verso gli specialismi e la destrutturazione sia degli inquadramenti professionali che delle retribuzioni, senza i quali non ci può essere alcuna ricerca reale effettiva, tale poiché capace di ricadere positivamente, nel lungo termine, sulla collettività medesima. È infatti parte della ricerca non solo ciò che si va facendo oggetto di studio ma anche i modi (tempi, risorse, qualità della prestazione, sistemi di scambio e cooperazione) in cui tale lavoro si compie. Ossia, la sua considerazione sociale.
Se uno studioso non è pagato, dovrà cercarsi un altro lavoro. Con buona pace della ricerca medesima. Il tutto in società tendenzialmente qualunquistiche e sempre più spesso chiuse in se stesse, in quanto animate da minoranze rumorose e rancorose, all’ossessiva ricerca di quella miserevole visibilità che accompagna i piccoli narcisi dei quali sono composte. Il principio ragionevole e razionale di prevenzione condivisa – che è cosa diversa dalla paurosa «società del rischio» raccontata dai sociologi, quella in cui tutti, avendo timore di qualcosa, si affidano quasi scaramanticamente alle moderne formule di sortilegio che sono le assicurazioni private, quand’esse si sostituiscono ad un solido sistema di garanzie pubbliche – è venuto progressivamente ad attenuarsi. Non solo come pratica sistematica e sistemica delle istituzioni ma innanzitutto come forma mentale e culturale, almeno laddove la solidarietà e la reciprocità sono parte integrante della soluzione dei problemi. Non siamo società abituate al senso del limite e a quella capacità di autocorrezione che sono invece due virtù fondamentali di ciò che chiamiamo resilienza. Arriviamo quindi alla prima grande prova – almeno per noi europei – da dopo la Seconda guerra mondiale, del tutto disabituati e non attrezzati a fare fronte alle emergenze che si stanno sommando: sanitaria, economica ma anche sociale e civile. Si è disinvestito su tutto, nel nome di una velocità e di una mutevolezza (quelle derivanti da un’economia della conoscenza e dell’informazione) che avrebbero compensato i bisogni e le occorrenze, di una circolazione che sarebbe stata in grado di compensare, per un principio di virtuosità intrinseco a sé, le asimmetrie di ogni genere, a partire proprio da quelle di opportunità (e di autotutela, in questo caso della salute). La scelta – ideologica – di professare la diseguaglianza come falsa forma di merito (nei fatti ne è invece l’esatto opposto), arricchisce certuni mentre impoverisce le collettività. Il nesso tra salute pubblica, ambiente ed economia globale è emerso come indissolubile dalla gravissima crisi che stiamo attraversando. Poiché siamo entrati in una doppia emergenza, che prevedibilmente durerà a lungo, portando a profonde ristrutturazioni sociali. Laddove l’incoscienza collettiva si alimenta, in un gioco di irrisolte specularità, del cinismo di una parte delle élite. Ecco, il fare comunità, vuole allora dire il tornare non solo a fare politica ma a pensare che la politica sia la sede non dello storytelling, di una narrazione infinita, come la tela di Penelope che di giorno viene fatta e di notte è disfatta. Per evitare di candidarci ad essere non più cittadini ma sudditi. Le grandi crisi si accompagnano sempre a cambiamenti collettivi come personali, dovendo decidere cosa tenere del vecchio bagaglio e cosa, invece, abbandonare alle proprie spalle. Cerchiamo di chiarirci le idee, al riguardo. Il cammino si fa camminando, rammenta il poeta.

Claudio Vercelli, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini