“Da 1 a 10 qual è il tuo grado di fiducia verso le istituzioni?”. La domanda rivolta a un campione di 1.663 giovani, offre un quadro impietoso sullo stato di salute della nostra democrazia. Tutte le istituzioni politiche del Paese hanno raggiunto posizioni bassine, in particolare le figure classiche della rappresentanza: 2,5 Governo nazionale; 2,5 Senato della Repubblica; 2,5 Camera dei Deputati; 2,3 partiti politici. Ecco la fotografia scattata dal Rapporto Giovani 2014, dell’Istituto Giuseppe Toniolo (vedi anche http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/impegno-politico-e-sociale-la-grande-fuga-dei-ragazzi/). Il segnale di un distacco profondo (che più si diventa adulti, più cresce) tra la politica e le nuove generazioni e di una credibilità ridotta al lumicino. E il bello è che tutte le istituzioni hanno avuto un voto più basso di quello, già basso, ottenuto nell’indagine precedente.
Se dalla politica si passa al lavoro, la sensazione di essere un Paese sul piano inclinato del declino si fa ancora più forte. “Meno del 10% delle femmine considera di disporre di occasioni di impiego buone e adeguate contro circa il 15% dei maschi. Per la grande maggioranza dei ragazzi, il 55%, le opportunità lavorative sono invece scarse o limitate (33%).
A ricordare i risultati del rapporto ad un sociologo attento come Franco Ferrarotti, la risposta che si ottiene è un sospiro sconsolato: «Eppure c’è ancora in giro una pletora di commentatori della domenica che pensa, o meglio vuole farci credere, che la questione giovanile sia una questione di stati d’animo. Altro che stati d’animo! Abbiamo più di due milioni di ragazzi senza lavoro. Una situazione che dovrebbe portare ad una vera e propria insurrezione». E invece i giovani non solo non si ribellano ma addirittura capita ormai frequentemente che si arrendano, che non cerchino nemmeno più di cambiare la loro condizione. Come mai? «Perché la famiglia in Italia è l’ammortizzatore sociale segreto delle crisi sociali». Puntuale, la conferma alle parole di Ferrarotti arriva dai dati Eurostat sul 2014. Sono il 66% i giovani italiani tra i 18 e i 34 che vivono a casa con mamma e papà: 20 punti in più della media di tutti i Paesi dell’Unione Europea (48,4%). Nella fascia d’età 25-34 anni la percentuale è di poco inferiore al 50% (la media europea è del 29,2%). Troppo choosy, troppo schizzinosi, come andava raccontando qualche anno fa Elsa Fornero? Macché, una grande maggioranza dei giovani si dichiara disponibile a lavori manuali, che in altri tempi avrebbe rifiutato. I giovani adulti sono costretti a stare con i genitori, prigionieri della disoccupazione e di un costo degli affitti che non ha eguali in Europa. E infatti è in crescita il numero di ragazzi che usciti da casa sono costretti a tornarvi – con mogli e figli al seguito – perché le finanze non consentono loro l’indipendenza.
La rappresentanza non rappresentativa
La crisi sociale s’incrocia e si acuisce con la crisi della rappresentanza politica. «Vede – dice Ferrarotti – la stranezza italiana è questa: abbiamo una rappresentanza formalmente ineccepibile, ci sono le elezioni, parlamentari e amministratori locali sono scelti dal popolo. Eppure questa rappresentanza non è più percepita come rappresentativa». Insomma un corto circuito istituzioni-Paese. Aggravato dall’elefantiasi legislativa, «una giungla che alimenta l’illegalità invece di contrastarla, da una burocrazia palla di piombo ai piedi del Paese e da una corruzione diffusa». La società dell’informazione e di Internet – eterogenesi dei fini – rischia per il professore di trasformarsi nel suo opposto. «Quando le informazioni sono numerose, invece di informare frastornano. Il chiasso mediatico impedisce ai ragazzi di formarsi una loro tavola di priorità, di distinguere quel che è importante da ciò che non lo è. Il risultato è apatia e appiattimento generale. Dall’educazione allo spirito critico, dall’autorità che fa crescere, siamo passati all’ottimismo fasullo. Il senso dell’interesse generale, la politica come scienza e arte del possibile sono andati perduti. E i giovani di tutto questo sono le vittime principali».
Quelli elencati da Ferrarotti sono gli ingredienti di un cocktail avvelenato. E non è il solo. La nuova frontiera dello sballo si chiama “binge drinking”. Consiste nell’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo brevissimo. Almeno 5-6 bicchieri di superalcolici tracannati di un fiato. Una scorciatoia per raggiungere l’ubriacatura immediata e la perdita del controllo. A leggere una recente ricerca della Fondazione Italiana Ricerca in Epatologia su 2.700 ragazzi tra i 14 e i 19 anni di licei del Lazio a praticare il binge drinking sono il 60% dei giovani. Nella fascia d’età 18-24 anni – rivela un report dell’Istat sull’abuso di alcol in Italia risalente al 2014 – il binge drinking coinvolge il 21% dei maschi e il 7,6% delle femmine. «Tale modalità di consumo è ormai consolidata in questa fascia di popolazione – scrive l’Istituto di statistica – e rappresenta la quasi totalità dei comportamenti di consumo non moderati. È interessante notare, al contempo, che il modello tradizionale di bere vino durante i pasti decresce. Come dire, la ricerca del gusto, della convivialità e del buon vivere non c’entrano nulla con questi consumi di alcool, quello che si cerca è, al contrario, l’obnubilamento della coscienza. Lo stesso che procurano le droghe pesanti e le “pasticche”. Lo stesso che si ritrova nella compulsione del gioco, che fa le sue vittime proprio tra i ragazzi e gli anziani.
A Roma – stando ai risultati del progetto “Non giocarti la vita – come prevenire la ludopatia”, ideato e organizzato dall’Arciragazzi Comitato di Roma Onlus e finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – un adolescente su sette vive da vicino i disagi del gioco. Un fenomeno, quello della ludopatia, che sta assumendo “proporzioni allarmanti” se è vero, come è vero, che un italiano su due gioca d’azzardo (54%), mentre una percentuale compresa tra l’1,3% ed il 3,8% è formata da casi “pericolosi”.
Parlare di disagio giovanile oggi significa in primo luogo fare i conti con questi numeri. E poi, dopo le cifre, capire il perché. Mettere cioè a fuoco da dove arriva quest’ansia autolesionista e la perdita di senso di quelli che sono i nostri figli e nipoti. Il disagio e in alcuni casi la devianza non sono insomma maledizioni divine, bensì figli della crisi che investe una società fondata sulla precarietà, la cancellazione della memoria, la paura del presente e l’incertezza per il futuro. Il disagio giovanile, per dirla diversamente, non è il risultato dell’ecstasy, piuttosto che del gioco d’azzardo o dell’alcool, è antecedente, viene prima.
La fuga dalla politica e dall’impegno sociale
Nel 2013 una ricerca realizzata da una televisione molto attenta al pubblico giovanile, MTV, metteva in risalto che tra i cittadini di età compresa tra i 18 e i 34 anni l’astensionismo svettava al primo posto. Solo il 45% dei ragazzi dichiara di essere felice, solo sette giovani su dieci amano vivere in Italia. La cosa più preoccupante è che un buon 74% ritiene che politica e corruzione vadano a braccetto, il 67% si dice disgustato da quello che il mercato politico offre. Una bocciatura senza appello nei confronti di una classe politica che, nella migliore delle ipotesi, viene giudicata “anacronistica e incapace di rinnovarsi”. Pochissimi, appena il 2%, quelli che si interessano ai problemi politici e il 51% di chi si informa, ritiene comunque la politica una cosa non prioritaria. Poche settimane fa a lanciare l’allarme erano stati i salesiani. Solo l’1,27% dei giovani romani s’interessa alla politica. Appena un po’ meglio vanno le cose per il volontariato, che riguarda il 5,24% del campione. Ma sempre di minoranze parliamo.
Sta insomma verificandosi qualcosa di analogo a quello che è passato nel nostro Paese col nome di “riflusso”, quel fenomeno che dopo la stagione degli anni Settanta e le sue grandi speranze porterà le nuove generazioni a rinchiudersi nel privato come reazione alla consapevolezza dell’impossibilità di un radicale cambiamento della società.
Figli del disincanto, generazione invisibile, come li ha definiti Ilvo Diamanti, i giovani europei – scriveva nel 2010 Simona Gozzo in un saggio ancora attuale, “Le giovani generazioni e il declino della partecipazione” – «costituiscono oggi quella che potrebbe definirsi come una “generazione in crisi”, attribuendo al termine le due accezioni di nella crisi e della crisi. Sebbene, infatti, la giovane età sia per definizione una fase in cui l’identità del soggetto si ridefinisce sia in relazione agli altri che in termini intimistici, questa condizione viene amplificata considerando le attuali giovani generazioni, cresciute in un contesto socio-economico ed istituzionale anch’esso critico, suscettibile di molteplici cambiamenti e caratterizzato da incertezza anche valoriale ed identitaria». E l’Italia, nello specifico, «presenta delle peculiarità strutturali che, convergendo, facilitano più che negli altri Paesi il rallentamento dell’indipendenza socio-economica dei giovani e quindi l’inserimento nel mondo sociale e lavorativo, prerequisito per un pieno e consapevole esercizio dei diritti politici e civili. La ritardata acquisizione di una stabilità sociale ed economica incide sulla costituzione dell’identità dei singoli e sulla stessa definizione degli interessi soggettivi, determinando di conseguenza un differimento nell’assunzione di responsabilità sociale, civile e politica da parte delle nuove generazioni». Insomma la fuga dalla partecipazione è una delle tante facce della mancanza di coordinate solide nelle scelte personali determinata dalla precarietà della condizione occupazione (e non solo).
Neet, il tristo primato italiano
E, all’interno della generazione invisibile, vi sono i più invisibili, quelli cioè che non studiano né lavorano. Sono i Neet, acronimo inglese che sta per “Not in Education, Employment or Training”, giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo ma neppure impegnati in un’attività lavorativa. È vero che, come dice il ministro del Lavoro Poletti con “Garanzia Giovani”, a proposito del piano europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile, è «per la prima volta che nel nostro Paese si sperimentano su larga scala politiche attive rivolte ai giovani». Ed è certo positivo che quasi 230mila delle 790mila assunzioni a tempo indeterminato che hanno fruito della decontribuzione nel periodo gennaio-agosto riguardano giovani dai 15 ai 29 anni. Eppure anche questi numeri pur significativi sembrano poca cosa di fronte all’ampiezza e drammaticità del fenomeno.
L’associazione WeWorld, in collaborazione con il Cnca, il Coordinamento nazionale della comunità d’accoglienza, e la rivista “Animazione sociale” ha presentato ad ottobre la prima indagine sui ragazzi che non studiano né lavorano. Ad emergere è una preoccupante correlazione tra questo fenomeno e la dispersione scolastica: un ragazzo su quattro, tra quelli considerati Neet, infatti, ha alle spalle un percorso scolastico legato all’abbandono scolastico (la dispersione scolastica nel nostro Paese ha assunto dimensioni allarmanti, con il 15% di ragazzi che abbandonano gli studi).
Nelle storie dei Neet, spiega la ricerca, “è poco presente la partecipazione a realtà associative e gruppi organizzati siano essi di tutela ambientale, sport, cultura, politica o impegno sociale o solidaristico. La scuola, intesa come ambiente educativo appare poco presente e poco viva. Emerge la fisionomia di scuola che non entusiasma e crea poca appartenenza”.
L’Istat calcola che in Neet tra i 15 e i 34 anni nel Belpaese siano 3,7 milioni. Una cifra da allarme sociale. Eurostat, che a differenza dell’Istat considera una fascia d’età più ristretta di quella del nostro istituto di statistica e si ferma ai 24 anni, ha calcolato comunque che la percentuale di giovani che non lavorano, non studiano e non fanno formazione in Italia è del 22,1%. Un triste primato in Europa. Acuito dal fatto che mentre altrove la percentuale di Neet scende, da noi rimane sostanzialmente stabile. La Bulgaria che in questa classifica si piazza al secondo posto ha comunque visto un miglioramento notevole passando dal 21,6% del 2013 al 20,2% del 2014. A suffragare l’anomalia Italia pure l’Istituto Toniolo. Rispetto ai coetanei di Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna, i giovani italiani sono quelli che vedono con maggior preoccupazione la situazione del proprio Paese e considerano le opportunità che offre sensibilmente peggiori rispetto al resto del mondo sviluppato.
I ragazzi italiani non credono alla possibilità di trovare un lavoro soddisfacente e adeguatamente remunerato. Uno scenario a cui si reagisce in diversi modi. O con un adattamento “al ribasso, quantomeno nel breve periodo in attesa che le condizioni possano poi migliorare” o tentando di prendere in mano il proprio futuro, mettendo in piedi un lavoro gestito in proprio. Oppure facendo le valige per cercare oltre confine le opportunità che qui sono negate. Nel 2012 sono stati 26.070 i giovani che hanno lasciato l’Italia: Germania, Regno Unito e Svizzera i principali Paesi di destinazione di questi nuovi emigranti. Risorse intellettuali ed umane che se ne vanno. Generazione dispersa e perduta, allora, chiediamo a Ferrarotti? «Tutt’altro – risponde il professore– storicamente non si è mai di fronte ad un problema irrisolvibile. Con un solo consiglio che mi permetto di dare ai giovani: attenti a chi dispensa ottimismo a buon mercato. Attenti a chi vi dice che il fattore tecnico è capace di risolvere tutto. In politica come nelle professioni. Ciò che non costa fatica non vale».
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica
Pubblicato venerdì 20 Novembre 2015
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/ragazzi-italiani-il-grande-malessere/