Sono scese in piazza e promettono di non fermare la protesta le donne statunitensi. La sentenza della Corte Suprema Usa che ha abolito il diritto all’aborto cancellando un’altra sentenza, la Roe v. Wade del 1973, mette in luce non solo le contraddizioni di una democrazia imperfetta, per come la intende il cosiddetto Occidente (non dimentichiamo che in molti degli States esiste ancora la pena di morte). Ci ricorda che le conquiste dei diritti non vanno mai date per scontate, e sono sempre frutto di lotte. Ovvio forse sottolineare le differenze con il nostro Paese. In Italia è stata una legge del Parlamento, la 194 del 1978, a disciplinare l’interruzione volontaria di gravidanza, gratuita e assistita, che venne anche sottoposta a referendum tre anni dopo con una schiacciante vittoria del No all’abrogazione.

Era il risultato della lunga e durissima ma determinata mobilitazione del Movimento femminista che negli anni 70 soprattutto portò avanti la richiesta di una gran parte della società civile: il rifiuto di far morire una donna per un “intervento” praticato con un ferro da calza, o un decotto di prezzemolo, rimedi a basso costo delle mammane capaci di mettere fine a una gravidanza non desiderata. Tuttavia pericolosissimi, perché si perdeva la vita con emorragie e dolori terribili. Solo le privilegiate, quante potevano permettersi un viaggio all’estero, si salvavano dai rischi di un aborto clandestino.

Affermare nelle infinite battaglie il diritto all’autodeterminazione delle donne sancì uno spartiacque. Un prima e un dopo. Quello che oggi ci fa indicare in terre quali l’Afghanistan o l’europea Polonia una sorta di oscurantismo medievale (se quell’età di mezzo, come ci ha insegnato Eco, non fosse stata ben altro). Eppure la legge 194 le donne italiane l’hanno sempre dovuta difendere, dalla cancellazione e dalla disapplicazione, con medici pubblici obiettori di coscienza che negli ospedali sfiorano il 70 per cento. E da ben quarantaquattro anni all’altra metà del cielo è toccato più volte dover tornare in piazza per denunciare ad esempio l’assenza di consultori, spesso affidati – paradossalmente – ad associazioni prolife. E per tutelare la legge da attacchi politici di sigle spesso a braccetto con le destre sovraniste.

Oltreoceano in tredici Stati americani è già illegale abortire, e altri sette li seguiranno a breve. Venti su cinquanta. In qualche caso, come nel Massachusetts, dove governa il repubblicano Charlie Baker (uno dei pochissimi “pro choice” di quel partito) si offrirà “asilo” alle gestanti di altri Stati. E, sembrerebbe, negli Usa dove impera la sanità privata diverse aziende quali Apple e Amazon, Disney, Meta, Microsoft, sosterranno le spese di viaggio delle dipendenti costrette a spostarsi per interrompere una gravidanza.

E saranno destinate probabilmente a morire in tante tra le donne americane non lavoratrici di illuminate società, e le immigrate, magari messicane clandestine, e la solita maggioranza nella maggior parte dei Paesi del mondo. Anche dell’altra metà del cielo a stelle e strisce.

Il tema della “scelta”, di decidere del proprio corpo, potrebbe inoltre diventare argomento cruciale della campagna elettorale di metà mandato. Lo auspichiamo, consapevoli che per le donne, e ci auguriamo con loro gli uomini, sarà durissima. Come hanno già dimostrato i tentativi di limitare il facile accesso all’acquisto di armi dopo le ripetute stragi nelle scuole, nei supermercati, in strada.

E vedremo che ne sarà della legge bipartisan di stretta sulle armi approvata un paio di giorni fa in Senato. Perché fa strano prendere atto dell’incongruenza affermata dalla Corte Suprema con la sentenza e cioè che un embrione o un feto siano soggetti da proteggere mentre a chiunque capiti sotto tiro di stragisti quasi bracci armati della destra estrema americana, o alle donne che volessero abortire senza ricorrere a decotti, il diritto di vivere sia negato.